Vorrei segnalare due nuovi fatti che riguardano le discussioni sull’etica della scienza e della ricerca, ancora vive su questo blog (segnalo che le adesioni alla nostra richiesta di dimissioni a Massimo Inguscio, Presidente del CNR e purtroppo anche della Commissione Nazionale per l’Etica della Scienza continuano a fioccare: vedi https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2016/04/presidente-cnr-ricerca/).
Un primo fatto, molto significativo, è per tutti noi motivo di grande conforto: la lettera di Gaetano Manfredi, presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca e al Presidente del Consiglio, la quale adotta la posizione di Elena Cattaneo e di Giovanni Bignami, e naturalmente di molti altri scienziati e ricercatori, su un punto cruciale: l’inaccettabile arbitrio con cui il Governo ha nominato un particolare ente, l’Iit, destinatario del cospicuo finanziamento previsto, invece di affidare la selezione dei progetti (all’interno della mega-area, quella bio-medica, che è legittimo il Governo scelga come particolarmente importante per il Paese) alla valutazione competente, oggettiva e terza di un soggetto che non sia né il Governo né singoli istituti di ricerca, per evitare sudditanze politiche e conflitti di interesse. Ma questo errore, scrive il Presidente della CRUI, E’ ANCORA CORREGGIBILE:
“Per l’ambizione degli obiettivi e la portata degli interventi, Human Technopole può andare oltre i progetti di ricerca e le grandi infrastrutture scientifiche: può diventare un incubatore di buone pratiche, una sfida di modernità che interesserà il presente e il futuro di luoghi, istituzioni, imprese, cittadini. È un leading edge project su cui inevitabilmente saranno misurate e valutate la credibilità, la qualità e lo spessore dell’annunciato cambio di passo politico, ma anche l’efficacia della conoscenza posta al centro del cambiamento, a motore di innovazione.
Riteniamo inopportuno attribuire governo e direzione di un tal progetto ad un unico soggetto, di natura privata e individuato senza alcuna valutazione comparativa. Se tale indirizzo è stato assunto temendo l’eccessiva complessità e farraginosità in cui operano la ricerca e le università pubbliche, allora il progetto HT diventi la leva per cambiare le regole, per tutti e subito, in modo da potersi confrontare e misurare sullo spessore e sul valore delle idee e dei progetti. Anche proposte gestionali che prevedano una collaborazione pubblico-privata possono essere nuovi strumenti di coinvolgimento e responsabilizzazione del sistema pubblico della ricerca, quel sistema che già oggi permette all’Italia di essere nelle prime posizioni al mondo per produttività di ricerca scientifica.”
Vedi l’intera lettera qui:
Speriamo che Ministro e Presidente del Consiglio ascoltino: vorrà dire che la nostra battaglia non è stata vana.
Il secondo fatto rilevante è che ora la discussione è in corso non solo fra scienziati e umanisti, ma anche fra tutti noi e la stampa. I giornalisti. Io vorrei personalmente ringraziare Gianni Barbacetto, che da sempre esercita, ovunque possa, esattamente la funzione di veglia e pubblico controllo che la stampa dovrebbe esercitare sulle istituzioni, nonché sulle bufale che girano anche a mezzo stampa, quando l’entusiasmo prende troppo la mano a chi scrive, in particolare a sostegno di iniziative governative. Vorrei ringraziarlo in particolare (ma, credo, anche a nome di tutti noi) per aver voluto pubblicare sul suo giornale anche la lettera fortemente critica che duecento scienziati avevano inoltrato a “Il Fatto Quotidiano” (e pubblicato anche, prima della risposta, su “Scienza in rete”: vedila qui: http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/autori-vari/lettera-al-direttore-de-fatto-quotidiano-difesa-della-scienza).
Questa lettera fu inviata in seguito in seguito a un articolo dello stesso Barbacetto (“Il Fatto Quotidiano” 08/05/2016) su un altro aspetto di Human Technopole e del post-Expo: le mirabolanti promesse che – sempre sulla stampa – erano state diffuse a proposito dell’uomo del futuro, “quasi immortale, che nascerà dai padiglioni vuoti di Expo” (così la copertina di “Sette” del 08/01/2016 vedila qui: http://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2016/05/uomo_del_futuro2c_quasi_immortale2c_nascera_nei_padiglioni_vuoti_di_Expo.pdf ).
Sul sito di ROARS leggiamo anche: “Una promessa che secondo Sette, l’inserto del Corriere, ha influenzato anche il progetto Human Technopole: «I rumors raccontano che sia stata una sua relazione [di Pelicci] a Cernobbio, al Forum Ambrosetti, ad avere acceso una lampadina nella testa di Renzi»”.
In effetti all’origine di questo entusiasmo stanno importanti ricerche condotte nei tardi anni ’90 dal professor Pier Giuseppe Pelicci su un certo gene (P66) che poteva essere identificato fra i fattori responsabili della mortalità animale e umana; le scoperte di Pelicci, in seguito, furono ridimensionate, e dallo stesso Pelicci, sulle maggiori riviste internazionali – nel perfetto e non così diffuso rispetto (Thomas Kuhn, Imre Lakatos, Paul Feyerabend) della trasparenza rispetto alle falsificazioni (o disprove) di ipotesi scientifiche. L’entusiasmo dell’articolista di “Sette” era dunque ampiamente fuori tempo, anche se questa storia dell’elisir di lunga vita basato sull’idea di spegnere il gene della mortalità certo non poteva esserselo inventato lei.
Del resto, a parte che come tutti sanno una falsificazione è un progresso di conoscenza, questa non impedì a Pelicci e collaboratori di illustrarsi con altre importanti scoperte che contribuiscono oggi a salvare migliaia di vite di malati di leucemia. Sono questi i punti principali della lettera dei Duecento, che rimproverano a Barbacetto di non averne tenuto conto e testimoniano solidarietà a Pelicci, uno dei più importanti ricercatori italiani noti nel mondo.
Ma infine, è vero che era giornalisticamente interessante, proprio perché il dibattito pubblico relativo all’origine del progetto Human Technopole è in corso, raccontare la vicenda del P66, che è l’anello che lega Pelicci a questo progetto. E ora scienziati, umanisti e giornalisti stanno discutendo.
La pubblicazione della lettera dei duecento scienziati e la risposta del giornalista fanno luce su una cosa che non dovremmo ignorare: la trasparenza passa anche per questo reciproco incontrarsi, a volte, di persone abituate a pubblicare su riviste tanto prestigiose quanto esclusive, come quelle scientifiche di alto livello, e persone il cui compito è proprio quello di mettere i cittadini, anche i più ignari della scienza e della sua filosofia, in grado di esercitare i loro doveri e diritti di cittadinanza, fra cui il controllo delle modalità di erogazione dei finanziamenti pubblici per la ricerca.
Norberto Bobbio definiva la democrazia “il regime del potere visibile”, o trasparente. Ma come si fa a renderlo trasparente se non esercitando anche dal basso l’attenzione e la critica? Non è forse la frase “chi sono io per giudicare”, o la più sottile “che cosa ne so io per metterci bocca” la premessa del qualunquismo e della rinuncia ai doveri di cittadinanza, o addirittura (Hannah Arendt) di peggiori indifferenze e/o connivenze? Non sta questa seconda frase generando già gli effetti disastrosi della leggerezza con cui molti di noi accettano di “non metter bocca” nella maggior parte delle decisioni che pure tanto profondamente determineranno il destino di tutti noi, come quelle che oggi addirittura riguardano il nostro patto di cittadinanza, quello che a nessun cittadino italiano è veramente lecito ignorare, o giudicare materia “troppo tecnica”?
Si dirà che questo non c’entra. C’entra eccome, invece. La scommessa illuministica della democrazia non fu per caso lanciata nel mondo ai tempi in cui la nostra tutta umana e sommamente fallibile ragione si scoprì adulta in campo pratico, etico e politico, ma non solo: si affermò universalmente accessibile in campo scientifico o cognitivo, almeno virtualmente, ad ogni essere umano di buona volontà. Il faccia a faccia del chiedere e dare ragione è la radice più profonda – e purtroppo anche la più fragile – della democrazia, e questa radice è comune a quella della ricerca di conoscenza. Averlo scoperto ed eretto a stile di vita, fin dai tempi di Socrate, ben prima della modernità, questo faccia a faccia delle buone ragioni che si oppone alla logica lealista delle appartenenze: questo è il nostro orgoglio. E’ il miglior frutto della filosofia.
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