Ieri la ricercatrice Roberta D’Alessandro, in risposta a un’uscita del ministro Giannini, che si era vantata dei buoni risultati italiani nell’ottenimento di fondi ERC (European Research Council) ha pubblicato un post, al quale rimando con il seguente link.
Ora, questo post sta furoreggiando sul Web (o almeno in quella parte del web interessata alle sorti dell’università) e sta per essere ripreso e discusso da diverse testate giornalistiche.
C’è però qui un problema, implicito nel testo stesso della ricercatrice, e che rischia di essere ampiamente strumentalizzato lungo linee già consolidate.
Nel post si sostengono tre tesi di fondo.
La prima, pienamente condivisibile, sostiene che il Miur non può vantarsi di risultati ottenuti da ricercatori italiani che stanno svolgendo la propria attività all’estero, dopo che essi non hanno trovato spazio nell’università italiana.
La seconda tesi, comprensibile, anche se più delicata, implica che quei ricercatori siano stati vittime di ingiustizie nelle valutazioni accademiche italiane, mentre invece avrebbero trovato immediatamente un ambiente fertile e accogliente in sedi estere. Questa tesi si connette all’usuale quadro dell’accademia italiana che evoca idee di ‘baronia’, ‘nepotismo’, ecc. Si tratta però di un quadro parziale e troppo spesso strumentalizzato.
Che in Italia, in ambito accademico come in ogni altro, ci sia un ricorso comparativamente superiore a criteri di giudizio ‘politici’, ‘nepotistici’ ecc. è sicuro. Ma questa è anche una prospettiva che lascia fuori alcuni fattori concorrenti essenziali.
Infatti, chi abbia viaggiato un po’ sa che forme di giudizio idiosincratico e ‘amicale’ sono ben presenti anche in valutazioni accademiche in altri paesi europei o nordamericani. Ciò che cambia è solo in parte la frequenza di tali giudizi. Il problema italiano è soprattutto concentrato nel fatto che la ristrettezza delle posizioni disponibili fa sì che, se una valutazione va male (per sfortuna, distorsioni mafiose, o qualunque altro motivo, più o meno commendevole) si possono attendere anni per una seconda occasione (e siccome spesso uno non può attendere anni, ciò comporta chiusure di carriera definitive).
Inoltre, ‘baronie’ e mancanza di fondi NON sono problemi disconnessi: la mancanza di fondi costringe a selezioni in cui necessariamente un certo numero di egualmente meritevoli vengono lasciati fuori. Ciò rende sempre decisivo l’appoggio di qualche amico altolocato per fare carriera e di conseguenza crea il terreno dove le baronie acquistano potere. La carenza di fondi e posizioni, costringendo anche quelli bravi a contare sulla benevolenza di personaggi accademicamente altolocati, non mina, ma al contrario rinforza i meccanismi ‘baronali’.
La terza tesi, adombrata nella parte conclusiva del post, è, credo, sbagliata e seriamente controproducente.
Si fa passare l’idea che l’ottenimento di finanziamenti europei (come gli ERC grants) sia o debba essere un criterio fondamentale per la selezione della classe accademica.
Qui ci sono numerose cose che non vanno.
La prima è che in una valutazione per ingressi o progressioni di carriera l’ottenimento di grant internazionali può essere senz’altro un criterio di valutazione in un curriculum, ma non può certo essere un criterio univocamente dominante. È ovvio che didattica e ricerca nel suo complesso devono essere valutate e rappresentano il nocciolo di un giudizio complessivo: non ci sono scorciatoie che passino dal conteggio delle ‘medaglie’ rappresentate da grant e premi.
La seconda è che la partecipazione a queste richieste di grant a sostegno della ricerca richiedono un considerevole lavoro, che può essere supportato più o meno bene (talvolta niente affatto) dalle istituzioni universitarie di appartenenza; il che significa che, senza nulla togliere ai vincitori, non è egualmente facile partecipare con buone chance di vittoria muovendosi da certe sedi piuttosto che da altre.
L’ultima idea che traspare dal post, è a mio avviso la più dannosa: si tratta dell’idea che i fondi per fare ordinariamente ricerca (non dunque fondi per straordinari progetti di ricerca, che richiedono budget fuori dall’ordinario) debbano essere ottenuti con processi competitivi, anzi con processi competitivi estremamente selettivi come quelli ERC. Partecipare ad una richiesta per un grant del genere richiede di norma lunghi tempi di lavoro preparatorio, a fronte di una possibilità di vittoria di circa l’1%. Visto che la quasi totalità delle domande sono domande fatte in modo serio, ciò significa che il 99% di progetti di ricerca dotati di senso vengono cassati e che tutto il lavoro svolto per la loro preparazione risulta infine essere lavoro sottratto alla ricerca e, semplicemente, buttato. Questo non può essere un processo di finanziamento normale.
Nel nome di una presunta eccellenza selettiva (peraltro altamente discutibile, ma questa sarebbe un’altra storia), si fa passare l’idea che i fondi di ricerca debbano essere solo rari premi straordinari per rari progetti straordinari. Ma questo finisce per essere un modo, semplicemente, per ammantare di ‘meritocrazia’ il crescente ritiro del contributo pubblico dalla ricerca.
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