Nel novantesimo anniversario dell’assassinio del venticinquenne Piero Gobetti, credo che tutta la nostra piccola comunità dovrebbe rendere almeno l’omaggio di un ricordo a questo ragazzo fiero e limpido, che in pochissimi anni di vita tentò di raccogliere il pensiero più vivo della – ancora oggi incompiuta, vera “Rivoluzione liberale” italiana (basta pensare che non sappiamo ancora se il Parlamento italiano accetterà o per l’ennesima volta disattenderà, con l’integrità del ddl Cirinnà, il principio di laicità dello stato, vedi intervento di Stefano Cardini poco sotto).
Questo venticinquenne “convinto che la stessa testimonianza del sacrificio fosse una affermazione di valore politico in un Paese dove la grande maggioranza della gente era propensa al compromesso piuttosto che al rigore, ed era portata all’unanimità del conformismo piuttosto che all’eresia della critica”. Starebbe a noi, e soprattutto a voi venticinquenni di oggi, dargli nei fatti torto o ragione. Spero che gli darete ragione.
“«Era un giovane alto e sottile, disdegnava l’eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi gli ombreggiavano la fronte». Così un amico degli anni giovanili, lo scrittore e pittore Carlo Levi, descriveva la figura di Piero Gobetti, molti anni dopo la sua morte prematura, avvenuta dopo una breve esistenza vissuta con febbrile attività di intellettuale militante della cultura e della politica.
Nato a Torino il 19 giugno 1901, da genitori di origine contadina che in città si erano dedicati al piccolo commercio, Gobetti aveva compiuto da poco diciassette anni, quando, ancora studente di liceo, il 1° novembre 1918 fondò una rivista quindicinale «Energie Nove», «scritta da giovani e diretta specialmente ai giovani», come egli stesso la definiva in una lettera. Gobetti non aveva ancora compito 21 anni quando, conclusa nel 1920 l’esperienza della prima rivista, il 12 febbraio 1922 avviava la pubblicazione di una rivista settimanale, «La Rivoluzione Liberale», presto affiancata da una casa editrice e due anni dopo anche da una rivista di critica letteraria, «Il Baretti».
E non aveva ancora compiuto 25 anni Gobetti, quando morì esule a Parigi, il 15 febbraio 1926, dopo aver lasciato l’Italia per sottrarsi alle persecuzioni fasciste e proseguire nella capitale francese la sua attività di editore.
Durò dunque appena otto anni l’esperienza culturale e politica del giovane intellettuale torinese. Ma in quegli otto anni il suo pensiero e la sua attività, pur nella rapidità di uno svolgimento precocemente stroncato dalla morte, lasciarono un segno originale nella cultura politica dell’Italia contemporanea, soprattutto per il valore etico della sua rigorosa e intransigente opposizione al fascismo trionfante nei primi anni di Mussolini al potere.” (continua a leggere l’articolo pubblicato sul Sole 24 ore e poi ripreso dal sito di Libertà e Giustizia qui)
Solo una citazione, da molti conosciuta, ma che è bello ricordare:
«Sapevamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli, Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, apprendisti italiani. In fondo era proprio per questo che eravamo in giro per le montagne; facevamo i fuorilegge per Rosselli, Salvemini, Gobetti, Gramsci; per Toni Giuriolo. Ora tutto appariva semplice e chiaro. Sospiravamo di soddisfazione perché era arrivato Toni, e anche nelle rocce, nel bosco, pareva che se ne vedesse un segnale.» (Meneghello)
La lotta per la libertà e la giustizia dei “piccoli maestri” aveva –come si vede- «radici di carta e di pensieri» che produssero, unitamente a quella di altre migliaia di giovani, un reale, durissimo confronto, grandi sofferenze e infine frutti importanti, tra i quali il voto alle donne e -a prezioso coronamento dello stesso- la Costituzione Repubblicana. Manomettere quest’ultima con superficialità e leggerezza è tagliare le nostre più nobili radici.