Riprendiamo e volentieri rimandiamo a Dopo il venerdì 13 della Francia di Andrea Zhok, Scenari, Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis
Nell’immediatezza delle reazioni agli attentati di Parigi, alla commozione è subentrata l’indignazione e poi la rabbia, con il ragionevole corollario del desiderio di una risposta all’altezza dell’aggressione. Questi impulsi hanno preso due principali direzioni, l’una interna e civile, legata al rapporto con le comunità islamiche risiedenti in Europa, una seconda esterna e militare, concernente l’atteggiamento da prendere nei confronti del cosiddetto ‘califfato’. È presto per dire dove queste spinte ci porteranno: nella storia eventi successivi possono modificare il senso di quelli precedenti, e dunque l’attuale quadro potrebbe facilmente radicalizzarsi o allentarsi. Ma allo stato è importante conservare una qualche lucidità, mirando ad ottenere una visione pragmaticamente spendibile. In questa sede vogliamo spendere qualche parola solo con riferimento al primo punto, riflettendo brevemente su alcuni degli aspetti posti dalla convivenza con le comunità islamiche residenti in Europa.
1. Una cautela preliminare. Sui media, in questi giorni, si è notata una curiosa reazione da parte di molti personaggi di spicco, prevalentemente intellettuali; tale reazione può essere riassunta in una frase: “È giunto il momento di rassegnarci alla limitazione di alcune delle nostre libertà, che in un momento di crisi come questo si presentano come privilegi non più sostenibili”. Il senso psicologico di questa posizione sembra abbastanza chiaro. Gli intellettuali sono associati normalmente alla richiesta di tutele di diritti e libertà. Rassegnandosi per primi alle loro limitazioni è come se sacrificassero sull’altare della Realpolitik il loro agnello più grasso. In verità, però, in assenza di precise specifiche, questa ‘disponibilità al sacrificio di diritti’, sembra un gesto di natura essenzialmente psicologica e apotropaica. Purtroppo qui non si tratta di sacrificare un diritto come se fosse un capretto, pregando nella successiva benevolenza degli dei. Che limitazioni a libertà e diritti possano essere necessari è altamente probabile, e in parte sta già accadendo, ma si tratta di capire esattamente e pragmaticamente quali diritti può, eventualmente, essere utile limitare, per quali scopi, con quali funzioni, per quanto tempo. In assenza di un dettaglio di queste ragioni, i margini di potenziali abusi sono evidenti e non andrebbero sottovalutati.
2. Corpi estranei? Per chi agita la bandiera di un rigetto aggressivo delle comunità islamiche residenti, la prima cosa da tenere presente è un sano dato di realtà. Può piacere o meno, ma in Europa ci sono oggi circa 16 milioni di islamici residenti, più o meno come la popolazione di Grecia e Austria messe insieme. Pensare di andare ad uno scontro frontale con gli islamici residenti in quanto islamici non è solo ingiusto, è soprattutto autolesionista: comporterebbe una spinta alla radicalizzazione in persone che altrimenti non ne avrebbero alcuna intenzione, e creerebbe un problema di dimensioni ingestibili, al livello di una guerra civile. In molti paesi, Francia in testa, il retaggio coloniale ha fatto sì che oggi siano islamici cittadini europei nati e cresciuti in Europa. Al frequentatore medio dello stadio, che brandeggia l’idea della cacciata degli islamici residenti, può essere utile ricordare, per dire, che l’ex capitano della nazionale francese di calcio, nonché Pallone d’Oro, Zinedìne Zidane era un islamico residente (e il suo nome, a ulteriore sfregio, significa ‘bellezza della religione’). Ergo, l’idea di poter eradicare gli islamici come un corpo estraneo dal corpo sano delle genti europee non è tanto una tesi illiberale o immorale, quanto più semplicemente una tesi irrealizzabile e dannosa.
3. Jihad. Il terrorismo islamico è parte del radicalismo jihadista, che rappresenta un piccolo sottoinsieme dell’islamismo salafita (conservatore e volto alla reistituzione della shari’a), che a sua volta è un sottoinsieme dell’Islam sunnita, che include circa il 90% del mondo islamico. Lo jihad è talora considerato all’interno della visione islamica come un sesto pilastro della fede, accanto ai cinque principali e universalmente accettati (l’accettazione senza remore di Dio, le preghiere rituali, la donazione obbligatoria o zakat, il digiuno del Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca). Tuttavia il senso di ‘jihad’ è molto più ambiguo di quanto ci si potrebbe aspettare. Lo jihad (letteralmente ‘lotta’ o ‘sforzo’) nella tradizione islamica indica innanzitutto la lotta interiore per migliorare nella fede e solo incidentalmente la lotta esteriore nei confronti degli Infedeli. Dal punto di vista dottrinale un’interpretazione dello jihad che possa essere compatibile con atti terroristici è estremamente minoritaria, praticamente trascurabile, e sarebbe sbagliato vedere in ciò una radice significativa del nesso tra islamismo e terrorismo.
4. L’Islam come problema. Ma se è una grossolana sciocchezza pensare che un musulmano in quanto tale debba essere, o sentirsi, complice di un terrorista, è anche un’illusione pensare che il terrorismo di cui ora piangiamo i morti non abbia niente a che fare con la religione e cultura islamica. Ma quale sia il nesso richiede un momento di riflessione.
L’Islam ha realmente alcuni tratti intrinseci che tendono a creare condizioni di attrito con le istituzioni occidentali. (Da qui in avanti, con ‘istituzioni’ intendo la totalità delle strutture e dei meccanismi che governano e preservano un determinato ordine sociale, non solo dunque quelle sancite da leggi positive). Questi tratti non sono necessariamente monopolio dell’Islam ed altre visioni religiose, tra cui tutte le religioni del Libro, presentano aspetti che sono stati, o possono essere, parimenti problematici. Tuttavia, nell’Occidente odierno, la posizione dell’Islam è peculiare. (…)
Tutti elementi di riflessione interessanti e in larga parte condivisibili. Mi resta un dubbio, tuttavia, forse decisivo. Riguarda l’invito o addirittura il sostegno normativo alla delazione, come pure l’evocazione di leggi speciali volte a sospendere alcune garanzie democratiche nella supposta presenza di continguità, non facilmente identificabili, con ambienti del terrorismo. Come sappiamo, in Italia abbiamo avuto almeno due esperienze del genere, che Andrea peraltro evoca: la violenza politica tra gli anni ’70 e ’80; la criminalità mafiosa degli anni ’90. Non sono sicuro che processi come quello del “7 aprile” o fattispecie penali come il “concorso esterno in associazione mafiosa” abbiano offerto un contributo decisivo o anche solamente importante alla lotta contro i due fenomeni, il secondo dei quali peraltro tutt’altro che sconfitto. Certamente, però, hanno consentito numerosi abusi contribuendo a innescare e alimentare un processo di degenerazione dei rapporti tra società, politica e funzione giudiziaria ancora oggi sotto i nostri occhi. Non so quante storie come quella di Abdelmajid Touil, il giovane marocchino ingiustamente accusato della strage del Bardo, e rilasciato in condizioni pietose dopo ben 5 mesi per manifesta infondatezza delle accuse, potrebbero verificarsi oggi. Mi chiedo però quante se ne potrebbero verificare se iniziassimo a concedere anche formalmente spazio a una legislazione e a una prassi ispettiva antiterroristica d’emergenza. Se l’obiettivo è, giustamente, quello di sollevare gli islamici d’Europa da ogni sospetto di contiguità con il terrorismo, dobbiamo anche preoccuparci di evitare abusi come questo nei loro confronti, abusi che peraltro già avvengono (interessando immigrati e no) con la normativa e la prassi vigente. Altrimenti, come è già accaduto in frangenti storici passati, non faremo che gettare benzina sul fuoco del radicalismo ideologico.
Non sono sicuro di capire l’obiezione. Come dici tu stesso abusi di carcerazione preventiva e simili non dipendono da leggi speciali. Al di là del riferimento a ‘leggi speciali’, riferimento tecnicamente corretto, ma che ho evitato per non evocare altre leggi speciali storiche, non sempre commendevoli, il punto centrale è un altro. (1) Al momento non c’è alcuna ragione perché qualcuno non complice, ma solo tollerante degli islamici radicali, ne segnali la presenza alle forze di sicurezza. Fornire una delazione in tali casi rappresenta una rottura dell’omertà tipica dei gruppi a base comunitarista (come le comunità islamiche) e porta sia discredito che rischio a chi lo fa. (2) La presenza delle zone grigie è al contempo un supporto implicito al terrorismo ed un alimento alla stigmatizzazione generica dell’Islam da parte dei non islamici. Quali delle due cose sia più pericolosa è dubbio, ma lo sono entrambe e molto. (3) Leggi che rendano oggettivamente rischioso (reato) la mancata comunicazione di tratti di radicalizzazione è il modo più semplice di incentivare una netta separazione tra estremisti e non: i non estremisti potrebbero dire apertis verbis ai propri correligionari che la semplice presenza di discorsi ed atti afferenti alle attività di radicalizzazione ideologica danneggia anche loro e le loro famiglie. – E per inciso, ciò che intendo va molto al di là dell’esplicita attività preparatoria ad atti di terrorismo. E’ importante notare che fino a questo momento l’appartenenza all’Islam ha rappresentato, anche in paesi laici come la Francia, una scusante o attenuante per atteggiamenti e proclami altrimenti considerati inaccettabili (l’omofobia, l’antisemitismo e la proclamata subordinazione delle donne sono espressi continuamente e massicciamente nelle comunità islamiche; queste sono discussioni che in Francia e Belgio hanno già una vera e propria letteratura a proposito; in Italia conosco meno la situazione e probabilmente risalta di meno perché i numeri sono diversi, ma tenderei a dubitare che siamo un’eccezione).
Vorrei capire meglio anche io, allora. Gli abusi sono già possibili e reali, certo. Però al momento sono abusi. Intervenire normativamente o comunque nella prassi applicativa, come mi pareva tu richiedessi, potrebbe trasformare quelli che ora appaiono abusi in qualcosa di lecito (per esempio, che so, sui tempi o sui requisiti necessari per attuare un fermo di Polizia o per procedere ispettivamente sulla base di un’ipotesi di reato del genere del “favoreggiamento” e simili). Quando scrivi che «È auspicabile che ciò avvenga ovunque spontaneamente, ma è inevitabile che obblighi normativi accompagnino questo processo. Ogni forma di contiguità e supporto ad elementi radicali così come ogni mancata delazione di fatti pertinenti (come tentativi di reclutamento, ecc.) devono rappresentare fattispecie di reato penale» io intendo che qualche norma deve essere cambiata o aggiunta o più drasticamente interpretata, il che appunto evoca quanto scrivevo sopra. Altrimenti vorrei capire meglio a che genere di suasion non puramente morale, immagino, ci riferiamo. Una cosa è il lavoro culturale e politico con e sulle comunità, insomma. Un’altra le norme e l’applicazione di norme.
Il primo attentato terroristico contro civili inermi è stato compiuto a Parigi, nel 1894, da Emile Henry. Una bomba da lui piazzata in un café causò un morto e venti feriti. Si trattava di un oscurantista religioso? No, bensì di un anarchico che agiva in nome degli ideali di liberté, egalité, fraternité. Voleva colpire i borghesi, secondo lui colpevoli di non rispettare la vita umana.
Consglio all’autore dell’articolo di comprare e leggere una copia di “Dialettica dell’illuminismo”, perché quel che scrive è fuori tempo massimo di almeno 70 anni.
@Stefano. – Ho capito cosa intendi, ma non c’entra con quanto cercavo di dire. In primo luogo, il discorso che facevo non si rivolgeva al solo contesto italiano. Ci tenevo a suggerire una linea di discrimine teorica capace di sostenere modifiche normative che andrebbero concordate ed adottate a livello europeo. Forse l’esempio del ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ risultava fuorviante, suggerendo un’applicazione specificamente italiana. Il tipo di modifiche normative che suggerisco non hanno nulla a che fare con l’allungamento dei tempi di custodia cautelare, che in Italia sono già ampiamente eccessivi e che uniti ad una cronica lentezza della giustizia sfociano regolarmente in abusi (5 mesi per stabilire un alibi sono uno scandalo). Ciò che suggerivo prende di mira invece uno specifico atteggiamento, giuridico e culturale. Finora, in particolare in alcuni dei paesi più coinvolti nell’attuale sfida con il terrorismo islamico (Belgio, Francia), si è collocata sotto la voce di una (malintesa) tolleranza un’accettazione di opinioni intolleranti. Nel nome della libertà di pensiero e d’opinione, e del rigetto dei ‘reati d’opinione’, in alcuni paesi si è data carta libera ad alcune minoranze, specificamente islamiche, di raccogliere e propagandare materiale servito per attività di reclutamento; inoltre giudizi pubblici di ordine antisemita, omofobico, sessuofobico e misogino hanno avuto libero corso. Tutto ciò è avvenuto e continua ad avvenire, nella generale tolleranza delle comunità islamiche stesse. Quello che intendo è semplicemente che estendendo alcune fattispecie di reati d’opinione (che incidentalmente sono fortemente correlate con una specifica visione religiosa) e estendendo la responsabilità anche alla tolleranza passiva e alla mancata denuncia, si può spingere quella parte, maggioritaria, delle comunità islamiche ad assumersi la responsabilità di isolare ed allontanare i soggetti più proni a istanze radicali.
@ Mario Salmantra. Grazie del suggerimento bibliografico. Purtroppo arriva in ritardo di trent’anni. Quando riterrà di prendersi la briga di una critica circostanziata, sono a sua disposizione.
@Andrea. Capisco perfettamente l’esigenza di tornare a stigmatizzare, anche senza escludere il ricorso a strumenti normativi, il linguaggio oltre che i comportamenti discriminatori, intolleranti, offensivi. Naturalmente, questo richiederebbe una consapevolezza anche da parte dei media e di chi li frequenta ben diversa da quella che sperimentiamo. E non mi riferisco solamente a chi titola “Bastardi islamici” per poi venirci a spiegare la differenza, bontà sua, tra sostantivi e aggettivi; oppure a chi, per esprimere il proprio dissenso usa sistematicamente il dileggio, la caricatura, anche fisica, se non l’insulto; bensì alla tolleranza che molti programmi televisivi non meno delle più frequentate testate e blog on line, con la sola eccezione forse de La Stampa, hanno nei confronti dei commenti dei loro utenti alle notizie, agli articoli e ai commenti altrui. Intendo dire che la retorica del politicamente scorretto, probabilmente sottovalutata, insieme al progressivo degradarsi del linguaggio politico, ha prodotto danni ingenti al discorso pubblico, dilatando a dismisura i margini di tolleranza verso l’intolleranza, anche la più gratuita. È una coltura in cui i germi della violenza proliferano e verso la quale andrebbe assunto un atteggiamento molto sorvegliato. Non è direttamente attinente, ma forse provare a rovesciare un attimo il nostro punto di vista sull’islamizzazione, come fa l’articolo che segue, può darci qualche chiave in più. La tribalizzazione del discorso pubblico e lo scollamento, l’incomprensione e la frustrazione generazionale sono forse due fenomeni che s’intrecciano e s’alimentano, costringendoci a farci delle domande sul genere di ecosistema informativo e comunicativo che tende a prevalere.
http://www.internazionale.it/opinione/olivier-roy/2015/11/27/islam-giovani-jihad
Ci riprovo con un altro esempio. La parola “terrorismo” è stata usata per la prima volta per descrivere quanto accadeva durante il cosiddetto regime del terrore, instaurato nel corso della Rivoluzione Francese. Era tale terrorismo causato da oscurantiste visioni del mondo, religiose, misogine, sessuofobe? No, bensì era operato in nome del progresso e della ragione.
Se lei, dunque, crede che il problema del terrorismo sia l’esistenza di visioni del mondo oscurantiste e retrograde, è fuori strada. Se vuole difendere i valori della Rivoluzione Francese, progresso, laicità etc, non ha capito che deve al contempo interrogarsi sui lati oscuri di quella vicenda, e della nostra “religione civile”. Tanto per fare un altro esempio, non si è mai chiesto perché gli intellettuali marxisti erano entusiasti sostenitori della rivoluzione islamica di Khomeini?
Per questo le suggerisco di (ri)leggersi Adorno e Horkheimer. E, già che c’è, si legga anche Glucksmann sull’11 settembre.
Caro Mario, cosa vuole che le risponda, visto che non ho detto da nessuna parte che il terrorismo in generale (o ciò che di volta in volta si definisce terrorismo) sia SEMPRE dovuto a posizioni oscurantiste? Solo che se lei vuole convincermi che le posizioni violentemente retrive di una parte della cultura islamica non hanno nulla a che vedere con i recenti episodi di terrorismo, mi spiace ma non c’è proprio nessuna lettura di Adorno o Glucksmann, Rasputin o Sade, che mi convincerà che le cose stiano così. Che non sia SOLO una questione di matrice religiosa, naturalmente mi è chiaro (ed è anche scritto nel pezzo che staremmo commentando).
Tutto vero, Stefano, solo che sia io che te è tutta la vita che stigmatizziamo gli atteggiamenti beoti, violenti e razzisti di certa stampa. E continueremo a farlo, naturalmente. Al contrario, è la prima volta che credo ci siano fondati elementi per prendere una posizione ANCHE nei confronti di una particolare cultura religiosa in quanto tale, e delle relative degenerazioni.
Sto provando a farla riflettere sul fatto che il terrorismo storicamente è nato proprio da chi voleva estirpare l’oscurantismo, e non dall’oscurantismo stesso. L’oscurantismo ha fatto e fa tante brutte cose, ma non ha inventato il terrorismo. Questo è un semplice dato storico. Allora, se lei vuole interrogarsi su come estirpare il terrorismo, dovrebbe andare alla radice storica di esso. Che si trova, per quanto possa inquietare noi moderni illuminati, nella Rivoluzione Francese.
Che cosa, nel progetto della modernità, ha fatto sì che si credesse legittimo imporre idee giuste a prezzo della morte di civili inermi? Questa è la domanda da cui partire. Se manca questa autocritica, cosa vogliamo insegnare agli altri?
Grazie Mario Salmantra, per cercare di farmi riflettere. Magari cominci lei, dando il buon esempio, visto che è ovvio anche ad un cieco che gli attentatori del 13 novembre a Parigi c’entrano con il progetto della modernità, quanto i Metallica c’entrano col Canto Gregoriano.
@Mario Salmantra Naturalmente è sempre possibile dilatare il senso di quel che chiamiamo modernità, tanto è vago e ambiguo, fino a coprire quasi qualunque evento, specie se sgradito. E a quel punto far risalire al Terrore seguito al 1789 ogni forma di violenza politica idealmente orientata che sfidi fino alle estreme conseguenze l’ordine politico costituito: abbiamo tutti letto I demoni di Dostojevski oltre che la Dialettica dell’Illuminismo. Si ottiene una spiegazione apparentemente potente, ma quanto poco penetrante. E quanto nostalgicamente consolatoria e fuorviante. L’età dei Lumi ha le sue ombre, è banale, ma fino a prova contraria non solamente non ha introdotto la morte di civili inermi nella storia, che già ne aveva massacrati milioni, ma tutt’al più il vincolo morale a uccidere, e come ultima ratio, soltanto in nome di un’idea “giusta” nel senso di “giustificabile” di fronte alla ragione teorica e pratica. Certo, può darsi che il massacro di civili inermi in nome di Dio, del Papa, del Re o dell’Imperatore, avesse il vantaggio di non costringerci a sperimentare il difficile equilibrio, non di rado tragicamente dilemmatico, tra etica delle conseguenze ed etica delle convinzioni, tra valore della tradizione e valore del progresso, tra uso della forza in nome del diritto e uso del diritto in nome della forza ecc. Si facevano fuori tutti, e ciascun dio avrebbe scelto i propri: era tutto più semplice. Resta il fatto che se il corpo dottrinario dell’Islam avesse sperimentato in radice una riforma teologica illuminata, a quest’ora ben difficilmente il terrorismo attecchirebbe nel mondo musulmano con la stessa facilità. Grazie al dio dei buoni argomenti razionali, tuttavia, quello che fu di Socrate prima che degli Enciclopedisti, centinaia di migliaia di musulmani sono comunque entrati nella modernità dalla porta principale, modernità che non è una squadra di calcio per la quale o contro la quale tifare, ma un compito razionale cui assolvere senza requie tra molte difficoltà e cadute e ancor più dubbi, ma che come alternativa ha l’imperio della forza che non dà conto di sé, che è paga di un’appartenenza tribale, religiosa, etnica, ecc per ammettere senza domande i propri crimini e che in luogo del diritto non sa che opporre il proprio “fatto”, naturalmente “sacro”. Personalmente, invece, ho fiducia in quelle centinaia di migliaia di musulmani “moderni”. I quali in questi giorni sfidano gli arcaismi dei loro correligionari con il Corano in una mano e la bandiera della République nell’altra cantando la Marsigliese. Saranno loro, gli “empi”, a salvarci, è bene non dimenticarlo.
La storia è piena di massacri di innocenti in nome di idee oscurantiste. Ma quel che occorre mettere a fuoco è che storicamente il terrorismo non è figlio di quei massacri (esecrabili, c’è bisogno di dirlo?) bensì di un sistema di idee che si proponeva l’abolizione dell’oscurantismo in nome della ragione. Allora, se si vuole curare il male, occorre guardare in faccia questa scomoda verità.
Un piccolo esempio. Tutti noi che, giustamente, siamo indignati per le stragi di Parigi, ci siamo commossi cantando canzoni che inneggiano a kamikaze falliti, quali “la locomotiva” di Guccini o “il bombarolo” di De André. Nulla contro tali grandi artisti, per carità. Però il dato di fatto è che i primi a piazzare bombe e pianificare attacchi nel mezzo della società civile per sovvertire un ordine considerato ingiusto siamo stati “noi”, non gli integralisti religiosi.
Adesso l’intenzione di estirpare l’oscurantismo con la forza mi ricorda tanto l’intenzione di esportare la democrazia.
NB: secondo lei uomini che usano twitter per reclutare gli adepti, AK-47 per uccidere, e l’impatto sui mass-media per incidere globalmente, davvero non c’entrano niente con la modernità? Come è possibile essere così ingenui?
Caro Mario Salmantra, come già le scrissi l’idea di modernità nella sua vaghezza è sufficientemente manipolabile per poter accogliere sotto di sé all’incirca tutto quello che è accaduto nel mondo da dopo la pace di Westfalia. Mi chiedo semplicemente, di conseguenza, quanto sia utile ricorrervi per interpretare, con l’ambizione almeno di tentare di risolverli, i problemi che abbiamo di fronte (neoimperialismo americano e russo, conflitto interreligioso e interstatale mediorientale, islamismo politico, squilibrio demografico, squilibrio economico, crisi europea, devo continuare…?). Se l’idea di modernità sembra poter spiegare tutto, questa è almeno la mia opinione, è solamente perché non spiega niente o ben poco. In un’accezione dell’idea meno aggredibile perché più circoscritta, invece, credo che alla modernità si debba se non altro la possibilità che io e lei ci si confronti senza timore di essere perseguitati, imprigionati o uccisi, cosa che prima del 1789, ma ahimé anche dopo, è ripetutamente accaduta. Bella consolazione, dirà forse. E non le dò torto. Ma credo che faccia parte della modernità anche questa presa di distanza da certe illusioni fin troppo facili in merito alla capacità del discorso di razionale di cavarci sempre e comunque la castagne dal fuoco. La razionalità ha le sue opacità e i suoi limiti, senz’altro. Ma che la razionalità stessa, se non se ne ha visione troppo angusta, sa ben evidenziare. D’altronde, l’alternativa (rinunciarvi) mi parrebbe ancor più angosciante. Quanto agli “eroi anarchici” dei nostri bravi cantautori, le assicuro che da Proudhon, a Bakunin, a Malatesta, esiste un’ampia riflessione premarxista, marxista e postmarxista, sull’a-narchia (l’ideale cioè di costruire un ordine sociale capace di rinunciare o quanto meno fortemente limitare la concentrazione in poche mani del potere politico e militare) che certamente non fa del solitario bombarolo un modello di strategia rivoluzionaria. Una cosa è il canto del poeta che nella disperata scelta dell’omicidio-suicidio vuole riflettere la storia di moltitudini oppresse, un’altra la riflessione sulle ragioni o i torti, le giustificazioni o i limiti morali e politici di quella strategia, se così possiamo chiamarla. Semmai, anche se può sembrare un paradosso, se vogliamo trovare momenti particolarmente radicali di critica alla modernità intesa un po’ nietzschianamente come mera volontà di potenza, è proprio nel movimento anarchico che possiamo cercarne. Eppure è certo un filone del moderno. Viste da vicino, insomma, le cose sono sempre più complicate. E per questo interessanti.
Caro Stefano Cardini, due punti.
Primo. Io ho parlato di autocritica, non di critica della modernità. Moderni lo siamo. La questione è: quale è il rapporto tra la pratica del terrorismo e il “discorso razionale” della modernità? Una risposta rassicurante e sbrigativa è porli in antitesi, vedendo nel terrorismo uno sviluppo dell’oscurantismo. Purtroppo la storia ci mostra che non è così. Il terrorismo (inteso come pratica della violenza ai danni della società civile, volta a destabilizzare un ordine costituito) appare sulla scena della storia come sviluppo di quella “opacità” della razionalità moderna di cui anche lei parla. Gli oscurantismi hanno praticato tante orribili forme di violenza (soprattutto repressione del dissenso), ma, invece, questa specifica forma la abbiamo inventata noi, moderni illuminati. Vogliamo riconoscere o no questo dato, e chiederci cosa significa? Non sarà che questi terroristi religiosi si appropriano di prassi e categorie che proprio noi forniamo loro? Tenga presente, tanto per fornire un ulteriore esempio, tra gli innumerevoli, che Alì Shariati, ideologo della rivoluzione iraniana, si era formato alla Sorbona.
Secondo. Quando lei parla della “disperata scelta dell’omicidio-suicidio [che] vuole riflettere la storia di moltitudini oppresse”, non si accorge che questa è proprio la storia di tanti ragazzi che scelgono il Jihad? Si guardi ad esempio la storia dei bombaroli di Boston. E’ a questo senso di disperata esclusione dalla storia che occorre rispondere, anziché delineare una strategia di imposizione coatta di valori ritenuti giusti. Perché, lo ripeto, la storia mostra che tale imposizione è ciò che ha originato il terrorismo, lungi dall’esserne la soluzione.
P.S. Per chi fosse realmente interessato ad approfondire il tema dell’origine del terrorismo, al di là di antiquate retoriche volterriane, consiglio il recente: Martyrdom and Terrorism, edito da Dominic Janes e Alex Houen per Oxford Press. La seconda parte si intitola significativamente: The French Revolution and the Invention of Terrorism.