Maurizio Viroli (vedi il suo recente articolo, segnalato con il post precedente) ha ragione: è un buon inizio, il pensiero di Guido Calogero, per chi volesse costruirsi, e costruire per quelli che oggi hanno vent’anni, una piccola antologia dei maestri dimenticati di un’Italia civile. Anche per andare avanti, s’intende: per la nostra ricerca e non per la nostra nostalgia. Ma segnalo fin d’ora quest’idea dei maestri dimenticati anche agli amici che su questo Lab hanno suggerito a tutti i colleghi docenti alcuni temi costitutivi per una sorta di biblioteca vivente, da creare cammin facendo e cui attingere per il progetto di un Canone Europeo (https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2014/12/canone-europeo-poncina/), o per la Maratona per la Costituzione d’Europa (https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2015/07/maratona-europa/).
Oggi, se potessi intervistarlo nel limbo dei giusti, io chiederei a Guido Calogero come illustrerebbe a chi non conosca il suo pensiero il nesso fra la parte più “filosofico-politica” di esso e quella più “etica”: fra la Difesa del liberalsocialismo (1945) e la Filosofia del Dialogo (1962). Oppure – che è quasi lo stesso – gli chiederei del nesso fra il contenuto “sostantivo” del suo pensiero civile (la tesi di compatibilità e complementarità di liberalismo e socialismo) e il principio formale dell’etica dialogica, ovvero l’imperativo categorico dell’ascolto delle ragioni altrui, che così bene Viroli riassume come nucleo di una “fede laica” nella possibilità della democrazia. Eccolo in una formulazione dello stesso Calogero:
“Ogni altra verità è soggetta alla discussione, e nessuno può pretendere che si finisca a un certo punto di discutere. Per nessun’altra verità io posso prescindere dalla critica altrui, dalla discussione e dal consenso altrui. Ma la volontà di discutere non ha bisogno di essere discussa, perché ogni discussione la presuppone” (1962, 73)
Se chiamiamo “volontà di intendimento” questo imperativo categorico, cioè questo impegno personale cui liberamente mi assoggetto riconoscendolo fondamento non solo di ogni altro dovere, ma anche di ogni diritto, ecco l’imperativo in un’altra formulazione:
“Quel che il “principio del dialogo” ci dice, è bensì questo: che qualunque cosa noi intendiamo da altri, essa sarà sempre a posteriori rispetto alla nostra volontà d’intendimento, e non potrà, quindi, mai negarne la legittimità. Questo vuol dire che nessuno al mondo potrà mai convincermi a spezzare quel rapporto di comprensione, che è il rapporto etico fondamentale” (Calogero 1962,46).
Azzardavo nella mia presentazione dell’articolo di Viroli l’opinione che “con più chiarezza di Habermas, meglio e prima di lui” Calogero avesse rifondato su basi etico-normative il pensiero politico. Vasto programma sarebbe provare a dimostrarlo qui. Nel tentativo di rispondere io stessa alla domanda idealmente posta a Calogero, provo a partire dall’altro polo della questione. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso tutti i filosofi politici del mondo discutono i due “principi” di una società giusta enunciati da John Rawls, e nessuno, mi pare, ha potuto dimostrare che ci sia fra essi una qualche incompatibilità. Eppure sono sostanzialmente i due principi cardine di “liberalismo” e “socialismo”. Li ricordo rapidamente qui per permettere a ciascuno di mettere più agevolmente in dubbio quello che dico, secondo un’altra formulazione del Principio del Dialogo, riportata per esteso da Maurizio Viroli e riassunta così: “Niente importa quanto agevolare la possibilità di aver torto”. Ecco dunque i principi rawlsiani di giustizia, nell’ordine: 1. Il principio dell’uguale libertà: “Ogni persona ha un uguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibili con un simile sistema di libertà per tutti”; 2. Il principio di differenza: “Le ineguaglianze economiche e sociali devono servire….al più grande beneficio dei meno avvantaggiati” (Rawls 1971, tr. it. 1982, p. 178).
A partire da questa classica formulazione, la domanda può subire numerose variazioni. Eccone alcune. Come mai la maggior parte dei filosofi politici italiani anche di vaglia hanno continuato invece a vedere in conflitto (o tutt’al più in una conciliabilità tutta pragmatica, contingente, “politica” nel senso più quotidiano del termine) i due valori della libertà e della pari dignità, che pure fin dai Principi dell’’89 appaiono a braccetto (insieme alla “fraternità” o solidarietà)? Un esempio è quello di Norberto Bobbio, nel suo famoso scritto Destra e Sinistra e altrove. Come mai questo continua a essere vero anche nel resto del mondo? Prova ne sia che il grande filosofo (neo)costituzionalista Ronald Dworkin ribadisce la loro fondamentale unità da quarant’anni, contraddicendo come errore comune agli egualitaristi e ai libertarians “l’idea diffusa e pericolosa secondo cui l’individualismo [affermato dai diritti di libertà] sarebbe nemico dell’eguaglianza” – dato che il “diritto all’eguale considerazione e rispetto” non solo non si oppone, ma addirittura implica i diritti di libertà (Dworkin 1982, 14-15). Nel suo ultimo libro, che può considerarsi il suo testamento, Giustizia per i ricci (2011, tr. it. 2013), Dworkin è ancora più deciso su questo punto: “Nessun governo è legittimo a meno che non sottoscriva due principi supremi. Primo, deve mostrare eguale considerazione per il destino di ciascuna persona sulla quale pretende di governare. Secondo, deve rispettare pienamente la responsabilità e il diritto di ciascuna persona a decidere da sé come dare valore alla propria vita” (Dworkin 2013, 14).
Su questo sfondo dworkiniano mi sembra facile percepire come per assonanza una risposta che Calogero potrebbe dare: se guardi al fondo dei valori di libertà ed eguaglianza, che altro non sono che momenti del valore giustizia, troverai né più né meno che l’assolutezza di un dovere offerto d’altra parte alla tua propria libertà, e facilissimo da violare: riconoscere all’altro la sovranità di un soggetto morale, e dunque il diritto a una vita dotata di valore o di senso (secondo il suo sentire, non secondo il tuo). Mentre il riconoscimento del suo diritto ai mezzi per realizzarla segue logicamente, il riconoscimento di sovranità esige una sorta di detronizzazione dell’io:
“C’è dunque una diversità essenziale, quanto a valore intrinseco, fra la libertà di coscienza che io posso rivendicare per me e la libertà di coscienza che debbo riconoscere ad altri. La prima non implica di per sé alcun orientamento etico, e se non restasse che sé medesima escluderebbe anzi ogni comunità morale. La seconda ha una validità morale di per sé…” (1962, 80).
Anche Simone Weil negli anni ’40 aveva rivelato il fragilissimo fondamento su cui si regge in ultima analisi una possibile democrazia, in particolare una democrazia sociale: l’impegno etico degli individui, l’incondizionata sfida del dovere suggerita alla loro libertà. Con una simile movenza Calogero percorre l’infinita distanza che separa l’assoluto dell’etica dal relativo della politica:
“E, quel che più importa, possiamo ora meglio comprendere quel rapporto fra l’assolutezza del comando etico e la storica contingenza di ogni suo concretamento nell’azione, che è sempre apparso caratteristico dell’esperienza morale.…La decisione morale…non è cosa che si possa apprendere dalle cifre di una macchina calcolatrice…Appunto perciò impegna così angosciosamente la responsabilità dell’individuo, da far spesso ricorrere alla formula dell’”appello alla voce della coscienza… Il comando etico è assoluto, perché è indipendente dal dialogo; ma il suo concretamento non può mai avvenire se non attraverso ciò che dal dialogo risulta… in parole povere: ogni nostra esperienza morale è sempre il prodotto di certe cose che non abbiamo bisogno di imparare da nessuno, perché dobbiamo già saperle da noi, e di certe altre che non possiamo sapere, volta per volta, se non imparandole dagli altri. Il nostro dovere di apprendere sempre più largamente queste ultime non esclude il diverso dovere di tener sempre fermo alle prime” (1962, 89-91).
Maurizio Viroli insiste sulla “fede laica” di Calogero. Ben a ragione, purché sia chiara l’implicazione dell’aggettivo, che toglie ogni residua ombra di “fideismo” al senso del sostantivo: niente importa tanto, quanto l’agevolare la possibilità di avere torto. In conclusione
“L’incondizionata difesa della libertà del dissenso è la sola posizione che possa essere tenuta senza riguardo a dissensi; ed è quindi la sola fede, la cui stabilità sia intangibile da critiche altrui, perché chiunque l’accetti non deve renderne conto che a se medesimo. D’altra parte, considerata in tutte le sue implicazioni, essa costituisce la base sufficiente e necessaria per ogni sviluppo di civiltà giuridica ed etico-politica, in tutti i suoi aspetti di libertà e di eguaglianza civica e sociale” (1962, 374).
Pensavo a questi ragionamenti rileggendo un’intervista a Slavoj Žižeck comparsa alcuni mesi fa anche sull’ “Espresso” (http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/02/12/news/slavoj-i-ek-isis-cresce-perchenon-c-e-sinistra-1.199200). Žižeck pone apparentemente un problema capace di far apparire questi ragionamenti tenui come un fil di fumo: che dire di fronte al crescere – tema di questi giorni ancora – dell’efferatezza delle gesta di tutti coloro che, anche nelle democrazie occidentali, si gettano nelle braccia del cosiddetto Stato Islamico? Che alla vostra eventuale volontà di ascolto opporrebbero i loro tagliagola?
Mi aveva colpito una certa brutalità della sua tesi, per cui dell’ascesa dell’Islam radicale sarebbe causa l’assenza di una sinistra radicale, capace di convogliare le aspirazioni anti-occidentali di popoli ex-coloniali in una rivoluzione sociale invece che in una teocrazia sanguinaria. Ma ancora di più mi aveva colpito il suo contrapporre l’invocata e assente “sinistra radicale” a un “liberalismo progressista” come quello di Habermas, che a differenza dei “conservatori liberali sinceri come Houellebecq, Finkielkraut o Sloterdijk in Germania” non ammetterebbe il “vero problema”: che la minaccia islamica non è altro che la reazione (giusta? Boh…) “alla nostra decadenza”. Il conflitto fra il liberalismo e il fondamentalismo “è in definitiva un falso conflitto, ovvero un circolo vizioso tra due poli che si generano reciprocamente e implicano a vicenda l’altro”. La sostanza di questo pensiero mi era apparsa così melmosa da gettare un’ombra cupissima anche sulla frase di Walter Benjamin citata dall’autore a conforto della sua “analisi”: che “ogni ascesa del fascismo è un fallimento della sinistra ma al tempo stesso reca testimonianza di una rivoluzione fallita”: questa, aggiungeva l’autore, “è la dimostrazione che c’era un potenziale rivoluzionario da sfruttare, c’era un’insoddisfazione che la sinistra non è stata capace di mobilitare”.
Che cosa trovavo tanto scoraggiante in queste parole, tanto oscuro e confuso? Come tante volte mi era successo, rinviai la questione e rimossi il sospetto che ogni volta rinasceva: ma se il sogno di questa “sinistra radicale” è il rimpianto e il lamento di molti fra quelli che oggi sono impegnati a far valere, come direbbe Viroli, “le esigenze di uguale dignità avanzate dai poveri, dagli esclusi, dagli sfruttati”: non sarà questo sogno di per sé tanto condivisibile inquinato da questa oscura dialettica illiberale? Per la quale “politica” non è affatto in primo luogo la posizione proposta alla libertà di ognuno di noi, a seconda che voglia ascoltare quelle “esigenze”, e studiare quanto siano fondate e in quali doveri si traducano i diritti esigibili, o preferisca ignorarle, o addirittura combatterle. No. Ma è semplicemente la capacità e il potere di manovrare e “sfruttare” un indifferente, impersonale, “storico” “potenziale rivoluzionario”, fatto di cieca insoddisfazione, di pura disperazione traducibile in massa d’urto – appunto – indifferente alla direzione in cui verrà lanciata, teocrazia o socialismo…
Questo più che un sogno è un incubo, e questo Occidente dev’essere davvero ben bollito se – come si affrettava a chiarire l’autore dell’intervista ripresa dall’”Espresso”, Slavoj Žižeck è stato inserito nell’elenco dei cento migliori pensatori del mondo, o se è stato presa sul serio l’agenzia che l’ha fatto, comunque si chiami (“Foreign policy”, 2012).
Ecco, almeno su questo Calogero avrebbe un test cruciale. Tanto peggio per il principio di libertà vuol dire: tanto peggio per il fragile assoluto dell’etica che in rari momenti “salva” la speranza politica di ognuno, anche a costo della propria vita. Tanto peggio per Ahmed, il credente musulmano in servizio nelle forze di polizia di Parigi. Che l’11 gennaio di quest’anno è morto per difendere il diritto che altri hanno di ridere della sua stessa fede.
Rileggere Calogero a me è servito a capire perché – forse – non sarei stata entusiasta di affermare, quel giorno fatidico, “Je suis Charlie”. Ma certamente e di tutto cuore avrei detto: “Je suis Ahmed”. Un musulmano voltairiano.
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