Quelli che hanno oggi fra i quaranta e i cinquant’anni, come l’autore del bel libro raro che vorrei segnalare a chi fosse di passaggio per questo nostro Lab, dovrebbero leggerlo, questo libro – Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati (Bompiani 2015). Molti si sentiranno chiamati per nome e cognome. Ma anche quelli più vecchi o più giovani, che l’afa di Caronte ancora non abbia del tutto sfiancati, dovrebbero leggerlo. E soprattutto quelli più giovani, fino ai ragazzi in vacanza da scuola. Perché la domanda del libro ci riguarda tutti. E riguarda soprattutto i ragazzi della disperanza, i ragazzi che hanno studiato cose bellissime e piene di senso per poi ritrovarsi a cercare un ubi consistam nel paese dove si chiude Pompei in piena estate. Per fare assemblee sindacali. Dove la capitale sprofonda nell’immondizia, dove un pubblico amministratore si permette di fare davanti ai teleocchi di milioni di cittadini sceneggiate fra il mélo e il grandguignol, con lacrime e minacce di suicidio, che neppure i pupi siciliani nelle loro storie di passione e follia si permetterebbero. E dove i governanti di tutti i livelli di governo della cosa pubblica continuano imperterriti a fare gli affari loro rapinando le risorse pubbliche, a passare per decenni per tutti i gradi di giudizio senza batter ciglio né cambiar poltrona, a farsi interpretare le leggi dai loro sodali o se proprio non si può rimandarne l’applicazione a fine crimine, nell’universale indifferenza dei governati.
“Noi, nati e cresciuti dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel periodo più pacifico e prospero che l’Europa occidentale abbia conosciuto, noi figli del pezzetto d’umanità più protetto, agiato e longevo che abbia mai calcato la faccia della Terra, proprio noi arriviamo a provare nostalgia per quella stagione tragica, per quella lotta formidabile ma terribile che non abbiamo vissuto” (258)
“Quella stagione tragica” è quella da cui è nata la Repubblica italiana, dopo il fascismo, la guerra, la liberazione e la resistenza. Il libro è bello, ed è raro perché ne parla con gli occhi e la memoria dei protagonisti – viva o scritta – intrecciando le vite degli uomini illustri con quelle degli uomini comuni – stranissima espressione questa, come se ci fossero individui meno individuali degli altri. Proprio questo è il bello, che dalla parte degli uomini e delle donne che non hanno avuto gloria o fama non c’è semplicemente il coro, ma ci sono gli individui, con le loro singole storie.
Sarebbe un vero romanzo, questo libro, se non fosse invece storia. Storia fatta di storie, tutte minuziosamente ricostruite, documentate, “salvate” con pietà filiale. E’ un libro raro, perché di storia e storie vere abbiamo bisogno più che di finzioni, e perché la storia dovrebbe, finalmente, soffermarsi sulle differenze personali. Differenze morali, vite che infine si rivolgevano a noi, ai “figli e nipoti”: a noi avrebbero voluto lasciare un messaggio, a noi chiedevano un giudizio. Per non morire del tutto, nella nostra indifferenza, nutrita di ignoranza. E perché i carnefici non fossero confusi con le vittime, anche, o le anime nobili con quelle meschine, in quel terzismo trascendentale che oggi i più confondono con la laicità o l’imparzialità.
Scurati si è fatto postero, e non ha avuto paura del giudizio. Oggi il giudizio vive una sorta di pavida e in fondo vile latitanza, e ogni chiacchiera nega d’esser giudizio. Assurdamente. Perché chiunque faccia affermazioni afferma la loro verità e insieme esibisce la propria credenza in ciò che dice – anche per mentire occorre far questo. Ma gli umanisti di questo nostro tempo, soprattutto in questo paese – storici, filosofi, letterati – credono oggi in maggioranza che il giudizio, almeno quello di valore, sia cosa da talebani, non da persone civili e tolleranti. Nulla temono di più che la nomea di moralisti. E non si accorgono così di essere in maggioranza divenuti dei sofisti. Scurati – e non solo lui, certamente, ma sono ancora troppo pochi – fa eccezione.
Un amore ha acceso questo libro, ed è quello per la figura nobilissima e tragica di Leone Ginzburg, con Giulio Einaudi e altri allievi del liceo D’Azeglio fondatore della casa editrice che oggi fa parte di un gruppo editoriale commerciale nel suo complesso governato da altre logiche che quella della ricerca del vero nelle cose umane. Cioè dell’esattezza e della vita insieme, nella direzione dei fatti o in quella dell’anima. Alla vita di Leone Ginzburg fa da controcanto, nella sua veste di interlocutore sornione e di amico fragile, un grande scrittore, che preferì la casa in collina e le dimissioni dalla vita all’impegno etico e resistenziale: Cesare Pavese. Si impara molto sull’Italia, sulla sua ricorrente storia – storia di desistenza, di disillusione, di disperanza e disamore – fino agli spiccioli dell’oggi, spiccioli di cinismo e gaglioffaggine impunita, non più responsabile di massacri e genocidi come ai tempi di Mussolini e dei suoi pagliacci, ma solo di indefinita corruzione di ogni cosa: legge, pubblica fede, linguaggio, senso e futuro. Si impara molto anche dal dialogo a volte silenzioso fra questi due “grandi” – Ginzburg e Pavese. Molto sui modi di vivere e morire. Molto sul senso e il peso “percepito” di ogni morte. Ancora qualche ragazzo di oggi forse – come faceva in massa la gioventù della mia generazione – si commuove sulla morte volontaria del poeta, col suo alone malinconico e romantico. Nessuno o quasi – anche perché l’ignora – sulla morte vigliaccamente inflitta all’intellettuale silenzioso e rigoroso, che onorò la serietà del vivere e delle parole fino all’ultima virgola, e soprattutto seppe dire no. E portare a termine il capolavoro di questo no – alle lusinghe di vanità e carriera, ai compromessi col potere usurpato e con la prepotenza dei servi, e perfino alle sirene dell’ideologia. Con impassibile serenità, con implacabile acribia – fino alla fine.
Era tempo che qualcuno insegnasse ai ragazzi di oggi per cosa sono morti i pochi che erano come Leone Ginzburg. Che dono potrebbe esserci, nonostante tutto, oltre la sua morte e quella dei nostri altri padri e madri, per noi, per loro, per dare un senso alle loro giovinezze. Perché è vero, come scrive Tolstoj che “Guerra è il mondo storico, pace il mondo umano”. Ma è anche vero che la nostra indifferenza ai nessi, alle responsabilità, alle irresponsabilità che collegano il mondo storico a quello umano, il mondo dei privati amori a quello delle pubbliche guerre, rende ormai disumana la nostra pace.
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