Recentemente è uscito in libreria un volumetto di Diego Marconi dall’impegnativo titolo: Il mestiere di pensare. Il testo pone alcune domande cruciali per chiunque abbia a cuore la filosofia come pratica, storia e vocazione. Marconi è un filosofo analitico di valore, ma nonostante l’indubbia qualità della scrittura e della riflessione le sue tesi risultano piuttosto controverse. Di seguito ne forniremo un resoconto critico.
1. Diagnosi e ricette
Marconi pone una questione importante, concernente la natura pubblica del filosofare. Egli ritiene che la filosofia accademica sia oggi assai meno comunicativa verso il pubblico colto di quanto fosse in altri periodi storici, anche recenti (p. 6), e che la filosofia sia di fatto “in buona parte sparita dall’orizzonte delle persone colte” (p. 8).
La diagnosi che viene fornita di questo processo è la seguente: secondo l’autore si tratterebbe di un’evoluzione obbligata, dovuta al naturale processo di specializzazione accademica. Il crescere di una letteratura specialistica sarebbe parte costitutiva della rispettabilità dell’odierno lavoro accademico e sarebbe inevitabile il crearsi di una produzione filosofica sempre più numerosa, tecnica e circoscritta. Marconi afferma che lo specialismo è inevitabile, giacché oggi sarebbe “già difficile (…) produrre ricerca di prima qualità in un’area limitata della filosofia. (p. 13)”. E dopo tutto, questo processo corre in parallelo a quanto accaduto in altri ambiti: “occuparsi ‘di filosofia’ è oggi semplicemente impossibile: sarebbe come occuparsi di fisica o di biologia. Nessuno si occupa di fisica, se non nel senso che si occupa di un’area di ricerca specifica che rientra nella fisica” (p. 15) e questo perché l’ampiezza del materiale da dominare nella fisica tutta è fuori dalla portata di qualunque singolo individuo.
In quest’ottica Marconi ricorda al lettore le virtù dello specialismo, in cui la divisione del lavoro consentirebbe a studiosi normali (non geni) di “fare un lavoro di ricerca onesto e sensato”, limitando “la propria ricerca a un piccolo settore di una disciplina”, dove “la letteratura pertinente è dominabile” (p. 15), e pervenendo così ad un sapere cumulativo che progredisce per piccoli incrementi verso la verità (p. 112-113).
Marconi reputa che a tali condizioni storiche risponderebbe in modo appropriato la ‘filosofia analitica’, e questo perché essa permetterebbe al singolo studioso di operare in modo specialistico, e perciò rispettabile, proprio come le scienze naturali (p. 87). La filosofia analitica sarebbe dunque per così dire la filosofia appropriata alla contemporaneità.
Tuttavia qualcosa nel suo resoconto sembra ancora fare resistenza. Qualcuno infatti potrebbe credere che la filosofia non possa permettersi la specializzazione (p. 28), e la connessa riduzione di impatto pubblico. Questa difficoltà appare particolarmente seria agli occhi dell’autore proprio perché sembra colpire prevalentemente la filosofia analitica. Si può comprendere meglio, in quest’ottica, cosa spinga Marconi a redigere il presente testo: si tratta essenzialmente di legittimare la filosofia analitica a fronte di potenziali critiche relative al ruolo pubblico del filosofare. Egli cerca di mostrare le virtù del suo stile filosofico favorito in contrasto con altre modalità di fare filosofia, che egli nomina rispettivamente come ‘storico-filosofica’, ‘tradizionalista’ e ‘continentale’.
Alla ‘storia della filosofia’ egli rimprovera fondamentalmente di essere storia e non filosofia, e dunque di non trattare e risolvere problemi filosofici, ma di limitarsi ad esaminare il “senso storico-culturale” dei problemi (p. 23).
Alla filosofia ‘tradizionalista’ (termine con cui nomina la dedizione all’esegesi dei ‘grandi autori classici’) egli rimprovera un costitutivo conservatorismo, conservatorismo che invece fu estraneo proprio agli autori cui i ‘tradizionalisti’ si dedicano (p. 81).
È però alla filosofia ‘continentale’ che vengono dedicate le critiche più intense. La filosofia ‘continentale’ non avrebbe tra i suoi parametri né l’esigenza di avanzare tesi sostantive o originali, né l’utilizzo di argomentazioni rigorose, né la chiarezza (p. 72-3). La filosofia ‘continentale’ sarebbe allergica al pensiero scientifico ed i suoi lettori non avrebbero particolare sensibilità per la qualità argomentativa, ma sarebbero attratti “dalle intuizioni folgoranti, dalle formule icastiche, dalle grandi sintesi” (p. 49-50). Proprio questi difetti sarebbero, però, ciò che fornisce una maggiore accessibilità di pubblico ai filosofi continentali.
Quest’ultimo punto ci fa capire perché la critica alla filosofia ‘continentale’ risulti particolarmente pressante: si tratterebbe, per così dire, di porre rimedio a quella che all’autore appare come un’ingiustizia, ovvero al fatto che proprio la filosofia di maggiore qualità (che lui identifica con la filosofia analitica) risulti meno appetibile al grande pubblico, e che questo accada, paradossalmente, proprio per la superiorità dei suoi meriti scientifici.
Esaurito questo breve (e necessariamente selettivo) resoconto delle posizioni espresse da Marconi proviamo ad articolare alcune considerazioni critiche.
Continua la lettura su http://mimesis-scenari.it
Non ho ancora letto il libro di Diego Marconi, che però con i tempi assurdi cui ci siamo abituati non è nepppure “recente”, è uscito nel marzo dell’anno scorso. Mi sembra però che affermi che ci sono state e ci sono, come dato di fatto storico, tre soluzioni al problema posto dalla moltiplicazione dei filosofi e dalla conseguente moltiplicazione esponenziale delle pubblicazioni: una è la storia della filosofia, un’altra è l’ermeneutica, la terza è la filosofia analitica (la fenomenologia, poverina, sembra neppure esista). In una sua comunicazione personale mi scriveva:
“Invece, i lettori che mi ostino a chiamare “continentali” sostengono che identifico la filosofia adeguata a questa fase storica con la filosofia analitica. Perché? Non me lo spiego”.
Diego Marconi è di solito meravigliosamente chiaro e rigoroso: leggeremo anche questo libro – ma – e lo ricordo in primo luogo a me stessa – ci sarà veramente quel tono polemico che Andrea Zhok ci legge? Certo che D.M. avrebbe pienamente ragione se per “continentale” si intendessero, ahimé, autori come Severino, Agamben, Sini, Vattimo, altri, molti heideggeriani e foucaultiani di cui potrei citare tesi sparate lì senza l’ombra di un argomento che non sia un solecismo logico o una petizione di principio. Ma naturalmente sarebbe del tutto ingiusto generalizzare a – che so – tante persone vive e morte che magari non sono iscritte alla SIFA e sono usi argomentare le loro tesi. Ma speriamo che Diego Marconi voglia rispondere…
Marconi davvero scrive: “Invece, i lettori che mi ostino a chiamare “continentali” sostengono che identifico la filosofia adeguata a questa fase storica con la filosofia analitica. Perché? Non me lo spiego”? Un suggerimento a Marconi potrei darlo. Rilegga quello che ha scritto. E insisto sul punto che a me pare cruciale: ci sono naturalmente autori che, per carità di patria e per non aprire troppi fronti polemici simultaneamente, non ho menzionato e di cui penso senz’altro che hanno uno stile argomentativo vago, fumoso, inconsistente. (E in effetti gravitano tutti nell’area del post-heideggerismo, prevalentemente di area francese). Ma il punto sollevato da Marconi NON è questo. Se avesse preso di petto questo o quell’autore spiegando perché le sue argomentazioni sono pessime avrebbe fatto qualcosa di coraggioso e utile. No, quello che Marconi fa è di creare (o meglio riproporre) la stantia categoria dei ‘continentali’, senza definirne i confini, e metterla accanto a storici e tradizionalisti come forme subottimali di pensiero. Che poi nel testo di Marconi ci siano tante altre cose, alcune delle quali del tutto condivisibili, è certo, e di queste cose non ho parlato perché mi pareva inutile elencare i contenuti che mi parevano non controversi. Ma che lui tracci un quadro in cui la filosofia analitica (quale?) sarebbe la forma elettiva del ‘mestiere di pensare’ mi pare essere al di là di ogni possibile dubbio esegetico.