Rinnovamento
Abbiamo implicitamente parlato di rinnovamento quando abbiamo ricordato quanto dice Roberta De Monticelli nel suo libro “La questione civile” a proposito di giustizia che [12 ] non vive certamente tutta intera nelle sue realizzazioni, ma nella coscienza che prendiamo di sempre nuovi aspetti del giusto, e della lontananza del suo ideale dal poco realizzato. [105] E queste esigenze ideali definiscono l’ambito dei progetti alternativi, e il campo di battaglia della politica (della politica, non della morale) – o, per lo meno, della sua parte migliore. [139-140] Nel modello della veglia morale la normalità umana è chieder ragione delle norme, è l’approfondimento indefinito ed in ogni rispetto di ciò che è dovuto, di ciò che la realtà delle cose e delle persone esigono da noi, e quindi è il dubbio sulla fondatezza dei doveri già dati. Ma soprattutto è l’iniziativa di “chiedere ragione”. […] Questa è la via di Socrate per la quale è pur bello essere qui in Europa.
E’ la via anche di Leopardi che elogia le qualità di uomini senza certezze che del dubbio fanno strumento di ricerca e motivo di dialogo.
[…] Del resto, come l’indifferenza assoluta, ossia la mancanza di ogni determinazione dell’intelletto, cioè di ogni credenza, sarebbe mortifera per l’animale libero, e dipendente dalla sua propria determinazione; così anche appresso a poco il dubbio, ch’è quasi tutt’uno col detto stato. Così anche sarà cattiva e dannosa la difficoltà o lentezza al determinarsi (riferite a questo capo l’angoscia e il tormento dell’irresoluzione): e quindi lo stato dell’uomo sarà tanto più felice, quanto egli avrà maggior facilità e prontezza a determinarsi a credere (dal che poi segue l’operare); cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e con quanto maggior forza, ossia certezza, egli si determinerà al credere. (s’intende già che la credenza sia buona per lui, perché la supposizione contraria [449] è fuor del caso). Ora è cosa dimostrata dalla continua esperienza, che l’uomo si determina al credere, tanto più facilmente, prontamente, e certamente, quanto più è vicino allo stato naturale, come appunto accade negli animali, che non hanno né difficoltà né lentezza né dubbio intorno alle loro idee o credenze, innate nel senso detto di sopra. E così il fanciullo, l’ignorante, ec. E per lo contrario, quanto più si è lontani dallo stato naturale, cioè quanto più si sa, tanto maggior difficoltà e lentezza si prova alla determinazione dell’intelletto, e tanto minor forza, ossia certezza, ha questa determinazione o credenza. Così che la certezza degli uomini nel credere (e quindi la determinazione e forza nell’operare, ch’è in ragion diretta colla certezza del credere) è in ragione inversa del loro sapere. Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di quell’antico sapiente. E questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta, la perfezione della sapienza. Laddove il fanciullo e l’ignorante, si può dire che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo tutto quello che crede. E questa è la sommità dell’ignoranza. (Onde credendo quello ch’è conforme alla natura, e credendolo in questo modo, ne viene a esser felice e [450] perfetto.) In maniera che, dove alla determinazione dell’uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la credenza; la cognizione la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo, viene a esser nemica della credenza, e però della determinazione. E in vece che l’ignoranza, tal qual è in natura, (non l’assoluta, cioè la negazione di ogni credenza, o determinazione dell’intelletto, che in natura non si dà) conduca l’uomo o l’animale all’indifferenza, come pretendono; ve lo conduce anzi il sapere (e l’eterna esperienza lo prova). E l’uomo tanto meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente si determina, quanto più sa. Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore è il sapere. E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile coll’ignoranza, che per lo contrario è molto più compatibile coll’ignoranza che col sapere. […]Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’esser la base di tutta la metafisica (da Lo Zibaldone pagg. 449-452 22 dic. 1820)
[…] e che non solo il dubbio giova a scoprire il vero (secondo il principio di Cartesio ec. v. Dutens, par. 1, c. 2., § 10), ma il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita, sa, e sa il più che si possa sapere […] (Zibaldone, p. 1655, 8 settembre 1821).
Ma se il dubbio, caratteristica essenziale della dimensione umana del faccia a faccia, della responsabilità e della verifica in prima persona, spinge alla riflessione e ad interrogarsi sulla validità e giustezza delle norme vigenti allora può mettere in crisi la dimensione dell’appartenenza. Nella nostra vita apparteniamo a molte comunità, molte non elettive come una famiglia, una nazione, una lingua una cultura, altre scelte che a quelle si aggiungono senza necessariamente sostituirle, piuttosto integrandole. Siamo nomadi che ricercano fonti di nutrimento che contribuiscano a sviluppare la nostra personalità in molteplici identità. Identità non è infatti unicità e le sue origini risiedono nelle comunità che attraversiamo nel nostro nomade percorso di vita. E diventa così necessario, ancora una volta, distinguere. Distinguere nell’appartenenza ciò che è prezioso da ciò che è oscuro estirpando radici che imprigionano a favore di origini che si confondono senza disperdersi.
[…] Noi invece che abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare, noi, che pure prima di mettere i denti abbiamo bevuto l’acqua dell’Arno [18] e amiamo Firenze tanto da subire ingiustamente l’esilio per averla amata, noi poggiamo le spalle del nostro giudizio sulla ragione piuttosto che sul senso. Certo, in vista del nostro piacere, ossia della quiete del nostro appetito sensitivo, non esiste sulla terra luogo più ameno di Firenze. Noi abbiamo però consultato i volumi dei poeti e degli altri scrittori che descrivono il mondo nel suo insieme e nelle sue parti, e abbiamo riflettuto fra noi sulle varie posizioni delle località del mondo e sui rapporti che esse presentano con entrambi i poli e col circolo dell’equatore: abbiamo pertanto compreso, e crediamo fermamente, che vi sono molte regioni e città più nobili e più piacevoli della Toscana e di Firenze, di cui siamo nativi e cittadini, e che molte nazioni e popoli si servono di una lingua più gradevole e utile di quella degli italiani. […] (Dante De Vulgari Eloquentia)
E in tal modo Dante indica una strada per liberarsi dall’ossessione della identità: accettarla nella sua sempre precaria approssimazione e viverla spontaneamente. Le due acque, dell’Arno e del mare, s’incontrano e si mescolano e si completano a vicenda senza cancellare le origini. Vissute in tal modo, con semplicità ed affetto, esse diventano un potenziamento della persona. Senza il senso di appartenere a quel mare, l’attaccamento all’Arno diventa un’angustia regressiva, e senza l’amore concreto per il fiume natio richiamarsi al mare diventa una vacua astrazione.
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