Europa interculturale
Le Costituzioni fanno riferimento all’universalismo dei diritti degli esseri umani innati e preesistenti gli stessi stati, per il quale gli individui, a prescindere dalla loro origine e ascrizione comunitaria , hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri e sono soggetti alle medesime leggi.
La globalizzazione ed i fenomeni migratori mettono in crisi il concetto di sovranità e cittadinanza confinati territorialmente e culturalmente. Il modello classico di laicità liberale basato sulla separazione tra sfera privata e sfera pubblica entra in crisi perché: a) incapace di rispondere alla domanda di ritorno del religioso e di riconoscimento identitario oggi così marcata e di impedire l’inasprimento dei contrasti culturali e religiosi che la compresenza di gruppi disomogenei porta inesorabilmente con sé; b) sacrifica la ricchezza delle differenze nel momento in cui si attiene alla versione liberale dello spazio pubblico, in cui esso appare come una scena neutra e vuota, dove non entrano in gioco le identità culturali e religiose poiché le convinzioni di ciascuno vengono relegate e confinate nella sfera dell’esistenza privata, senza essere messe a confronto nella comunicazione pubblica.
Oggi è necessario passare ad un modello pluralista di inclusione basato su una strategia di dialogo e confronto pubblico tra le differenze a cui la democrazia affida il compito di definire le regole della convivenza civile e di trovare soluzioni normative concordate circa le questioni di rilevanza pubblica che di volta in volta si presentano sulla scena politica. Ecco come Zigmunt Bauman descrive questa necessità nell’articolo (1) “Se il Papa ama il dialogo vero più della verità” pubblicato su La Repubblica il 21/10/14: Chiudo gli occhi, mi turo le orecchie… mi affretto a premere “cancella” quando sul monitor mi imbatto in un’idea in disaccordo con le mie. Hic, davanti al portatile, all’i-Pad o allo schermo dell’i-Phone; e nunc, nelle circa sette ore che l’uomo medio di oggi passa a guardarli. Questo hic et nunc che abbiamo avuto in dono dall’intelligenza artificiale, è una “comfort zone”; uno spazio al riparo dalle controversie, dalla stancante necessità di portare prove e argomenti a sostegno di ciò che diciamo, e dal pericolo di esser smentiti in uno scambio dialettico. Hic et nunc, in un mondo sempre più affollato e congestionato in cui chiese cattoliche, luterane e ortodosse, moschee, sinagoghe e luoghi di culto metodisti, battisti e dei Testimoni di Geova, si contendono lo spazio disponibile a volte nella medesima strada, ignorarsi a vicenda è sempre meno possibile. Come Jorge Bergoglio prima di lui, papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo, ma la pratica. Di un dialogo vero, tra persone con punti di vista esplicitamente diversi, che comunicano per comprendersi. Non di un dialogo all’insegna dell’elogio reciproco, pensato dall’inizio per concludersi con una standing ovation; né un “dialogo” (solo in apparenza di tipo opposto) che sia in realtà una mera giustapposizione di monologhi.
Il confronto pubblico non avviene in un vuoto giuridico e legislativo, ma in uno spazio delimitato dalla cornice giuridica della Carta costituzionale e regolamentato dalle sue leggi inviolabili, le quali, mentre fissano il sistema dei diritti e delle garanzie fondamentali dei cittadini, li vincolano al tempo stesso all’adempimento responsabile di una serie di altrettanti precisi doveri. La compatibilità con i principi costituzionali diviene il criterio in base al quale la società democratica vaglia di volta in volta quali rivendicazioni identitarie, legate a particolarità di costume e di modi di vita, possano essere accettate e quali debbano essere rifiutate.
Appare qui nettissima la linea di demarcazione tra l’integrazione giuridico-politica che include l’altro nel sistema del costituzionalismo democratico ma gli permette di mantenere la sua diversità, e l’assimilazione
culturale, che gli imporrebbe invece di rinunciare alla propria specificità. Tale distinzione è resa possibile dal significato che la parola patria riveste in questo contesto: essa non è fatto, ma un patto, non presuppone un’identità nazionale radicata in una comune origine etnica, culturale, religiosa, ma assume una connotazione civico-politica e sta a indicare l’adesione ai principi costituzionali e il lealismo nei confronti delle istituzioni pubbliche da parte di cittadini diversi per provenienza e per appartenenza.
Ed è interessante notare come il problema che vivono oggi molti immigrati in Europa fosse sentito dalle minoranze dell’impero ottomano che speravano fosse stato risolto dalla promulgazione della costituzione del 24 luglio 1909. Ecco come ne parla Amin Maalouf nel suo libro “Origini”: [166] Il quesito fondamentale non è definire i diritti delle minoranze: nel momento in cui si formulano i problemi in questo modo, si entra nell’ignobile logica della tolleranza, vale a dire della protezione altezzosa che i vincitori accordano ai vinti. Botros non voleva essere “tollerato” – e non lo voglio neanch’io, che sono suo nipote. Esigo che si riconoscano pienamente le mie prerogative di cittadino, senza che io debba rinnegare le appartenenze di cui sono depositario. E’ un mio diritto inalienabile, e io mi allontano con alterigia dalle società che mi vogliono privare di esso. Ciò che interessava Botros […] era sapere se a lui, nato in seno a una comunità minoritaria, di religione cristiana e di lingua araba, sarebbe stata riconosciuta in un impero ottomano modernizzato, una completa dignità di cittadino, senza dover pagare per tutta la vita il prezzo della propria nascita.
E ancora da “Origini” di Amin Maalouf il monito di non considerare il nazionalismo come una forma accentuata di patriottismo: [168] il nazionalismo era esattamente il contrario del patriottismo. I patrioti sognavano un impero dove avrebbero potuto coesistere molteplici popoli che parlavano lingue differenti e professavano religioni diverse, che tuttavia erano uniti dalla comune volontà di costruire una patria moderna, capace di insufflare nei princìpi proposti dall’Occidente la sottile saggezza dello spirito levantino. Invece i nazionalisti sognavano il dominio totale, se appartenevano all’etnia maggioritaria, oppure il separatismo, se facevano parte di comunità etniche minoritarie. Il miserabile Oriente dei nostri giorni è il mostro generato dall’unione di questi sogni.
Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006, in un suo articolo (2) pubblicato su La Repubblica il 27/10/2012, si interroga e ci interroga sul reale significato di Europa.
[…] cominciai a interrogarmi (e a interrogare gli altri) sul reale significato dell’ Europa. Se è la religione a definire i confini dell’ Europa, pensavo, allora l’ Europa è una civiltà cristiana: e in questo caso la Turchia, la cui popolazione al 99 per cento è di fede islamica, geograficamente fa parte dell’ Europa, ma non ha posto nell’ Unione Europea. Ma una definizione tanto ristretta del loro continente sarebbe soddisfacente per gli europei? Dopo tutto non è il cristianesimo che ha trasformato l’ Europa in un modello per le persone che vivono al di fuori del mondo occidentale, ma una serie di trasformazioni sociali ed economiche, e le idee che tali trasformazioni hanno generato nel corso degli anni. Questa forza intangibile che negli ultimi due secoli ha fatto dell’ Europa una calamita fortissima per il resto del mondo è, per dirla in parole semplici, la modernità. Come i nostri fidati libri di storia ci hanno insegnato, la modernità è il prodotto di fenomeni squisitamente europei come il Rinascimento, l’ Illuminismo, la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale. E l’ elemento chiave è che le forze trainanti di questi cambiamenti di paradigma non sono state religiose, ma “laiche”. Qualche anno fa, ogni volta che veniva fuori l’ argomento dell’ Unione Europea, dicevo che la Turchia doveva entrare nell’ Unione se dimostrava di essere in grado di rispettare i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza. «Ma la Turchia rispetta questi principi?», mi chiedeva giustamente la gente, e ripartiva il dibattito. Ripensando a quei giorni non posso fare a meno di provare un senso di nostalgia per la passione con cui si discuteva, sia in Turchia che in Europa, dei valori che l’ Europa doveva difendere. Oggi, con l’ Europa che si dibatte nella crisi della moneta unica e il processo di espansione che ha subito un rallentamento, pochissimi si preoccupano ancora di ragionare e discutere su questi argomenti. E purtroppo è anche scemato l’ interesse positivo che circondava il possibile ingresso della Turchia. In parte perché la libertà di pensiero rimane, tristemente, un ambito in cui il mio Paese è ancora in ritardo. Ma la ragione principale sta indubbiamente nel consistente afflusso di immigrati musulmani dal Nordafrica e dall’ Asia in Europa, che agli occhi di molti europei getta un’ ombra cupa di dubbio e paura sull’ idea che un Paese a maggioranza musulmana entri nell’ Unione. È evidente che questa paura sta spingendo l’ Europa a erigere muri ai suoi confini, e ad allontanarsi gradualmente dal mondo. Mentre il motto Liberté, égalité, fraternité cade pian piano nel dimenticatoio, l’ Europa si trasforma tristemente in un luogo sempre più conservatore, dominato da identità etniche e religiose. (Traduzione di Fabio Galimberti) © Orhan Pamuk 2012.
(1) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/10/21/se-il-papa-ama-il-dialogo-vero-piu-della-verita53.html
(2) http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/10/27/il-muro-del-bosforo-come-triste-europa.html?ref=search
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