In uno degli ultimi numeri di Scenari Stefano Cardini richiamava l’attenzione sull’impatto della recente pubblicazione dei “Quaderni neri” di Martin Heidegger, e invitava a ripensare con più radicalità il nesso tra quel pensiero e la storia politica europea. Sulla scorta di quelle considerazioni ho preso visione direttamente dei volumi 95 e 96 della Gesamtausgabe, dove sono contenute le riflessioni degli anni 1938-1941. Come cercherò dimostrare, sia pure per sommi capi, queste pagine sembrano effettivamente destinate a modificare le ricezione heideggeriana, non per qualche rinnovato scandalo per l’antisemitismo o nazismo di Heidegger, ma per la collocazione di quelle idee sullo sfondo complessivo del suo pensiero (…) (continua la lettura dell’articolo sull’ultimo numero di Scenari).
L’articolo qui richiamato di Andrea Zhok mi pare utilissimo, e personalmente in grande parte ne condivido i risultati. Se posso permettermi, vorrei sottolineare due aspetti del ragionamento di Andrea che mi paiono coincidere perfettamente con gli argomenti che ho proposto anch’io (perdonate l’autocitazione, ma il suo senso è di richiamare i lettori alla parte precedente del dibattito che si è svolto su questo Lab in seguito alla bella recensione che Stefano Cardini ha fatto del libro di Donatella Di Cesare su quaderni neri di Heidegger (https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2014/11/heidegger-quaderni-neri-di-cesare/).
La prima è che il nazismo di Heidegger non si riduce all’antisemitismo, non almeno nel senso di un razzismo; la seconda è che si radica nelle categorie ultime (pardon, quanto sono oggettivante!) del suo pensiero, ma come potrebbe radicarcisi qualsiasi deriva ideologica, non solo quella più specificamente nazista.
Vorrei a questo punto rivolgere ad Andrea una sincera domanda, e mi interessa moltissimo la sua risposta. Se tanto minima è la presa del pensiero di H. sulla realtà – tanto grande è la sua superficialità, e non mi sembra tu intenda la sua superficialità soltanto nell’informazione storica – quali sono le analisi di Heidegger che “rimangono illuminanti” e dove “egli sembra aver visto alcune cose meglio, o più radicalmente, di altri”?
Non è una questione secondaria. Tu dici, Andrea, che negli anni ’30 Heidegger “giunge ad una diagnosi, controversa ma profonda, della storia occidentale, in cui si riconosce l’imporsi progressivo di un atteggiamento di ‘entificazione’ dell’essere. Ciò che Husserl esaminava come obiettivismo della razionalità scientifica occidentale diviene in Heidegger qualcosa di molto più esteso e radicale, da ripensare come questione ontologica fondamentale”.
Sarebbe in questa direzione che dobbiamo cercare le cose illuminanti?
Husserl non si limita certo, nella Krisis (né in alcun punto del suo pensiero dall’inizio alla fine) a questa povera idea dell’obiettivismo della razionalità scientifica, come sai bene. E’ una riflessione sul vuoto cognitivo che sta alla base dello scetticismo assiologico, etico e pratico della modernità, (nonostante, e in ragione anche dei limiti, dell’Illuminismo) e ciò che lega questa base alla naturalizzazione della coscienza (Husserl ha predelineato con precisione i nostri anni, a differenza di Heidegger). Un vuoto cognitivo che proprio la filosofia è chiamata a riempire (il famoso “compito”, o telos). Alcuni di noi lavorano a sviluppare questo acquisto di nuova conoscenza filosofica che avrebbe davvero portata fondamentale: certo è che il suo scopo è pensare con chiarezza e su basi aperte al confronto con tutte le scienze, su basi nuove, anche e precisamente quei due principi di personalità e di universalismo che devono sorreggere una fondazione cognitiva e razionale di tutto il pensiero pratico: etico, giuridico, politico. E – perché no, economico.
Tu stesso dici che, invece, proprio la negazione di questi due principi risulta dall’ idea dello sradicamento dell’ente dall’essere e della sua progressiva entificazione, qualunque cosa queste variabili indeterminate significhino. Perché con la Judentum che sradica o qualunque altra fregnaccia etnico-metafisica del genere il principio di non discriminazione o di pari dignità va a farsi friggere, con le conseguenze che si sono viste (attenzione: intendiamo pari dignità degli individui proprio in quanto soggetti morali, portatori di un ethos, proprio perché un ethos è soggetto come ogni altra cosa umana alla giurisdizione della ragione, cui può accedere qualunque portatore di un ethos). E perché con l’oblio dell’essere che è nell’essenza dell’essere (di nuovo, l’oblio di y che è nell’essenza di x, vattelapesca di cosa si parla) il determinismo destinale si afferma in tutta la sua indifferenza a quello di responsabilità personale, dunque non solo all’etica ma anche al resto della ragione pratica.
E allora, Andrea, dimmelo con chiarezza almeno perché io possa capire la persistente infatuazione di molti studenti, il pervicace insegnamento di molti colleghi: che cosa c’è di illuminante nel pensiero di quest’uomo, e delle compiute smobilitazioni dell’etica e della logica, oltre che delle ragioni del diritto, della politica, dell’economia, alle quali ancora per cinquant’anni si è dedicata la filosofia di troppi suoi seguaci?
In attesa della risposta di Andrea, ricordo che neppure per la citata Donatella Di Cesare, e io concordo, il nazismo di Heidegger si riduce all’antisemitismo in senso biologico, tanto che lo chiama “metafisico”. Tra l’altro, lo stesso vale per Carl Schmitt. Entrambi però lo pongono alla radice della loro interpretazione del frangente storico in cui si sentono coinvolti. Ed entrambi, influenzati tra le altre cose dal relativismo storicistico di Oswald Spengler, tesero a risolvere su un piano destinale (e deresponsabilizzante) via via più enflato la contraddizione con gli esiti fattuali di quello stesso frangente. Anche Spengler mostrò sempre sufficienza nei confronti delle letture biologico-razziali, tanto da diventare per Mussolini, negli anni che precedettero l’alleanza strategica con Hitler, un punto di riferimento. Nessuno di questi intellettuali è un rozzo Alfred Rosenberg, detto sinteticamente. Si muovono su un terreno più profondo, almeno in apparenza, del razzismo di grana grossa di quello. E ognuno presenta peculiarità che a mio avviso meritano di essere evidenziate non per semplice curiosità storiografica. L’antisemitismo non è e non è stata una discriminazione come un’altra, infatti. La Shoah è stata “anche” ma non “solamente” un crimine contro l’umanità. Ha avuto e continua ad avere uno o più significati storici e simbolici peculiari, che queste nostre riflessioni possono aiutare a illuminare. Basti pensare alle confuse discussioni di questi giorni su guerra e terrorismo, fronte interno e fronte esterno, Stato e fazione, Nazione, nazionalità, cittadinanza, identità nazionale, etnica e religiosa ecc E alla problematicità di tutte le categorie del diritto internazionale, oggi sempre più attuale, tra le quali continua a riecheggiare a mio parere poco avvertita la nozione kantiana di hostis injustus, che incrocia Hobbes con Agostino, diritto ed etica, fatti e valori, in modo non così pacifico. Ci sono assunti e sottintesi da esplicitare, forse, sotto la “giurisdizione della ragione”.
In attesa di capire meglio l’accenno di Stefano all’incrocio fra Hobbes e Agostino. E della risposta di Andrea. A proposito di giurisdizione della ragione. E di heideggerismi. Sono ancora senza parole per la mancanza di un dubbio, di una perplessità, di una voce contraria al modo in cui si sono conclusi i fatti di Parigi e all’insopportabile retorica sull’Occidente e il suo Nemico di cui si siono ricoperte le pagine dei giornali. Troneggia per reboante e violenta vuotezza il Corriere della sera con un saggio di Severino sulla Tecnica che finirà per aver ragione delle “razze” che ora di fanno guidare dall’Islam e un recupero delle pagine mestatrici di risentimento di Oriana Fallaci.
Spero che qualche amico mi smentisca, indicandomi qualche parola di giusto sentire che mi sia sfuggita, spero che ce ne siano molte. MA E’ POSSIBILE CHE NESSUNO DICA CHE, COMUNQUE SIANO ANDATE LE COSE (e che incongruenze, che confusioni nei racconti e nelle notizie, che ridicole parole mobilitate per descrivere la freddezza e la perfidia di quegli sciagurati criminali sì, ma disorganizzati e totalmente improvvisati in apparenza) LA SOLA CONCLUSIONE COERENTE CON I PRINCIPI, TANTO VOLGARMENTE SBANDIERATI, DELLA NOSTRA COSIDDETTA CIVILTA’ SAREBBE STATA CHE I CRIMINALI FOSSERO STATI CATTURATI VIVI E SOTTOPOSTI A UN REGOLARE PROCESSO, CHE LORO FOSSE STATO FERMAMENTE RIFIUTATO IL MARTIRIO E ALTRETTANTO FERMAMENTE RIFIUTATI I TONI DA BOLLETTINO DI GUERRA VITTORIOSO? Comunque siano andate, o siano “dovute” andare le cose. Se quei principi tanto conclamati fossero stati veramente a cuore al presidente Hollande, 88.000 poliziotti non avrebbero veramente potuto, con calma, creare una situazione- trappola per gli asserragliati, fino a prenderli, magari far qualche giorno, per esaurimento, dopo aver tentato di offrire loro una via d’uscita pacifica? Ma di trattative non mi sembra ci sia stata l’ombra. Perché in fondo, di distinguere la vendetta dalla giustizia e la guerra dalla repressione del crimine importa ancora a qualcuno? A leggere i giornali di oggi non sembrava davvero. E questo è il più grande regalo che le penne della democrazia potessero fare ai deliri teocratici. Scusate se non c’entra – ma io penso che invece c’entri eccome.
Cara Roberta,
per rispondere appropriatamente alla tua domanda dovrei scrivere un saggio su Heidegger, cosa che, al momento, io non sento il bisogno di scrivere, e, sono certo, tu ancor meno di leggere. Dunque provo a dare una risposta telegrafica, chiedendo scusa per le semplificazioni.
Io credo che Heidegger fino agli scritti dei primi anni ’30 sia essenzialmente informato dal suo confronto con la fenomenologia di Husserl e credo che, sfruttando la solidità della base analitica husserliana, egli introduca un approccio alla fenomenologia che fino a quel momento era inesistente.
Che Heidegger sia stato un acuto interprete di Husserl (o almeno di parte dei primi scritti di Husserl) non credo sia possibile metterlo in dubbio, non foss’altro che per la considerazione che Husserl stesso ne aveva. Gli scritti e le lezioni che noi oggi consideriamo ‘preparatori’ di Essere e Tempo sono in effetti spesso meglio argomentati e più illuminanti dell’opera maggiore (Grundprobleme der Phänomenologie; Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks; Einleitung in die Phänomenologie der Religion; Logik. Die Frage nach der Wahrheit; ecc.).
Ciò che Essere e Tempo introduce di essenzialmente nuovo nella fenomenologia è la prospettiva che oggi chiameremmo ‘esistenziale‘. L’Ego anonimo fungente husserliano che si rapporta ad un mondo di fenomeni (indagabili sotto Epoché) diviene l’Esserci come essere-nel-mondo, che si relaziona ad esso anche, se non soprattutto, nelle forme dell’apprensione emotiva (Befindlichkeit). Sono la stessa cosa, per cui valgono le stesse analisi, ma l’accento passa dalla vita teoretica a quella pratica (etica). Sarebbe inutile ricercare qualcosa del genere nello Husserl precedente al 1927, e poco comunque anche in quello successivo. Questo cambiamento di prospettiva chiede alla fenomenologia qualcosa che Husserl non aveva tentato di chiedere, se non marginalmente, ovvero di essere anche guida morale, orientamento etico del soggetto vivente e finito. È in questa cornice che si comprende il senso della centralità della ‘questione dell’essere’. Ci sono molte ambiguità nell’uso heideggeriano del termine ‘essere’, ma una cosa è certa, rimarcare il problema dell’essere in un contesto fenomenologico significava porre la questione della ‘realtà’, come qualcosa che ci coinvolge e che esige le nostre decisioni, una realtà non può essere indefinitamente sospesa nella forma del giudizio teoretico. Questo spostamento teorico conduce a numerose analisi che trovo illuminanti, come quella sull’essere-per-la-morte, o comunque interessanti, come quella sul circolo ermeneutico. La problematizzazione del senso post-kantiano di ‘metafisica’ che avviene in questi anni è anch’essa di grandissimo interesse (Kant und das Problem der Metaphysik).
Detto questo, credo che la ‘svolta’ sia ingiustificata, ma soprattutto che sia filosoficamente fallimentare proprio nella sua esecuzione. Credo che il tentativo di uscita dalle ‘categorie occidentali’ con uno scarto di lato, creando una sfera di pensiero poetante sia un esperimento fallito. Beninteso, credo che sia un errore in grande stile, che come spesso accade per gli errori filosofici, possa essere esso stesso interessante. Credo tuttavia che l’impatto pedagogico sia stato e sia semplicemente negativo: il suo stile, progressivamente sempre più oracolare e refrattario all’argomentazione, è stato di per sé una fucina di epigoni più o meno patetici.
Due ultime considerazioni telegrafiche.
La prima: lo Husserl della Krisis, lo Husserl che decide di tematizzare con vigore il confronto con la storia e anche il senso etico della propria impresa, è senza alcun dubbio una risposta all’uscita di Essere e Tempo, come provano varie lettere. Dunque contrapporlo a Heidegger mi pare sbagliato. Credo che l’interazione tra quelle due opere (e i lavori limitrofi) sia uno dei punti più alti e degni di riflessione del pensiero fenomenologico.
La seconda: mi pare che tu sia incline a credere che il nazismo di Heidegger sia in qualche modo un’implicazione necessaria del suo pensiero. Io questo non lo penso affatto. Ciò che credo sia implicato dal pensiero del ‘primo’ Heidegger sia una qualche forma di ‘engagement’, non il nazismo. Dopo di che, alcune caratteristiche di rifiuto della modernità presenti nel nazismo sono elementi presenti anche in tutto il pensiero di Heidegger, ma il nesso è tenue e non necessario. È l’insipienza ed ignoranza storico-politica di Heidegger a renderlo necessario, per lui. Un pensatore come Sartre, per dire, ne trarrà conclusioni molto differenti (e a me più affini).
Succintamente e consapevole che la cosa richiederebbe conoscenze più approfondite delle mie. In Hobbes, gli Stati, diversamente dai cittadini, i quali vivono all’interno dei confini che separano gli Stati sotto vari ordinamenti, sono considerati alla stregua di supersoggetti ancora nello stato di natura. Questo, in prima istanza, vale anche in Kant. Al tempo stesso, però, mentre in Hobbes ogni Stato ha lo stesso (o, se vogliamo, nessuno) titolo morale alla guerra, non esistendo nello stato di natura giurisdizione superiore che possa valutarne “i giusti motivi”, in Kant, che nella ragion pratica critica vede una giurisdizione superiore agli ordinamenti statali de facto, interviene la nozione di hostis injustus, la quale evoca l’idea di Agostino (De civitate dei) ripresa dalla Scolastica e oltre di “guerra giusta” come estensione sul piano politico e militare del concetto morale dell’amore del prossimo. Rispetto ad Agostino, però, e alle teorie sulla guerra giusta pre-moderne, in Kant compare una differenza decisiva, che ne estende illimitatamente il campo e la radicalità di applicazione (in antico, erano talmente tanti i vincoli morali a una guerra giusta che si riteneva che di guerre giuste non ce ne fossero state e non ce ne fossero di fatto mai). Nella Dottrina del diritto (1797), infatti, egli definisce “nemico ingiusto” colui la cui volontà, pubblicamente esternata (con parole e con azioni) tradisce una massima che qualora diventasse regola generale renderebbe impossibile lo stato di pace tra i popoli, perpetuando lo stato di natura. Questo basterebbe a giustificare moralmente e dunque politicamente e militarmente di fronte alla ragion pratica l’azione comune di coloro che sono o si sentono minacciati nella loro libertà. Non solo: darebbe anche titolo a far accettare al nemico vinto “un’altra costituzione” che per sua natura sia più sfavorevole alla propensione al conflitto. Si tratta di un titolo morale e politico alla guerra che non ha più confini. E che tende a trasferire sul piano dei rapporti tra Stati l’idea di ordinamento interno a ciascun Stato, per il quale chi minaccia (con parole e con azioni) l’ordinamento non è più combattuto come “nemico” ma perseguito come delinquente (che letteralmente significa: colui che viene meno ai propri doveri), anzi delinquente “politico”. Sarebbe interessante approfondire i nessi di questo tipo d’impostazione con l’attualità dei conflitti che dalla prima guerra del Golfo affliggono la cosiddetta “comunità internazionale” (comunità di chi? persone, cittadini, nazionalità, Stati, coalizioni?). Si pensi a concetti come “operazione di polizia internazionale” che tende a sostituire quello di “guerra”; a quello di “effetti collaterali”, che sostituisce quello di “vittime civili” (cresciute dal 5% fino al 66% delle totali dalla Prima guerra mondiale a oggi); a quello di “miliziano” o di “terrorista”, che mescola il “ribelle”, il “bandito”, il “resistente”, il “combattente”, il “fighter”, il “contractor” con i soldati regolari inquadrati nell’esercito del “nemico ingiusto”. O alla difficoltà di identificare il soggetto istituzionale interprete di tale giurisdizione superiore (l’Onu, la Nato, la “coalizione degli Stati volenterosi”). O alla reciproca accusa sulla natura criminale del nemico e sulla necessità quindi di annientarlo come “perpetua minaccia alla pace”. Non sono naturalmente nelle condizioni di farlo. Però aiuterebbe a fare un po’ di chiarezza. In fondo, quando invochi il diritto dei fratelli Kouachi a un trattamento “secondo giustizia”, non fai che mettere il dito in queste ambiguità e oscurità che ci avvolgono. Come vogliamo definire i fratelli Kouachi, infatti? Sono “cittadini” francesi soggetti all’ordinamento civile della Francia, certo. Ma sono anche, o quantomeno si definiscono e vengono definiti, “foreing fighter” di un esercito, occupante con una sorta di propria seppur per noi aberrante giurisdizione un territorio, chiamatao Isis: Stato “pirata” munito, purtroppo, di varie lettere di corsa.
P.S. Le riflessioni di cui sopra attingono, oltre che direttamente all’opera di Carl Schmitt Il nomos della terra (cominciata nel 1938, edita per la prima volta nel 1941 e poi riveduta e ripubblicata nel 1950; qui ci riferiamo all’edizione Adelphi del 2011, in particolare pp. 201-206), al dibattito che soprattutto a partire dai primi anni Novanta ha riguardato il concetto di “guerra giusta” e che vide l’allora giovane generazione nata a cavallo degli anni ’60 e ’70 dividersi tra favorevoli, contrari e non allineati (lo slogan se non ricordo male era: “né con Bush né con Saddam”) all’intervento militare sotto l’egida dell’Onu in Iraq (la Prima guerra del Golfo), che mise a dura prova le categorie pacifiste fino ad allora praticate nel quadro della Guerra Fredda. Per una ricognizione di quel dibattito, che ebbe ampia eco sui mezzi d’informazione, si può leggere: Luci ed ombre del pacifismo giuridico di Norberto Bobbio, intervista di Giulia Beninati a Danilo Zolo, in Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale. Per una ricognizione dei temi sopra accennati, si può vedere Francesco Mancuso, Guerra giusta, nemico ingiusto: Schmitt interprete di Kant, sempre in Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale. Integro con questa riflessione pensante di Guido Rossi, dal titolo Diritto certo e governance opaca.
A Stefano una prossima volta. Ad Andrea: grazie delle risposte. Obiezioni filologiche. Alla tua tesi: “Questo cambiamento di prospettiva chiede alla fenomenologia qualcosa che Husserl non aveva tentato di chiedere, se non marginalmente, ovvero di essere anche guida morale, orientamento etico del soggetto vivente e finito”.
Ecco le citazioni.
1923, Rinnovamento, Problema e metodo, primo dei saggi Kaizo pubblicati in italiano come L’Idea di Europa, Cortina 1999:
“Rinnovamento è l’appello generale del nostro tormentato presente, e nell’intero ambito della cultura europea. La guerra, che dal 1914 l’ha devastata… ha rivelato l’intima non verità e insensatezza di tale cultura. Proprio questa rivelazione, però, finiosce per impedire che essa dispieghi appieno la sua autentica forza… se, dunque, non si limita a vivere, ma aspira a qualcosa che considera grande, e trova appagamento solo quando riesce progressivamente a realizzatre valori umani sempre più elevati” (op. cit. p. 3).
“Dobbiamo forse aspettarci che questa cultura guarisca da sé nel puro gioco delle forze che producono e distruggono i valori? Dobbiamo accettare il “tramonto dell’Occidente” come se si trattasse di una fatalità, di un destino che ci sovrasta? Sarebbe un destino fatale solo se lo accettassimo passivamente – soltanto se potessimo accettarlo passivamente. Ma questo non possono fatrlo nemmeno quelli che lo annunciano. Noi siamo uomini, soggetti dotati di libera volontà, che intervengono attivamente nel mondo che li circonda e insieme lo modificano di continuo. Che lo si voglia o meno, che lo si consideri giusto o sbagliato, noi agiamo comunque in questo modo. E non possiamo farlo RAZIONALMENTE? La razionalità e l’azione pratica non sono in nostro potere?
Si tratta di fini chimerici, obietteranno di sicuro i fautori della Realpolitik. (…) “(ibid., p. 4)
“La fede che ci anima – che la nostra cultura non POSSA essere considerata unica e compiuta, e che possa e debba essere riformata dalla ragione e dalla volontà degli uomini – può allora “smuovere le montagne” non nella fantasia, ma nella realtà, solo se si trasforma in pensiero obiettivo, razionalmente evidente, solo se giunge a chiarire e a determinare pienamente l’essenza e la possibilità del suo fine, nonché del metodo che permette di realizzarlo. E in tal modo la fede si procura da sé il fondamento della propria giustificazione razionale” (ibid. p. 5).
“Quel pessimismo scettico e l’impudenza della sofistica politica che domina incontrastata la nostra epoca, e che si serve degli argomenti etico-sociali solo come di un mantello per coprire gli scopi egoistici di un nazionalismo totalmente degenerato…
(ripeto: di un NAZIONALISMO TOTALMENTE DEGENERATO. Siamo nel 1923, pochi anni dopo Scheler attaccherà Mussolini in una famosa conferenza sull’educazione, usando quasi le stesse parole. Carl Schmitt ha già scritto i suoi testi più noti).
… degenerato, non sarebbero possibili se i concetti di comunità, sorti in modo naturale, non fossero circondati, nonostante la loro naturalezza, da orizzonti oscuri, da mediazioni intricate e nascoste, la cui esplicitazione e chiarificazione va ben oltre le forze del pensiero non educato. Soltanto la scienza rigorosa può fornire qui un metodo e dei risultati sicuri; soltanto essa, dunque, può offrire il lavoro teorico preliminare dal quale dipende ua riforma razionale della cultura…
(Caro Andrea, non hai scritto tu che gli universali storici heideggeriani sono di una povertà e superficialità sconcertante? E il lieber Meister non l’aveva ben prevenuto che non conveniva disprezzare le scienze sociali? Ti ricordo di nuovo, siamo nel 1923. Ma queste idee sono profuse a piene mani nei capitoli di fenomenologia della ragione delle Idee I (1913) – per non parlare delle Lezioni di Etica citate sotto, dal 1904 al 1928. E per tacere ovviamente di Reinach, Pfaender, Scheler, Von Hildebrand, Geiger, Stein, Conrad Martius e gli altri fenomenologi che le hanno raccolte. Continuo con la citazione):
… La nostra epoca abbonda di grandi e serissime scienze. Abbiamo le scienze “esatte” della natura e grazie ad esse, quella tecnica della natura tanto ammirata da cui è dipeso il potere e il primato della civilizzazione moderna,e le cui conseguenze negative, però, sono state sovente deplorate. Comunque sia, in questa sfera tecnico-naturale dell’agire umano la scienza ha reso possibile una vera razionalità pratica e ha insegnato, in maniera semplare, come essa debba illuminare la prassi. Quella che manca, tuttavia, è una scienza razionale dell’uomo e della comunità che sappia fondare una razionalità nell’agire sociale, politico, e una tecnica politica razionale” (ibid. p. 6).
È solo l’inizio di un libro di pura luce, che nel saggio culminante su Tipi Formali di Cultura mostra anche cosa poteva pensare Husserl delle ridicole categorie heideggeriane sulla Judentum e la germanità (o di quelle schmittiane, siamo lì), proprio nel senso che dici tu. Ma queste citazioni possono ben illuminare l’impegno etico-esistenziale-normativo-politico che per tutti e cinque i saggi Husserl TENTA NON MARGINALMENTE DI CHIEDERE ALLA FILOSOFIA, nel quadro di questo programma neo-illuministico. Le ho riportate naturalmente soprattutto per i più giovani che seguono questa nostra discussione. Insisto sulla non-marginalità di queste pagine, perché è solo la cieca e rancorosa retrointerpretazione di Heidegger, che, prevalsa in tutta l’accademia, ha ridotto Husserl a una ridicola figura di cartesiano attardato. (Attenzione però: questo non vuol dire che Heidegger abbia comunque “approfondito” la fenomenologia e l’ontologia husserliana, dal momento che le ha totalmente negate nei loro principi, metodologici, epistemici, logici, ontologici e assiologici. Ma questo davvero è per un’altra volta, o meglio per il nostro, il tuo e il mio, lavoro quotidiano, ormai responsabile di se stesso anche se grato ai suoi diversi maestri). Queste idee nutrono la Storia della filosofia che Husserl insegna per tutti gli anni precedenti il 1923, e culmina nei due libri di Erste Philosophie, nelle sezioni delle Idee dedicate alla ragione assiologica e pratica e naturalmente nelle lezioni di etica.
Lezioni di Etica e Filosofia del Diritto, Halle 1899;
Lezioni di Etica 1908-14
Lezioni di Etica 1920-24
Pubblicate in traduzioni italiane parziali (1908-14 come Lineamenti di Etica Formale, a c. di Basso e Spinicci, Le lettere 2002; 1920-24 come Introduzione all’Etica a cura di Trincia e trad di Zippel, Laterza 2009).
Cara Roberta,
capisco l’intento pedagogico delle citazioni e lo apprezzo. Ti confesso però che quelle pagine non mi erano ignote. Sugli articoli su “Kaizo” e l’idea di Europa ci ho persino lavorato sopra. E tuttavia, da fenomenologo husserliano quale mi reputo, non posso che insistere: in Husserl non compare, se non sporadicamente, quell’impostazione di domanda, che noi chiamiamo ‘esistenziale’ e in cui ne va del rapporto tra la propria finità, il senso della propria esistenza, la storia, la realtà nel suo senso complessivo. Heidegger, grazie alla sua formazione ‘religiosa’, porta invece al centro della riflessione fenomenologica uno spirito e un’inquietudine kierkegaardiani. E con essi sorgono interrogativi e temi nuovi. Qualcuno può ritenere che questo non sia un guadagno e che la fenomenologia, in quanto metodo dell’indagine teoretica, non sentiva affatto la mancanza di questa prospettiva. Un’opinione legittima, da cui però dissento.
Tutto ciò per dire una sola cosa, che credo dovresti ammettere: il pensiero di Heidegger non è già contenuto come un sottoinsieme in quello di Husserl, e l’opera di Heidegger non è né una scopiazzatura né un mero esercizio retorico, ma un contributo reale ed innovativo nella storia del pensiero del ‘900. Se e quanto condivisibile è naturalmente questione separata. Questo non toglie affatto spazio alla possibilità di considerare molte sue idee, tesi, visioni del tutto prive di fondamento, fallimentari, e anche diseducative. E non toglie spazio a giudizi impietosi su diversi aspetti umani del personaggio.
A mio avviso, ed è questo quello che mi premeva segnalare nelle considerazioni sui Quaderni Neri, ciò che oggi deve essere messo da parte una volta per tutte e senza remissione è la percezione (alimentata dallo stesso Heidegger) del filosofo di Meßkirch come vate, profeta, oracolo visionario che tracciava una nuova strada, e cui chiedere precisazioni razionali ed argomentazioni sarebbe suonato ‘di cattivo gusto’, quanto chiederle a Giovanni Battista. Ecco, ciò che credo emerga con assoluta chiarezza è come il filosofo Heidegger sia stato a più riprese colpevole di superficialità, dissimulata grazie all’apparato categoriale che dominava come pochi. Ergo, il rispetto ‘incantato’, così diffuso, nei confronti dello Heidegger ‘profeta’, ‘creatore di un nuovo mondo speculativo’, non ha più alcuna ragionevole possibilità di essere mantenuto.
Un contributo alla discussione. Donatella Di Cesare e gli «Schwarze Hefte» di Martin Heidegger: http://www.kasparhauser.net/CULTURE%20DESK/HeideggerNazismo/Fai-DiCesare.html