Riceviamo e volentieri pubblichiamo la recensione di Maria Chiara Bruttomesso a Guido Cusinato, Periagoge. Teoria della singolarità e filosofia come cura del desiderio, QuiEdit, Verona 2014, 436 pp.
«C’è dunque (…) un’arte (techne) apposita di volgere attorno (tes periagoghes) quell’organo, e nel modo più facile ed efficace. Non è l’arte di infondervi la vista: quell’organo già la possiede, ma non è rivolto dalla parte giusta e non guarda dove dovrebbe; e a quell’arte spetta appunto di occuparsi di questa sua conversione» (Plat., Resp., VII 518 d). È una conversione del tutto particolare ad essere al centro del recente lavoro di Cusinato: ciò che la caratterizza è il processo costitutivamente inconcluso di apertura al mondo (Weltoffenheit). Quest’ultimo concetto, centrale nell’antropologia filosofica a partire dagli anni ’20 del 1900, viene reinterpretato all’interno di un’articolata tesi sulla formazione (Bildung) della singolarità, che getta nuova luce non solo sull’ermeneutica del concetto platonico di periagoge, bensì sul problema della vita etica stessa. L’autore infatti, prendendo l’avvio da temi quali l’epimeleia heautou e l’ordo amoris, o ancora l’ontologia della persona e la fenomenologia del sentire, instaura un produttivo e spesso critico dialogo con i predecessori, coniugando inoltre, in maniera assolutamente originale, spunti interdisciplinari provenienti dalla teoria dei sistemi, dalla neuroetica e, non ultimo, dall’arte figurativa.
Il testo si suddivide in nove capitoli, relativi nell’ordine a: Il problema dell’orientamento nella società liquida, Espressività e fenomenologia del sentire, Metabolismi del desiderio, Filosofia della mente e identità personale, Singolarità e teoria dell’individuazione, La persona e il compatico, Pratiche di risveglio e sentimenti germinativi, La riduzione fenomenologica e l’Ontologia della cura. Se i temi non sono del tutto estranei alle precedenti opere dell’autore, innovativo è invece il tentativo di legare tesi filosofiche e immagini iconiche, come egli stesso sottolinea (p.13). La profonda trasformazione rispetto al testo del 2012 (La cura del desiderio), dalla ripresa del quale si è originato un volume nuovo, è resa evidente proprio dall’influsso di queste figure sulla formazione dell’opera, immagini che permettono inoltre al lettore una più immediata comprensione degli argomenti trattati. La prima di queste è la periagoge che dà il titolo al volume, la «con-versione» del prigioniero immerso fra le ombre della caverna platonica, in un’interpretazione che si distacca da quella impostasi a partire da Heidegger: la paideia in questione non si configura come un raddrizzamento coatto di fronte alla verità apodittica del Bene assoluto, bensì come la «maggiore correttezza dello sguardo» (orthoteron blepoi) (Plat., Resp., VII 515d) che rende l’uomo in grado di distinguere non il Bene, ma il meglio. Ne emerge una proposta ermeneutica di rilettura di Platone come filosofo di una cura che si coniuga all’esercizio di autotrascendimento.
Come nell’Annunciazione di Cestello di Botticelli, immagine pittorica di centrale importanza nel testo, il risveglio al mondo valoriale comporta una perdita di equilibrio che implica un forte impatto sul piano emotivo, prima ancora che su quello razionale. L’obiettivo di Cusinato è quindi quello di generare nel lettore una Krisis che, come l’immagine dell’Onda di Hokusai, miri a far spazio ad un vuoto maieutico. La tesi può certamente apparire controintuitiva: se, da un lato, l’accusa di relativismo è consapevolmente prevista dall’autore, dall’altro egli si dimostra altrettanto attento a non ricadere in un ortopedico raddrizzamento dello sguardo. Si tratta di una dicotomia che, secondo Cusinato, si riflette nella scena sociale: «dopo l’annuncio di Nietzsche, l’immagine verticale della scala è stata gradualmente sostituita dall’ideologia opposta (…), con il risultato di teorizzare l’impossibilità di deviare dal flusso uniformante della liquidità» (p. 49). Come aprire allora una terza via? Prendersi cura del desiderio, concetto ripreso da Hadot e Foucault, può dare origine ad un diverso diaframma di apertura al mondo: per usare una metafora wittgensteiniana, potremmo dire che esso permetta di abbandonare il mondo dell’infelice per quello del felice. È, in particolare, una cura resa possibile dalla trascendenza che, con un’eco levinassiana, è inaugurata dall’altro-da-sé come punto d’appoggio all’epoché dal proprio ego-centrismo. A questo proposito, risulta importante evidenziare la distanza da una sacralità di tipo teologico, che l’autore sottolinea rimarcando l’etimologia tedesca: il «sacro» (das Heilige) coincide con il «guarire» (dal verbo tedesco heilen) nella misura in cui promuove l’apertura (Weltoffenheit), cioè in quanto diventa esemplarità che mi salva (p. 29), mi cura o, per meglio dire, permette la cura del mio stesso desiderio, in quanto apre il mio sguardo al mondo dei valori.
Come avviene allora l’incontro con l’altro? L’autore si allontana prontamente dal soggettivismo che una lettura ingenua potrebbe scorgere nelle sue tesi: la dimensione espressiva, insita in ogni fenomeno e non solo nelle nostre condizioni trascendentali d’esperienza, è il vero focus attenzionale della fenomenologia della percezione, in maniera molto più immediata dell’astratta suddivisione kantiana fra sensazione e sentimento. La tesi, a mio avviso, ha il merito di non limitarsi a riformulare il concetto di espressività così come presentato da Scheler, bensì di inserirsi nel dibattito delle scienze cognitive sul problema dell’empatia; a questo proposito, Cusinato critica peraltro il riferimento ad una “inter-soggettività” intesa come ponte gettato fra due soggetti monadicamente già costituiti. Tra le righe, si evidenzia l’influenza di un’idea di embodied mind che proviene dalla rilettura critica di Schilder e di Scheler, con il risultato di accostarsi più alle teorie della percezione diretta dei vissuti altrui di Gallagher e Zahavi che non a quelle, prevalenti nel dibattito odierno, della theory theory o della simulation theory. Reinserita a pieno titolo la dimensione dell’emozione e del sentire nella vita etica, Cusinato la pone sorprendentemente a guida della ragione stessa, superando l’idea di un soggetto sottoposto ad una legge morale imposta verticalmente da una razionalità giudicante, come evidenzia il contrasto con l’immagine della scala di Climaco (p. 50).
Se «il momento costitutivo dell’identità non è più rappresentato solo dalla narrazione, ma dal concetto più ampio di espressività» (p. 186), inevitabile è il confronto con la filosofia della mente e con alcune teorie dell’identità. Pur riconoscendo le criticità insite nelle teorie dell’identità narrativa, le obiezioni maggiori sono rivolte alla caratterizzazione del sé come un humeano bundle of perceptions, mettendo in luce come in queste tesi venga completamente rimosso e frainteso il tentativo di Hume stesso, volto a far emergere il sé sul piano delle passioni come moral self, dopo il conclamato fallimento d’individuarlo con l’intelletto nel senso di un rational self. Le difficoltà riscontrate nelle tesi prese in considerazione, da Ricoeur a Parfit o ancora a Taylor, si legano non di meno in un unico nodo aporetico: in esse sembra mancare la scintilla che origina l’estasi schellinghiana, cioè l’esemplarità come miccia che innesca l’incendio improvviso della periagoge diretta alla cura del desiderio. Benché sia ben conscio delle discordanze insite in ogni identità narrativa, Ricoeur nella sua teoria sembra mancare proprio della con-versione radicale ed imprevedibile indotta dalla forza dell’esemplarità, irriducibile alla dimensione identitaria del sé ed eccedente persino il suo stesso progetto. L’attenzione eccessiva all’ermeneutica, tanto del testo come della propria identità, si inserisce inoltre in una argomentazione critica più ampia che coinvolge anche Taylor: l’interpretazione è davvero sufficiente, da sola, ad ingenerare una trasformazione? E in caso di risposta non affermativa, qual è allora il «tassello mancante»? Non è forse l’esemplarità altrui a mettere in moto questa periagoge, mentre l’ermeneutica del sé rappresenta piuttosto un momento successivo di messa a fuoco e di verifica sul piano riflessivo? Se tale conversione non avviene, l’individuo rischia di chiudersi e di appassire, per-vertendosi in un «ragno autopoietico che tesse la propria esistenza estraendola dal proprio corpo» (p. 193). È infatti l’azione destabilizzante dell’altro, tramite un’«esemplarità» (Vorbild) rigorosamente distinta dal «modello» sociale, a inaugurare l’individuazione della persona: la singolarità non può ri-nascere se non dal trascendimento dei confini del soggetto erettivo. In questa direzione si innesta il neologismo del compatico; il termine è una significativa modifica rispetto alla categoria di patico di von Weizsäcker, che Cusinato reinterpreta per mettere in luce la dimensione originaria del desiderio, necessitante quindi dell’irruzione dell’alterità.
La visione che ne emerge è quella di un’unità originaria della vita, che interpreta in maniera radicale la tesi di una grammatica universale dell’espressività, già esposta nel Sympathiebuch di Max Scheler. Benché la tesi possa, ad una prima lettura, apparire problematica, sarebbe errato dedurne una metafisica panteistica: i riferimenti sono piuttosto la dimensione ecologica della sacred unity of the biosphere (Bateson) e il sentimento di rispetto per la vita (Ehrfurcht von Leben) di Albert Schweitzer. Coerentemente con lo sviluppo di tale teoria, la conseguenza più significativa in chiave anti-solipsista è la concezione della singolarità non tanto come un dato monadico di partenza, ma come il risultato imprevedibile di un processo d’individuazione. Si tratta peraltro di tesi che non rimangono astratte ipotesi, situandosi (coraggiosamente, essendo un’opera proveniente dal mondo accademico) sul piano dell’askesis stesso, in modo da recuperare la dimensione espressiva originaria. Per riprendere una terminologia cara ad Hadot, Periagoge possiede senz’altro il merito di collocarsi su un terreno comune a discorso filosofico e vita filosofica, proponendo, oltre alla tripartizione dell’esemplarità nelle figure genitore-amante-guida, anche dei veri e propri esercizi di trasformazione, significativamente accompagnati da suggestioni iconiche sia occidentali che orientali.
Decisamente innovativa, in quanto incarnata in un corpo e in una pratica, appare quindi la proposta antropogenetica di Cusinato: l’umano non è un individuo schellinghinamente affamato d’essere, bensì una persona che, secondo la felice espressione di María Zambrano, si caratterizza per la hambre de nacer. Si potrebbe forse definire quella dell’autore una metafisica del desiderio, anziché una metafisica dell’essere? Di certo, si tratta di un concetto fondamentale all’antropogenesi, nella prospettiva però di un postumanesimo che può delineare uno Übermensch solo in quanto essere che si avvii ad una trascendenza non dal mondo, ma dall’egocentrismo. In questa direzione, di notevole interesse risulta l’analisi del concetto di katharsis, tema quest’ultimo che peraltro titola una precedente opera del filosofo. Benché esso possa di primo acchito apparire come un termine teso alla purificazione dualista dall’aspetto corporeo, come si è evidenziato Cusinato intende invece radicare la singolarità nel mondo: si tratta, anche in questo caso, di una nuova ermeneutica del testo platonico, che fa leva sulla messa in guardia, rintracciabile nelle Leggi, nei confronti di un «eccessivo amore verso se stessi», considerato da Platone come il «peggiore dei mali» (Plat., Leg. V, 731 d-e). È quindi in riferimento al «peggiore dei mali» (e non alla dottrina del corpo come carcere dell’anima di Plat., Phaed., 65a-67d) che l’autore ripensa il concetto di katharsis, inserendolo nel contesto di un’epoché dell’ego di stampo scheleriano. La riscoperta del sentimento della vergogna, allora, risulta funzionale ad una confutazione che, ben lungi dal divenire contemptus mundi e punizione di sé, è piuttosto allontanamento da una dimensione di arrogante amathia, quell’ignoranza paga di sé che Socrate rimprovera ad Alcibiade. Di notevole importanza è qui il riferimento alla dimensione del sentire, che sottolinea ulteriormente la formazione di una teoria etica scevra dalla dittatura di una ragione universalmente livellatrice.
Vi è un altro sentimento di fondamentale rilievo al centro dell’opera: la meraviglia. Connesso alla vergogna, esso reagisce però ad una condizione archetipica di ignoranza (agnoia) che sottende l’intera filosofia, in quanto amore per una pratica di ricerca continua della saggezza. Non è forse più che mai attuale la rilettura del thauma platonico? Cusinato è convinto di sì (tanto è vero che il concetto dà il nome alla collana stessa del testo), e lo rende evidente tramite il confronto con un quadro di Guérin: Iris, personificazione della filosofia e figlia di Taumante, è colei che ridesta Morfeo, il quale si volta significativamente verso la luce. In questo senso, è l’esercizio della meraviglia a tracciare il confine fra «filosofia come trasformazione» e accademico «discorso filosofico»: nel primo caso, filosofo è solo chi «si esercita a meravigliarsi verso le cose più evidenti, fino a riuscire a provar meraviglia verso ciò che vien considerato da tutti come massimamente evidente: la propria esistenza» (p. 332). Ecco perché la con-versione che titola il testo è al contempo un nuovo modo di guardare alla vita etica e un nuovo sguardo sulla filosofia stessa, che fa propria la critica di Sloterdijk all’approccio puramente accademico perpetuante una campagna militare contro la meraviglia. In una società liquida in cui regna il soggetto erettivo e in cui “l’eccessiva libertà (…) non può trasformarsi che in eccessiva schiavitù” (Plat., Resp., VIII 564 a), Periagoge irrompe come un’opera che si rivolge non solo agli addetti ai lavori, ma in primis alla singolarità di ognuno.
(Per maggiori informazioni sulla collana Thaumàzein, parte dell’omonima rivista, si rinvia al link: http://www.thaumazein.it/collana-di-thaumazein)
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