Mentre il nostro Centro PERSONA è impegnato, insieme con il Centro Studi di Etica Pubblica (CeSEP) e il Centro di Ricerca Interdisciplinare di Storia delle Idee (CRISI), nella preparazione del prossimo numero di Phenomenology and Mind, Philosophy and the Future of Europe, riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo di Carla Poncina, a lungo docente di storia e filosofia al Liceo Pigafetta di Vicenza, e oggi direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea nella stessa città.
Il titolo di questo scritto rimanda esplicitamente a quell’Idea d’Europa che riempie di luce gli ultimi grandi testi di Edmund Husserl, sobriamente intento – lui brutalmente privato della sua funzione pubblica in forza delle leggi antisemite – a riflettere da “funzionario dell’umanità” sul futuro del continente che ha dato i natali alla democrazia e alla scienza. “Europa” più che un continente designa dopo di lui l’utopia di una civiltà fondata sulla ragione pratica, cioè sulla cognizione del dolore per l’infinito fratricidio della sua storia, e insieme sulla sempre rinascente consapevolezza dell’eccedenza dell’ideale sul reale e del diritto sul potere, del valore sul fatto e della ricerca sul dogma. Qui Husserl fu profetico: intensamente prefigurò quella potente iniezione di idealità o di universalismo morale e cosmopolitico nei fondamenti stessi della politica, che dobbiamo agli autori della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del ’48, agli ideatori di una Unione Europea e ai padri costituenti delle Repubbliche rifondate nel dopoguerra.
Questo testo si rivolge a tutti noi educatori, in particolare delle scuole secondarie ma anche universitari, e anche agli studenti che si preparano alla professione, con un’idea portante che vorrei richiamasse l’attenzione e il contributo propositivo di tutti i lettori del nostro Lab: l’idea di un Canone Europeo, e in esso, particolarmente, di un scelta di classici italiani che più di altri si possano dire “europei”. Un Canone di letture e insegnamento che possa unire, da Dublino a Rodi, da Helsinki a Lampedusa, da Lisbona ad Atene i nostri sforzi per stimolare le menti delle nuove generazioni a quella grande riforma intellettuale, morale e civile di cui oggi c’è ancora più bisogno di tutte le misure economiche su cui disputano i governi. Perché ridiventi ascoltabile senza amarezza quell’Inno alla gioia di Beethoven e Schiller che dell’Europa è divenuto l’inno.
Sarebbe bello raccogliere qui, soprattutto fra i colleghi docenti di tutte le scuole, anche sulla base della loro esperienza, commenti che siano anche contributi a questa idea, suggerimenti e pagine per un Canone Europeo.
L’idea di Europa tra utopia e radicamento
Un canone europeo per l’educazione di una nuova generazione di cittadini
“L’idea del progetto europeo è l’idea più moderna,
più rivoluzionaria e socialmente più giusta
di queste ultime decadi”
(M.S.Tavares)
Gli anniversari sono spesso occasioni per celebrazioni vanamente retoriche, ma il centenario della Grande Guerra, che viene ad intrecciarsi col 70° anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, può diventare l’occasione per riflettere non solo sui singoli eventi ma su tutto il trentennio 1914-1945, quello della cosiddetta “guerra civile europea”, prestando attenzione ai due dopoguerra.
Il primo, a conclusione di trattati di pace animati più da spirito di vendetta che da amore per la giustizia e la pace, aprì la strada all’Europa dei totalitarismi.
I milioni di morti, “l’inutile strage”, secondo la definizione di Benedetto XV, a nulla erano serviti. Il Papa, nella Lettera ai capi dei popoli belligeranti del 1 agosto 1917, aveva scritto: «L’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio?»
I due decenni successivi sembrarono portare, quasi ineluttabilmente, alla realizzazione di quella tragica profezia, videro infatti il trionfo dello stalinismo, del fascismo, infine del nazismo, che rapidamente ricondusse alla guerra: una vera discesa agli inferi al cui centro stava Auschwitz.
Paradossalmente proprio dal fondo di tali orrori emerse quella che inizialmente sembrò poco più che un’utopia : l’idea di una nuova Europa, che avrebbe dovuto mettere al bando una logica di potenza già chiaramente esplicitata nel mondo antico da Tucidide, nel famoso dialogo tra i Melii e gli Ateniesi , così come da Platone, nel Gorgia, attraverso le parole del sofista e politico Callicle . (continua a leggere il saggio di Carla Poncina qui)
http://www.libertaegiustizia.it/2014/12/10/cosi-puo-rinascere-lidea-originale-di-uneuropa-unita/
Solo per rompere il ghiaccio – perché sarebbe bello, approfittando del po’ di respiro che viene con le vacanze di Natale, raccogliere qui qualche contributo – non solo ad arricchire il Canone Europeo, ma magari anche a raccontare come vivono oggi la realtà europea i ragazzi che non ne sentono solo parlare a scuola, ma sperano di fare all’estero una parte dei loro studi universitari… Io mi limito per ora a segnalare un piccolo e non noto classico del Federalismo Europeo, citato da Gustavo Zagrebelsky nel magistrale articolo uscito ieri 10/12/14 su “Repubblica” e di cui ho riportato sopra un link: il Progetto di costituzione confederale europea ed interna di Duccio Galimberti e Antonino Rèpaci (Aragno), “un testo assai meno noto del Manifesto, che si pone sulla medesima lunghezza d’onda. L’importanza attuale di questi scritti sta precisamente nella loro inattualità, cioè nel fatto che le cose sono andate molto diversamente da ciò che essi prefiguravano, e non sono andate bene.
Tanto il Manifesto (di Ventotene – quello di Spinelli, Rossi e Colorni, ndr)quanto il Progetto rovesciano il punto di partenza che noi abbiamo fatto nostro come dato incontestabile, cioè l’idea che l’Europa federata possa procedere soltanto a partire dalle sovranità degli Stati, per mezzo di “cessioni” o “limitazioni” di poteri”. Già: Zagrebelsky ci propone appunto di “andare alla radice. Negli anni che precedettero la fine della Seconda guerra mondiale e il crollo dei regimi fascisti e nazisti in Europa, avvicinandosi il momento della ricostruzione politica e morale del Continente, in ambienti intellettuali che guardavano lontano, dal passato al futuro, si fece strada una convinzione: lo Stato nazionale e sovrano aveva compiuto il suo ciclo plurisecolare, liberando in fine il suo fiele velenoso”. Zagrebelsky cita anche Luigi Einaudi e Adriano Olivetti: e, fra i contemporanei da leggere subito, Antonio Padoa- Schioppa (Verso la federazione europea?, il Mulino). Non si tratta di studi astratti. Leggete e rileggete queste parole decise, scritte ieri da un Presidente Emerito della Corte Costituzionale – non da un agitatore di strada: “davanti a noi si aprono due possibilità. L’Europa può implodere su se stessa o può trarre dalle difficoltà la forza per procedere verso una vera integrazione federale. La politica nelle forme partitiche della democrazia ha ormai raggiunto nella coscienza dei cittadini, a torto o a ragione non è questo il punto, il grado zero di credibilità. Quando l’astensionismo di massa supera il cinquanta per cento, la democrazia non è più tale e si trasforma in autocrazia d’una parte della società sull’altra”. Zagrebelsky parla dell’Europa, ma parla anche della democrazia italiana che sembra arrivata a capolinea. E su questo sfondo rilegge quella grande e vera – e sola – novità progettuale nella politica del Novecento. L’idea vera di un’Europa che sia una democrazia sovranazionale e non un’organizzazione intergovernativa. L’Europa vera, che menti meschine, oggi a volte offuscate dall’ignoranza, accusano di ogni nostro male può forse rinascere dalle sue fonti più pure. Qui ed oggi, entro l’orizzonte delle vite dei più giovani di noi. Un tenue lumino di speranza, che solo alle fonti più pure – più profonde e remote anche, come quelle evocate dal saggio di Carla Poncina – potrà alimentarsi. Che grande lavoro per il pensiero. Che grande sfida per l’azione comune di chi non riesce più a credere nei partiti che ci sono oggi, nell’infame viluppo di potere opaco e illegalità quotidiana in cui hanno soffocato la democrazia.
Per contribuire alla riflessione sul bel saggio di Carla Poncina per un canone educativo europeo, segnalo un mio breve intervento su Scenari, rivista digitale di Mimesis Edizioni, dove riassumo alcuni aspetti della discussione avviata su questo blog attorno a Heidegger e gli ebrei, il recente volume di Donatella di Cesare. Al riguardo, ci sono due aspetti del saggio di Carla Poncina sui quali vorrei invitare a riflettere. Entrambi hanno a che fare, in fondo, con la questione, a suo tempo controversa, delle radici cristiane dell’Europa. Nel mio intervento su Scenari, ho sollecitato (anzitutto a me stesso) la necessità di una riflessione attorno al tema dei limiti reali e ideali, spaziali e temporali, dell’Europa, con particolare riferimento ai tormentati confini orientale e meridionale. Quando parliamo di radici cristiane, anche nel senso molto equilibrato e condivisibile di Carla Poncina, non dovremmo dimenticarci, infatti, che per un tempo lunghissimo, ma che non ha affatto smesso di produrre i suoi effetti, la cristianità greco-ortodossa d’Oriente, almeno in tutta l’area d’influenza russofona, non solo ha ritenuto la cristianità dell’Occidente cattolico usurpatrice di tale titolo, ma se stessa vera erede di quella koiné greco-romana che, sulla base di motivazioni ideali non del tutto coincidenti, viene anche da Carla Poncina rivendicata. Quando giovedì scorso Vladimir Putin ha detto: «se per i paesi europei l’orgoglio nazionale è un concetto dimenticato da molto tempo e la sovranità nazionale è un lusso troppo grande, per la Russia questa è una condizione necessaria per la sua stessa esistenza», io ritengo si debba tenere conto anche di quella remota ma potente radice, che secoli, anzi millenni, hanno fuso nella mentalità russa con il principio nazionale, come la storia drammatica della cattolica e occidentalista Polonia rivela. Non è forse del tutto casuale che sia stato il tentativo ucraino d’ancoraggio politico oltreché economico alla Polonia a innescare la crisi attualmente in corso. Quel che voglio dire è che, come tutti i valori, anche il valore di un’eredità ideale è prospettico e che è bene essere consapevoli di come la luce che proiettiamo da un lato generi dall’altro sempre un’ombra come possibile terreno di scontro/incontro con l’Altro. Più che de L’Idea di Europa, allora, bisognerebbe parlare di un’idea di Europa. E accettare di avventurarsi, sperando di non smarrirsi, nel suo cono d’ombra. Il secondo punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione riguarda invece una certa tendenza a risolvere, diciamo così, la tradizione ebraica in quella cristiana come sua ideale prosecuzione nel senso d’un coerente e progressivo ampliamento dell’universale valore della persona umana. È una lettura “paolina” implicita anche nel trattino (-) con cui talvolta viene legata la parola ebraico a quella di cristiano, per esempio richiamandosi alle “radici ebraico-cristiane dell’Europa”. Non so fino a che punto sia condivisibile. In una riflessione sulle radici ideal-storiche europee, infatti, all’ebraismo credo andrebbe assegnato uno spazio autonomo e di rilievo, che includa anche il sionismo nelle sue molteplici e anche contraddittorie dimensioni (da Theodor Herzl a Martin Buber, per intenderci). Non è forse un caso, d’altronde, che i tre filosofi con cui Carla Poncina chiude il suo saggio (Emmanuel Lévinas, Hans Jonas, Hannah Arendt) fossero ebrei della generazione impegnata/investita dal progetto di un ritorno a Sion proprio mentre l’Europa precipitava nell’abisso della Shoah. C’è infatti in quella nazionalità atipica che è l’ebraismo un fondamentale, perché secolare e drammatico, lascito della possibilità d’intendere l’identità in modo aperto non solo alle “ragioni” ma anche, vorrei dire, alle “non-ragioni” dell’Altro: alla sua contingenza, che è differenza, distanza, opacità, estraneità, inassimilabilità, l’ombra di ogni possibile cittadinanza, in forza della quale ciascuno di noi in potenza è sempre un apolide. Dovremmo pensarci quando riflettiamo, per esempio, sull’accoglienza degli “stranieri”, sui limiti del loro diritto d’asilo o di cittadinanza. O ancora quando, in merito al conflitto Israelo-Palestinese, invochiamo, con buone intenzioni, la “naturale e giusta” soluzione “due popoli, due Stati”. Anche l’Europa ha il compito di decidere che senso attribuire al suo ritorno a Sion. Perché la sfida che ha di fronte, con i suoi milioni di cittadini musulmani e il suo confine meridionale sempre più esposto a costante esodo, richiederebbe qualcosa di più e di meglio di una neoterritorializzazione dell’idea di nazione, magari accompagnata da un Kulturkampf di qualche tipo, rischio già presente ai federalisti europei di Ventotene, ma tutt’altro che facile da sventare. Non è soltanto una suggestione, quindi, ritenere che crisi europea e crisi israeliana, pur appartenendo a teatri geopolitici non del tutto sovrapponibili, siano nodi della stessa crisi. Che è crisi culturale perché è contrasto tra valori in seno all’Europa. Anzi, alle Europe.
Suggerimenti per un Canone Europeo. Si è prefigurato da più parti e varie volte che solo una assunzione di responsabilità culturale dei Paesi d’Europa possa mettere al bando quella logica di potenza che nel secolo scorso ci ha regalato due devastanti conflitti di proporzioni mondiali; con propaggini di contrapposizione di blocchi caratterizzati da guerra fredda. Il successivo superamento di tali blocchi ha causato ai margini dell’impero sovietico imploso eccidi e violenze inenarrabili, l’atroce carneficina di cui parla Carla Poncina; mentre altri segnali di guerra restano latenti nel sud dello stesso ex impero. L’ Europa, pur con tutti i suoi attuali limiti, sembra costituire un’ancora per alcuni di quegli stessi Paesi.
Ciò sbrigativamente rilevato impone una lapidaria constatazione: che la sola cultura, pur orientata all’assunzione di prospettive largamente condivise, non risolve. Non fosse altro perché nella scuola di massa le dimensioni professionali dei docenti sono estremamente caratterizzate da dislivelli. E, tuttavia, anche se il livello diffuso fosse quello espresso in questa petizione da Carla Poncina, il problema sussisterebbe ugualmente perché anche una preparazione culturalmente raffinata potrebbe non determinare negli allievi una sensibilità etica. Lo dimostra il clamoroso caso di un grande filosofo come Heidegger e la media cultura raffinata del popolo tedesco che legittimò, con lo stesso Heidegger, le note imperdonabili nefandezze.
E poi perché gli impegni culturali declamati restano realtà puramente nominali. La causa risiede nelle modalità con cui la Scuola svolge il suo innegabile ruolo di cinghia di trasmissione tra cultura e società. Quella cinghia trasmette in prevalenza una cultura di terza mano, quella che è tipica della persistente struttura preventiva. Insomma, quella struttura che prevede tutto e che non è in grado di vedere il nuovo che nei processi interattivi emerge.
La speranza potrebbe risiedere nel sospendere le pratiche usuali, non rinunciando ad indagarle, e riferirsi ad una modalità di fare cultura a scuola secondo la struttura enattiva, cioè originaria e che originalmente organizzi i rapporti, nella utilizzazione di frame paradigmatiche dell’immenso patrimonio della civiltà. In altri termini, occorre operare per una rivoluzione culturale che –per restare nei termini dell’enazione- significa compiere una rivoluzione etica. La cosa -anche se è del tipo dove nemmeno gli angeli osano- non è impossibile. Perché, a ben vedere, le pratiche enattive sono già leggibili nelle Indicazioni per il curricolo e negli Orientamenti e dunque si traducono in richiesta istituzionalmente prevista e auspicabile. Non a caso alcune delle Indicazioni sono state redatte da Mauro Ceruti con la partecipazione di Edgar Morin. C’è qualcuno disposto a discutere di questo? Da un lavoro interpretativo su tali fatti potrebbe derivare un canone comune della formazione del cittadino europeo, non vicariante ma costitutivo.
Letto il bel saggio di Carla Poncina ed i primi significativi commenti segnalo alcune letture che, a parer mio, potrebbero far parte del Canone Europeo evidenziando la necessità di una ricerca – riscoperta non tanto di una identità europea (identità come sostiene Amartya Sen non è unicità e ognuno di noi può avere tante identità diverse) quanto di un dialogo interculturale che è alla base di una convivenza condivisa ed arricchimento reciproco tra persone e popoli di culture diverse. Ed è la ricerca di questo dialogo che ha caratterizzato la storia dell’Europa e ispirato il progetto dell’Unione Europea. E le letture che propongo girano intorno alla figura di papa Francesco che ritengo essere il miglior interprete di quei valori fondativi di una Nuova Europa non più su criteri economici e logiche di mercato ma sulla centralità della persona.
La prima lettura è Se il papa ama il dialogo vero più della verità (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/10/21/se-il-papa-ama-il-dialogo-vero-piu-della-verita53.html) articolo di Zygmut Bauman su Repubblica del 21/10/2014 che mi ricorda la risposta che nel film Il Giovane Favoloso Leopardi dà a chi gli domanda cosa sia la verità: il dubbio. La seconda lettura è Il vicario di Cristo e la verità relativa che conduce a Dio (http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/28/news/il_vicario_di_cristo_e_la_verit_relativa_che_conduce_a_dio-99162795/) articolo di Eugenio Scalfari (Repubblica 28/10/2014) in risposta a Bauman. La terza lettura è il discorso di Papa Francesco (http://www.tempi.it/papa-francesco-a-strasburgo-ricorda-a-nonna-europa-la-sua-anima-cristiana#.VJBdOSuG_HW) del 25/11/2014 ai legislatori del Parlamento Europeo. E infine mi piacerebbe avere un vostro commento sulla versione attuale del questionario (http://www.legroma.osservatoriodeilaici.com/wpress_it_IT_292XXL/wp-content/uploads/2014/12/Questionario-UE2014_EURO.pdf) che gli studenti di varie scuole di Roma e Minturno partecipanti al Laboratorio per l’Europa (http://www.legroma.osservatoriodeilaici.com/wpress_it_IT_292XXL/?p=13781) stanno costruendo per poi condurre una indagine sulla percezione di Europa nel territorio di riferimento della scuola di appartenenza.
Cara Carla,
ho letto volentieri quanto da te scritto, e mi sorprende sempre la passione e la freschezza con cui vai sostenendo quelle che non sono semplicemente tue idee, ma le fondamenta del vivere civile insieme.
L’idea di un “Canone europeo” mi sembra urgente, prioritaria e in grado di sgombrare il campo da tanti inutili discorsi, specie quelli riguardanti le roboanti, radicali e sempre disattese riforme della scuola.
Che poi ci si occupasse più dell’ordinario che dello straordinario a scuola, avremmo reso uno straordinario servizio alla democrazia.
Anzitutto, cos’è l’Europa? Cos’è l’Unione europea? Perché è sorta, in quale contesto?
A queste semplici domande anche i liceali più studiosi e attenti risponderebbero con difficoltà. E non perché non gli interessi. Non perché sono superficiali, o non hanno a cuore la democrazia.
Semplicemente, perche nessuno spiega loro qualcosa, perché generalmente a scuola non si parla di Europa, di questo che è ancora un abbozzo di sogno.
Perché l’Europa finalmente possa prendere vita, in primo luogo ha bisogno d’essere conosciuta. Se spiegassimo ai ragazzi l’aspirazione e l’ispirazione di A. Spinelli, la visione che ha animato alcuni uomini politici e non solo all’indomani della Seconda guerra mondiale, anche gli studenti più refrattari comincerebbero ad appassionarsi. Per amare qualcosa, bisogna prima conoscerla.
Perché questo avvenga, è necessaria un’autentica educazione storica, che cominci il prima possibile.
Invece, in virtù della mia posizione di insegnante di sostegno (sob), noto con dispiacere quotidiano quanto l’insegnamento della storia sia trascurato, sottratto alla sua natura di disciplina inquietante.
Qui non si tratta di discriminare tra bravi e cattivi insegnanti o, meglio, non è soltanto questo: il fatto che l’insegnamento della storia, nelle classi terminali dei licei, sia stato sfilato agli insegnanti di filosofia per assegnarlo ai colleghi di lettere, mostra come la storia venga considerata disciplina “di completamento” se non quasi ornamentale, e non invece quella che ci dice di più- a capirla bene- su noi stessi, mi verrebbe da dire sull’uomo. Quindi lezioni edulcorate di storia, che non fanno quasi mai agganci con l’attualità (incredibile…), fatti presentati l’un dopo l’altro, come fotografie, avvenimenti decisivi come la Guerra dei Trent’anni liquidati in due minuti, ecco, spiegazioni e lezioni di questo tipo non solo non colpiscono, non coinvolgono, non interessano, ma si rivelano particolarmente controproducenti perché, agli occhi degli studenti,risultano poco comprensibili, incatalogabili: che mi serve sapere questo? Cosa c’entra con me?
Se per fare gli europei si deve passare attraverso la scuola, allora l’ insegnamento della filosofia andrebbe anticipato di un anno, in modo che il programma di storia e il programma di filosofia possano marciare insieme e illuminarsi a vicenda. Non solo: anticipare lo studio della filosofia in seconda liceo permetterebbe di preparare con maggior consapevolezza gli studenti all’esercizio del voto, si avrebbe più tempo per formare coscienze critiche. E poi- continuo a sognare un po’- introdurre un’ora a settimana, obbligatoria, a partire dalla quarta liceo, di “Lettura e discussione sull’attualità”, oltre alle ore di storia e filosofia! in cui si analizzano articoli di giornale o di riviste specializzate in cui si parla di politica, economia,cultura, fatti, con uno sguardo aperto all’Europa e al mondo (pensa solo a quello che è accaduto negli ultimi giorni, dalla strage di bambini in Pakistan al ripristino delle relazioni internazionali tra Cuba e Stati Uniti, ci sarebbe di che parlare, discutere, approfondire). Infatti, quello che riscontro, sempre stando in questa scomoda postazione, è il distacco tra ciò che succede nel mondo e quello che accade in classe, tra la brutalità, la violenza degli eventi e della storia che incalza e il procedere quieto, protettivo, a volte inutilmente pedagogico delle lezioni in classe.
C’è un processo di infantilizzazione che non è casuale, e di cui siamo responsabili anche noi insegnanti. Gli adolescenti per loro natura hanno altro cui pensare che non alle storture del mondo, ma la loro ingenuità, la loro disinformazione a volte lascia senza parole: a dimostrazione che non basta Internet e il wi fi ovunque a liberare le teste. Se in internet leggi solo i social o le chat, hai voglia a parlare di rivoluzione digitale.
Mantenere gli adolescenti istruiti ma disinformati del mondo, bravini nelle loro cose ma indifferenti a ciò che accade fuori dal loro giardino è funzionale al potere, allo status quo, alla miseria di idee e aspirazioni che aleggia ovunque, a parte qualche oasi che conferma la regola della mediocrità. Ragazzi poco consapevoli e informati possono essere meglio sfruttati e pilotati e modellati nel mondo del lavoro, se un lavoro lo trovano.
Infine, per un canone europeo, andrebbero ripensate le antologie, e in quarta e quinta letti e amati autori come Shakespeare, Cervantes, Montaigne, Spinoza, Erasmo, Pascal, Beccaria, Manzoni, Leopardi (cito in modo grossolano, ma andrebbe pensata un’agile antologia con passi scelti di autori europei che più hanno contribuito all’IMMAGINARIO europeo, da far leggere tutta, a casa e a scuola, un libretto su cui far meditare gli studenti, una specie di breviario laico, bello e commovente, un libretto che avvicini alla bellezza di essere uniti, insieme, europei, democratici … qualcosa di simile a “L’utilità dell’inutile” di Nuccio Ordine, per fare un esempio).
Cara Carla, questo è quello che mi è venuto in mente leggendoti. Un po’ di parte, ammetto, sarà che trovo la filosofia e la storia, la loro conoscenza, sommamente liberanti.
Parlare di queste cose permette di non sentirsi inessenziali.
Mi stavo interrogando in questi giorni su come si potesse attuare il progetto di costruzione del Canone Europeo e ho poi letto nel commento di Patrizia Busato questo brano: “andrebbe pensata un’agile antologia con passi scelti di autori europei che più hanno contribuito all’IMMAGINARIO europeo, da far leggere tutta, a casa e a scuola, un libretto su cui far meditare gli studenti, una specie di breviario laico, bello e commovente, un libretto che avvicini alla bellezza di essere uniti, insieme, europei, democratici …”. Mi domando se anche Carla Poncina e Roberta De Monticelli pensavano alla costruzione di questa agile antologia che attualmente manca da destinare ai ragazzi; mi piace anche la definizione di libretto utilizzata da Patrizia in quanto nella mia esperienza è bene dare poche cose ben scelte che possano emozionare, motivare e orientare i ragazzi per ulteriori approfondimenti.
Credo che la costruzione di questo libretto non sia affatto un compito semplice e chiedo, se questo è l’obbiettivo, se esiste un gruppo di lavoro con cui interagire e come.
Vorrei rispondere subito alla domanda di Maurizio Olivieri: no, un gruppo di lavoro ancora non esiste, si tratta di costruirlo. E tu che hai già esperienza in questo campo potresti – se vuoi anche attraverso questo blog, perché questa pagina resterà attiva finché vorremo – provare a metterlo in piedi e coordinarlo, magari insieme a Carla Poncina se vorrà. Credo che l’essenziale sia che il lavoro di selezione e combinazione sia fatto da chi ha esperienza di scuola. Si potrebbe mirare più alto e pensare a un’intera collana, che permettesse in un futuro ai docenti, a seconda degli orientamenti principali del loro tipo di scuola, o dei loro gusti, di scegliere questo o quel “libretto” della serie Canone Europeo. Se posso chiudere questa proposta (per il momento priva di qualunque base materiale) con una riflessione, è questa. Nonostante il senso di una vita – la mia, fra molte – abbia dato un’accorata fiammata leggendo le parole di Patrizia Busato, che trova “sommamente liberante” la conoscenza della filosofia e della storia, ecco: la sola cosa di cui sono diventata negli ultimi tempi dolorosamente consapevole è che se abbiamo la classe politica, più in generale le classi dirigenti, che abbiamo, un bel po’ di colpa deve essere anche nostra, di “noi educatori”. Forse possiamo cominciare a pensare ai rimedi, per il futuro.
Rispondo con piacere all’invito di Roberta De Monticelli per valutare e decidere insieme se e quale tipo di supporto posso dare al progetto di costruzione del Canone Europeo. Non sono un insegnante ma un ingegnere e, socio di Libertà e Giustizia, andato in pensione nel 2010 ho deciso di partecipare al progetto “La Repubblica siamo noi” promosso dal circolo di Roma in collaborazione con ANM sezione del Lazio per far conoscere la Costituzione agli studenti degli istituti superiori. In questi 4 anni abbiamo organizzato circa un centinaio di incontri in diverse scuole di Roma e provincia con magistrati, costituzionalisti, storici, giornalisti, scrittori, artisti. Quest’anno, il quinto, abbiamo organizzato il “Laboratorio per l’Europa” cui ho già accennato nei precedenti commenti. Tutto questo per dire che stiamo sperimentando sul campo il ruolo fondamentale degli insegnanti e la mancanza di testi di riferimento che li possano aiutare nel loro lavoro di coinvolgimento e formazione delle nuove generazioni; in tutti gli incontri finora fatti e anche nel Laboratorio Europa abbiamo solo fornito loro un elenco di letture da proporre agli studenti.
Condivido pertanto l’affermazione di Roberta riguardo al Canone Europeo: “Credo che l’essenziale sia che il lavoro di selezione e combinazione sia fatto da chi ha esperienza di scuola. Si potrebbe mirare più alto e pensare a un’intera collana, che permettesse in un futuro ai docenti, a seconda degli orientamenti principali del loro tipo di scuola, o dei loro gusti, di scegliere questo o quel “libretto” della serie Canone Europeo.” Ritengo che i gruppi di lavoro che si formeranno per la realizzazione dei “libretti” debbano essere costituiti da docenti nella duplice veste di docenti autori della selezione e composizione dei brani e di docenti sperimentatori che ne valuteranno l’utilizzo e forniranno commenti suggerimenti per le versioni successive. Mi pare che valga la pena di sottolineare che il valore aggiunto del “libretto” rispetto al semplice elenco di letture finora proposto dal progetto “La Repubblica siamo noi” stia proprio nel lavoro di selezione e composizione svolto dai docenti autori: serve la figura di un docente curatore dello specifico “libretto”? Può Carla Poncina svolgere questo ruolo per il primo?
Per quanto mi riguarda, qualora ritenuto di interesse, sono disponibile a dare tutto il supporto operativo necessario per l’aggiornamento del “libretto” con i contributi forniti dai docenti autori e promuoverne l’utilizzo da parte dei docenti sperimentatori con cui sono in contatto.
Il primo passo mi pare debba essere cercare i docenti autori; spero che qualcuno rompa il ghiaccio proponendo una prima selezione – composizione su questo blog che rimane il nostro principale strumento di comunicazione.
Rimanendo in attesa di vostri commenti suggerimenti approfitto intanto per augurarvi buone feste!
Buongiorno. Anch’io, come la collega di sostegno Patrizia, da una posizione “scomoda”, quella di educatrice presso il Convitto nazionale M. Foscarini di Venezia, dopo anni di precariato come docente di storia e filosofia, dopo aver letto il saggio di Carla Poncina, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente grazie ad un comune amico e commenti illustri come quello di Roberta De Monticelli che ho ascoltato in vari luoghi, intendo umilmente sostenere l’idea di un canone europeo da adottare a scuola e, con l’occasione, raccontare la mia esperienza.
La mia scuola ha inaugurato nel 2010 il liceo classico europeo e proprio l’anno scolastico in corso sarà protagonista dei primi esami di maturità di questo nuovo indirizzo. I nostri studenti-convittori non sono disinteressati al tema dell’Europa, tutt’altro, ne sono molto coinvolti, sarà perché frequentano una scuola protesa verso l’Europa, sarà perché viaggiano molto, frequentano un intero anno scolastico all’estero, incontrano compagni e docenti di altri Paesi, studiano le lingue europee. Da noi si respira un po’ aria di Europa, quando nell’edificio sentiamo parlare correntemente docenti e studenti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano e, per fortuna, non è una torre di Babele!
In tale contesto scolastico lo scorso anno assieme ad una collega abbiamo inaugurato un progetto sulla “cittadinanza europea”, destinato alle classi III e IV per iniziare, progetto seguito dagli studenti con vivo interesse. Abbiamo formato gli studenti presentando loro testi storici e filosofici “classici”, ma soprattutto abbiamo utilizzato pubblicazioni più recenti come quella di Morin-Ceruti(La nostra Europa), per citarne solo una, e abbiamo richiesto alla Commissione europea una serie di fascicoli e pubblicazioni sulle politiche dell’Unione europea editi nel giugno 2013 e reperibili sul sito: htpp://europa.eu/pol/index_it htm, una specie di guida per il futuro cittadino europeo, molto utili per comprendere quali sono le competenze dell’UE e quali risultati ha ottenuto, quali sono i suoi compiti e le relative istituzioni. Abbiamo concretizzato il tutto in un ciclo di conferenze invitando relatori, funzionari dell’UE a vario titolo, economisti, giuristi, il responsabile del CEDE, la funzionaria che si occupa dell’Erasmus plus ecc., ai quali i nostri ragazzi hanno rivolto domande mirate e che avevano preparato con noi. Siamo stati seguiti in videoconferenza da altri convitti d’Italia, soprattutto da Roma. E un nostro studente ha partecipato con un suo tema ad un concorso dal titolo “Diventiamo cittadini europei”, bandito dal Circolo veneto assieme al Movimento federalista europeo.
La formazione della coscienza di cittadino europeo, era questo il nostro intento, al quale lavoriamo ancora. E all’improvviso, quest’anno, data la mia formazione filosofica, mi è venuto in mente di mettere assieme in un agile fascicolo i Europa, chiaramente o velatamente, nel loro pensiero. Ho intitolato il mio lavoro: “I filosofi e l’idea di Europa” perché ho capito che molto spesso, studiando certi filosofi, non viene fatto notare loro che già in questi è rinvenibile un primo nucleo di quell’idea di Europa che è stata il sogno dei “Padri fondatori”, di storici come Huizinga, di cui ho scoperto l’interessante scambio epistolare con Luigi Einaudi.
Ho deciso allora, per non scorporare la filosofia dalla storia, di iniziare da una presentazione storica, a cominciare dai padri fondatori e dalla lettura integrale del Manifesto di Ventotene, a finire con le istituzioni europee e i loro compiti, con il trattato di Lisbona, quella sorta di Costituzione europea che era stata tentata e voluta da qualcuno, tra cui il nostro Romano Prodi e bocciata da altri, dai francesi, il tutto messo a confronto anche con quanto i ragazzi già conoscevano per averlo studiato, cioè il Patto Atlantico, la Carta delle Nazioni, il compito storico dell’Onu, che ritengo anche essere una premessa internazionale delle nostre istituzioni europee. E finalmente sono passata ai filosofi, scegliendoli a partire dal 1600, per poi soffermarmi sui moderni, sugli illuministi, senza sottostimare Spinoza, Vico, Locke, Hume e persino Rousseau, letto da un punto di vista che intendo giustificare ai ragazzi. Ho parlato di Kant, ovviamente, del progetto cosmopolitico e della pace perpetua, ma anche di Hegel e di quella sua assoluta centralità storica dell’Occidente europeo, ma soprattutto, per cercare di concludere scusandomi già della lunghezza del mio intervento, dei contemporani in cui è più accentuato e doloroso il sentimento della “crisi” dell’Europa, e dei loro suggerimenti per superarla. Cito alla rinfusa Husserl, Derrida, il poeta Valery, gli spagnoli Unamuno e Ortega. Molti di questi ultimi filosofi non si riescono a studiare nel “programma scolastico”, ed io approfitto questa volta del mio ruolo privilegiato, che vede i ragazzi non solo in classe nelle ore di lezione, ma nell’arco dell’intera giornata in convitto, per sollecitare in loro il desiderio di leggere e parlare perché: “di Europa si deve parlare”, soprattutto coi giovani. Dal punto di vista filosofico mi auguro soltanto di aver scelto l’ottica migliore da cui presentare determinati filosofi. Si sa, e questo è lo scrupolo, credo, di un buon docente di filosofia, il pensiero filosofico non è un documento oggettivo, ma è uno spazio…interpretabile e quindi a volte anche malamente usato. Ecco perché continuo a ritenere, con la mia vecchia formazione gentiliana, che sia importante il pensiero dei filosofi vero e proprio, i suoi concetti, le idee, ma che prima e accanto ci debba stare la “storia” della filosofia.
E qui concludo, ringraziando gli illustri lettori della pazienza.
Interrompo per qualche momento questi interessanti e pacati scambi di idee e di esperienze sotto l’impressione fortissima, come tutti, dell’attentato di Parigi a Charlie Hebdo. In questi giorni io e mia moglie stiamo cercando di spiegare ai nostri figli adolescenti che cosa è successo e perché, nel torrente indifferenziato di informazioni digitali in cui la loro vita a stento galleggia, dovrebbero tenerne traccia nella memoria. Credo che, se esiste un momento per affrontare con i ragazzi un progetto riflessivo sulla cittadinanza europea, sia questo. E l’idea di un canone, per così dire, filosofico, offre certamente un contributo importante. Vorrei però non ci ingannassimo. Un canone, per come intendo io la filosofia, o almeno la sua idea migliore, non può che essere ideale, ovvero, un progetto aperto. Non un ordinamento di norme cui attenersi, magari nell’illusione che la loro costituzionalizzazione basti. Ma un ordinamento di cui portare o riportare alla luce il senso, essenzialmente anche storico, accettando di correre eventualmente il rischio di evidenziare limiti e incongruenze anche profonde e dilemmatiche. Provo a spiegarmi con un esempio. Ieri sera ho appreso che il Tg1, nel dare rilievo alla notizia dell’attentato, ha mostrato alcune delle dissacranti e provocatorie vignette pubblicate da Charlie Hebdo sull’islamismo. Ha poi accennato al fatto che anche la religione cattolica era presa di mira dal giornale satirico, in particolare durante il Pontificato di Benedetto XVI, il Papa che – lo ricordo – sull’Europa come baluardo della cristianità “filosoficamente” perché “teologicamente” intesa ha giocato e almeno in apparenza rassegnato il suo mandato. Le vignette su Benedetto XVI, però, non sono state fatte vedere perché ritenute dalla testata televisiva troppo offensive. Non so che cosa pensate voi di questo tipo di decisione. Io, da giornalista, al di là del giudizio che posso dare su quelle vignette, credo che questo tipo di “rispetto”, a maggior ragione se dichiarato, non soltanto venga meno colpevolmente al dovere di cronaca, che è diritto alla conoscenza, non soltanto trasmetta ai nostri milioni di concittadini od ospiti musulmani un’ambiguità se non un’ipocrisia che non può che creare un danno alla convivenza, ma riveli anche la paura che “noi” (italiani, europei, occidentali? Come ci vogliamo definire?) abbiamo di noi stessi, del nostro ordinamento di valori, il quale pretenderebbe di mettere al suo vertice la libertà (di pensiero, di parola ed espressione oltreché, non ultimo, di eguaglianza di trattamento rispetto alla legge), ma al tempo stesso è come se temesse di farlo o fosse quanto meno tentato dal diritto di “sospenderlo” (magari soltanto “per un po’”) per poterla difendere meglio secondo la logica dello stato d’eccezione. Credo sia importante rendersi conto che questo attentato segna una svolta, una svolta di cui si erano già dati segnali, ma una svolta. Quello che accaduto è infatti qualcosa di diverso da precedenti attentati indiscriminanti nel quadro di una strategia della tensione legata a specifiche responsabilità dei Paesi europei nei teatri di guerra medio-orientali. Il fronte questa volta è davvero interno all’Europa. A oltre vent’anni dall’inizio delle guerre del Golfo, che includono dieci anni d’embargo all’Iraq, possiamo dire sinteticamente che la guerriglia iniziata a Falluja è arrivata nelle “nostre” strade (strade di chi? francesi, italiani, europei, occidentali?). Potevamo già averlo intravisto prima, per esempio, con gli attentati ai centri ebraici. Ma si è preferito credere che riguardassero gli ebrei, naturalmente. Allontanando magari lo spettro della lacerazione civile interna al nostro Continente con il riconoscere disinvoltamente a macchia di leopardo lo Stato palestinese, quasi la questione di Israele non ci riguardasse da vicino, come se non fosse figlia dell’Europa e delle sue sconfitte, ovvero, delle sue guerre mondiali e dei suoi crimini contro l’umanità. Si tratta, probabilmente, di prepararsi a nuovi “anni di piombo”, che riguarderanno almeno una generazione e si muoveranno su una scala finanziaria, militare e globale mai conosciuta prima. Si tratta di ristudiarsi o studiarsi, se non lo si è fatto, la storia dello Stato d’Israele con meno ideologia e più umiltà. Perché nell’ombra della questione europea, come già altre volte ho scritto, c’è la questione ebraica, ovvero, la questione del diritto di cittadinanza, del diritto d’asilo, della differenza tra Stato e popolo, dello scarto tra costituzioni formali e materiali, della libertà, certo, ma anche dell’appartenenza nazionale, di cui la religione, come l’ideologia, è un risvolto non secondario o non più secondario, che a parole possiamo aspirare sia confinato nella coscienza individuale, ma che ambisce e non può che ambire oltre di essa. La difficoltà sarà combattere questi criminali politici senza vessare i milioni di musulmani che vivono in Europa e scatenare una controproducente fobia contro gli immigrati, terreno di un potenziale conflitto civile. Non mancano gli sciacalli. E non passerà molto tempo che vengano invocate “leggi speciali”, anche da parte liberale e democratica. Magari giustificandosi con la paura degli sciacalli. E allora ci sarà chi fino a ieri difendeva le libertà civili contro la discrezionalità e lo strapotere poliziesco e giudiziario, invocare una stretta “mirata” agli ambienti sociali potenzialmente contigui all’islamismo. E chi fino a ieri esibiva una intransigenza inflessibile a difesa dell’operato di forze di polizia e di magistratura, opporsi fieramente al liberticidio che lo stato d’emergenza comporta. E altre mille contraddizioni come queste. Bilanciare sicurezza e libertà sarà difficilissimo, come sa chi ha memoria storica dei danni gravissimi che le legislazioni d’emergenza hanno procurato alla vita civile italiana, per esempio, a seguito della lotta al terrorismo prima e della lotta alla mafia poi. Esse furono all’origine del vulnus tra politica e magistratura di cui siamo ancora prigionieri. Esercitarsi sul canone filosofico europeo vuol dire porsi queste domande insieme e provare ad articolare delle risposte. Consapevoli che l’etica, prima ancora della politica, deve rispondere anzitutto a una domanda fondamentale: “che fare?”
Ho letto non solo con piacere, ma anche con grande attenzione, la stimolante lettera aperta di Carla Poncina, persona che conosco molto profonda e capace di far emergere ciò che spetta all’educazione promuovere.
Troppo ricco questo saggio perché ognuno di noi possa sviluppare con un solo intervento tutti i temi ivi trattati, ma senza dubbio seducente al punto da far riflettere su alcuni di essi che, pur così connessi, richiamandosi l’un l’altro, potrebbero venir espunti uno per uno.
Mi piacerebbe intervenire su alcune questioni che Poncina ha risvegliato nel mio animo di vecchio docente, volto a stimolare nei diversi gradi della scuola l’interesse per i fondamenti che regolano il vivere umano.
Ho vissuto gli anni tristi dell’imbonimento, conquistandomi anche l’insulto di qualunquista quando denunciavo la scorrettezza etica di colleghi che, come soluzione del vivere comune, accettavano la lotta armata delle frange estremiste che operavano a Padova.
Fu in quegli anni che il mio primo approccio con gli studenti lo fondai, allora insegnavo presso il Liceo scientifico, iniziando dalla Lettera settima di Platone con uno stratagemma; presentandola, naturalmente modificata per non far emergere immediatamente la verità, come fosse una lettera aperta presente nella terza pagina di un quotidiano dell’epoca.
La discussione che emergeva in quelle terze, che mutavano di anno in anno, fu sempre ricca di spunti etici che denunciavano la vivacità mentale degli studenti quando fossero messi di fronte al rapporto politica/etica/giustizia. Quando poi rileggevo, a breve distanza di tempo, la vera Lettera sette, allora il dibattito prendeva una piega di denuncia, facendo emergere la cattiva normalità di quel rapporto che nei secoli sembrava essere rimasto tale. E la stessa attenzione veniva posta anche quando, docente di un corso universitario, la proponevo ai miei studenti, futuri docenti di Filosofia.
A seguito dello stimolo di Poncina, mi piacerebbe partire dunque dal passo di Platone (se qualcuno non lo ricordasse lo può leggere nel web, ad esempio qui: http://www.liceoclassicodettori.it/UserFiles/File/Utenti/Floris/PlatoLett7.pdf) perché vorrei far emergere che solo se ci poniamo nei confronti dell’Europa con animo integro da interessi di parte, solo se accettiamo che il termine etica funga da fondamento per un Canone culturale europeo, solo così si può iniziare a parlare di ‘unione degli spiriti’, che va ben al di là dell’interesse economico diventato oggi, sembra, attenzione primaria nei dibattiti pubblici.
Dico etica e non morale, anche se molto spesso questi due termini vengono considerati sinonimi in quanto sembrano provenire dalla stessa origine (ethos greco e mos, moris latino, entrambi traducibili con comportamento, condotta, costume, usanza), dico etica perché ogni morale è legata al tempo, al luogo, alla cultura, alla religione di un popolo (per cui si può parlare di morale cattolica, musulmana, ebraica, ecc…), mentre l’etica si preciserebbe non tanto secondo le norme dettate da una comunità, ma in rapporto all’analisi dei possibili valori che dovrebbero guidare il volere umano nell’azione; se la prima parla di verità dei valori, la seconda parla di possibilità; mentre la prima si riferisce alla tradizione approvata dalla comunità secondo leggi e costumi propri di un ben determinato gruppo, rapportando l’azione compiuta ad un dover-essere che interessa un ben determinato sistema di valori, la seconda, cercando valori che possano andar al di là della comunità di riferimento, motiva l’interesse alla ricerca di nuovi fondamenti del viver comune.
Purtroppo l’etica, accogliendo l’invito di Ludwig Wittgenstein, “non può essere una scienza in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore” (Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, tr. it. a cura di M. Ranchetti, Milano 1967, p. 18); ma, anche se scienza non può essere, almeno potrebbe fungere da indicazione per una prospettiva di vita comunitaria, sempre che ci si accordi su alcuni presupposti. Innanzitutto dovremmo mutare ottica e, posto che la disciplina etica trovi i suoi fondamenti non nella dogmatica ma nell’antropologia, occorrerebbe analizzare questa per trovarvi gli stimoli utili per la convivenza sociale, anche consci del fatto che nella società odierna sempre più si affaccia lo scetticismo nei confronti di una normatività di tipo fideistico/religioso. Allora sembra, una volta abbandonata la confessionalità, dover essere la categoria “uomo” il punto di riferimento valoriale. È all’interno di questa categoria, al di là di ogni interpretazione ideologica, che occorre guardare per rinvenire quelle norme etiche su cui erigere una comunità europea. Scambiare il primato della dimensione umana con i principi della scienza religiosa, cioè scambiare etica con morale, ha fatto scivolare le discussioni all’interno di un conflitto, con tutti i risvolti integralistici che ciò ha comportato nella lunga storia delle società, sia ricordando le Crociate, si la non ultima situazione odierna che ha prodotto morti e feriti nella Parigi del 2015. Addirittura la stessa ‘scienza della religione’ da questo punto di vista non può far a meno della dimensione umana universale alla quale deve ricorrere per poter spiegare in Gesù Cristo il “farsi uomo” di Dio. Ma ancora una volta io trovo la difficoltà di un accordo culturale se penso, come afferma MacIntayre (Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988, p. 20), che è la stessa validità delle opinioni che non riesce a fondare più in modo valido ‘per tutti’ che cosa sia rettamente giusto o riprovevole. Infatti ci troveremmo in grande ambascia quando, in vista di una condivisione comune europea si approfondissero le antropologie di riferimento, perché non si può parlare di una sola antropologia; esse dipendono dai modelli di razionalità utilizzati per esprimerle. Lo stesso Ernst Troeltsch (Etica, religione, filosofia della storia, Guida, Napoli 1974 p. 128) nel suo saggio sui “problemi fondamentali dell’etica”, parlando dell’antropologia, la indicava come “scienza sovraordinata e fondamentale, nella cui cornice si inquadra la scienza della religione”, ma lo studioso poi la incamerava all’interno di una visione cattolica. Pure Trutz Rendtorff (Teoria del Cristianesimo, 1972, p. 152) sembrerebbe fondare la ricerca dei valori nell’antropologia in quanto, a suo dire, dopo il periodo premoderno, limite entro il quale la dogmatica ha inciso nella società, il carattere vincolante delle norme morali ha subito una revisione per cui sarebbe utile trovare una conciliazione tra mondo morale e sfera etica. Oggi, poi, nella società, dove è riscontrabile un allarmante arbitrio del singolo, troppo spesso è il suo dictat al mondo intero a reggere i rapporti quotidiani, basandosi costui sulla propria opzione morale, e così il conflitto emerge in forma esplosiva, come è successo ultimamente con l’aggressione al Charlie Hebdo. Nella civiltà dell’insulto, nella quale stiamo vivendo, dove sembra che ognuno sia sempre “di parte”, nel momento in cui, allontanandoci da tale dictat, si cerchi di affermare il principio del rispetto, la stessa dichiarazione di principio sembra priva di fondamento perché potrebbe essere vista come una traslitterazione della scelta privata in un ambito più vasto, quello sociale.
Troppo spesso la cultura ci ha mostrato che è difficile trovare la fondazione di un’etica universale capace di coinvolgere ‘tutti’ nell’adesione a dei valori condivisi; c’è sempre chi si dissocia e lo fa anche con motivazioni culturali come accadde con George Edward Moore che difese la sua concezione emotivistica (Principia Ethica, Bompiani, Milano 1964, p. 292) per la quale i giudizi etici esprimerebbero ciò che è bene e ciò che è giusto, fondandosi questi su proprie “intuizioni” personali, peraltro non dimostrabili né confutabili; a questa si potrebbe affiancare quella nietzschiana degli impulsi legati ad interessi vitali, creatori di etica, o a quella freudiana dell’interpretazione psicologica delle norme etiche, tutte soluzioni che si opporrebbero a chi, come Troeltsch e Rendtorff, intenderebbero immergere le norme etiche in un’antropologia che abbraccia l’ethos del cristianesimo. Posto ciò, una definizione “condivisa” di uomo è, se si vuole uscire dal ginepraio, non da imporre, ma imprescindibilmente da ricercare, visto che l’antropologia come garanzia per la fondazione di una convivenza europea, o universale che dir si voglia, sembra diventare opzione debole quando si riscontra che le singole antropologie fanno capo anch’esse ad una luce che le precede, prendendo forma proprio da quello sfavillio legato ad un proprio modello di razionalità, sul quale tema non posso dilungarmi, anche se sarebbe interessante affrontare posto che lo vedo collegato a quanto Poncina discute. Se le stesse antropologie non riescono a fondare i presupposti veri per un Canone universale europeo, non esistendo l’antropologia delle antropologie, dove trovare i principi fondanti una condivisione? E, una volta trovati, come portarli nell’ambito educativo? Forse l’inizio dell’incontro tra soggetti potrebbe risiedere in un abbandono dell’intolleranza dogmatica, che ogni antropologia normalmente assume come proprio cardine veritativo, ed abbracciare una tolleranza fondata su principi trasversali condivisi i quali, al di là di ogni assunzione di confessionalità, invece di inseguire il contraddittorio, animino il dialogo concordatario nella sintesi di ciò che è possibile e non di ciò che è universalmente vero. Qui molto spesso ha trovato le sue radici il conflitto, nel concetto di verità, contro il quale io proporrei quello di possibilità, categoria fondante un “sano”, anche se non “vero”, vivere comune. (a tal riguardo invito chi fosse interessato a visionare un mio PowerPoint su Youtube: Prima http://www.youtube.com/watch?v=SN6rY2MTStk, poi http://www.youtube.com/watch?v=6kHUl0DcQP4).
Ma questo è solo l’inizio di una riflessione che vada ad inserirsi nella proposta di Poncina di un Canone universale europeo, riflessione rivolta più a docenti che a studenti perché è da quelli che ha origine la formazione e se a movimentare la propria criticità non si insinua in ognuno di noi il dubbio metodico, difficilmente ci si allontanerà dalla presunta certezza di possesso della verità nella quale troppo spesso si staziona, ricadendo magari anche in una inconsapevole ideologia.
Da giorni accumulo note originate dai vari interventi legati a questa idea di “canone europeo”, che io stessa temevo velleitaria, anche se affascinante, quando anni fa iniziai a rifletterci sopra, scrivendo le paginette riproposte da Roberta pensando soprattutto al mio lavoro di docente. Tutti i commenti inseriti nel lab da coloro che hanno accolto l’invito di Roberta e che ringrazio, le arricchivano e meritavano di essere approfonditi, mentre io mi sentivo incapace di proporre una sintesi che desse “a ciascuno il suo”. (continua)