«Il mio “attacco” a Husserl è diretto non solo contro di lui, il che lo renderebbe inessenziale – l’attacco è diretto contro l’omissione della questione dell’essere, cioè contro l’essenza della metafisica come tale, sulla cui base la macchinazione dell’ente riesce a determinare la storia. L’attacco istituisce un istante storico di somma decisione tra il predominio dell’ente e la fondazione della verità dell’Essere». Quando Martin Heidegger annota queste parole nei suoi Quaderni neri è il 1939. L’anno precedente, la Germania del Terzo Reich aveva annesso l’Austria. Quindi la regione ceca dei Sudeti. Infine la Boemia e la Moravia, costituite in protettorato. La Repubblica cecoslovacca aveva cessato d’esistere. Ma la fame nazista non s’era placata. Adolf Hitler avrebbe presto rivendicato il corridoio di Danzica, l’accesso al Baltico della Polonia. E di fronte all’opposizione di quest’ultima, il 1º settembre 1939, l’avrebbe invasa dopo aver inscenato l’occupazione polacca della stazione radio di Gleiwitz. Era l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Un mese dopo i nazisti avrebbero censito gli ebrei di Varsavia: circa 359mila persone alle quali, dalla provincia, se ne sarebbero presto aggiunte 150mila. L’estate seguente sarebbe iniziata la costruzione del muro per separare il Ghetto dal resto della città. Degli oltre 500mila abitanti, tre anni dopo, ne sarebbero sopravvissuti un centinaio. La segregazione era stata il preludio a un progetto ben più ampio e radicale: lo sterminio degli ebrei europei.
Che relazione c’è, se esiste, tra questi due fatti, così distanti e in apparenza incommensurabili: la rivendicazione di una posizione filosofica di un allievo all’apice della carriera contro il vecchio maestro, e la tragedia immensa di un popolo nella tragedia di un conflitto mondiale? Può essere posta anche così la domanda cui cerca di rispondere Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica all’Università la Sapienza di Roma e vicepresidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, in un volume, Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» (Bollati Boringhieri, novembre 2014), che non può essere aggirato da chiunque intenda accostarsi senza pregiudizi a una pagina terrificante della storia umana i cui fantasmi ancora aleggiano sull’Europa: un’Europa dove si spara e si uccide nelle sinagoghe e nei centri culturali ebraici; dove cresce il consenso per movimenti nazionalisti di ogni sorta; dove le piazze “antieuropeiste” greche ed “europeiste” ucraine sono presidiate da paramilitari filo nazisti; e dove gli Stati europei sembrano quasi fare a gara per riconoscere lo Stato Palestinese, approfondendo l’isolamento in cui il governo di Benjamin Netanyahu ha portato Israele. La questione non è nuova, naturalmente. Donatella Di Cesare, tuttavia, pare saper cogliere l’opportunità della pubblicazione degli Schwarzen Hefte di Heidegger, curati da Peter Trawny, pubblicati dall’editore Klostermann nel 2014 e in corso di traduzione italiana per Bompiani, per comprendere più approfonditamente che in passato il nesso tra storia del pensiero occidentale e Shoah. E argomentare sul salto di qualità che, in un milieu già orientato in chiave antigiudaica, Martin Heidegger ha rappresentato con il suo “antisemitismo metafisico”. Qualcosa di più che stabilire fino a che punto Martin Heidegger sia stato, come Carl Schmitt e molti altri grandi intellettuali, convintamente nazista.
Heidegger fu nazista perché fu antisemita, questo è il primo punto da acquisire. E fu antisemita perché la sua riflessione attorno al problema dell’Essere, già impostata in Essere e tempo (1927), avrebbe almeno da un certo momento in poi fatto dell’Ebreo il portatore primo dell’oblio dell’Essere, ovvero, della riduzione del mondo all’Ente e alla sua “macchinazione”, contro la quale urgeva assumere una decisione altrimenti priva di un contenuto positivo. E al riguardo, scrive Di Cesare, «Gli Schwarzen Hefte contengono quel non-detto che molti supponevano, o speravano, fosse anche non-pensato». Si legge nell’ultima pagina del quaderno intitolato Riflessioni XIV, all’indomani dell’offensiva tedesca a est, annunciata da Hitler il 22 giugno 1941: “La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale [Weltjudentum] non è una questione razziale [rassisch], bensì la questione metafisica [metaphysisch] su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo». La storia dell’antisemitismo, d’altronde, s’intreccia continuamente con quella del pensiero filosofico occidentale. E questa è la seconda acquisizione che la lettura del volume di Di Cesare suggerisce di fare. Non si tratta solamente di rimarcare le comprovate radici dell’antisemitismo moderno nell’antigiudaismo cristiano, infatti. Ma di seguire il percorso che, per limitarci alla Germania, da Lutero arriva a Kant, Fichte, Hegel, Nietzsche, Frege, onde sfuggire alla tentazione di giudicare Heidegger o Schmitt isolate patologie intellettuali, mostruosità indegne di fare parte della storia del pensiero. Al contrario, soltanto la piena comprensione dei nessi che la loro opera intrattenne con la tragica vicenda storica cui sono appartenuti ci offre una visione chiara, sebbene forse meno edificante, del pensiero occidentale. Il rischio, altrimenti, è di dividersi ancora una volta tra minimizzatori e liquidatori, nemici apparenti accomunati dall’incapacità di affrontare con la fatica e il rigore necessari le ombre che talvolta s’annidano anche nei pensieri più limpidi. Sulla scorta di questa urgenza, persino il Mein Kampf di Adolf Hitler merita di essere letto senza svalutarlo preliminarmente, con serietà, per rintracciarvi i nessi con la cultura che lo ha preceduto. Senza reticenze. L’espulsione dell’ebreo dal corpo politico, infatti, la sua inassimilabilità in qualunque idea di Patria, oltre alla sua attitudine dissimulatrice, utilitaristica, cospirativa, furono teorizzate filosoficamente ben prima del ‘900, da illuministi e da romantici. Feriscono i passi che Kant, erede in questo della religione luterana dell’interiorità, dedica alla necessità di una “eutanasia” dell’ebraismo, emblema, come lo sarebbe stato in Fichte e in Hegel, di un’esistenza votata al mercimonio materiale e all’eteronomia morale e politica. E colpiscono le note di Gottlob Frege, padre della filosofia analitica, che nel 1924, mentre auspica l’avvento di un Terzo Regno della logica, invoca leggi antiebraiche e uno stigma che finalmente separi i giudei dagli ariani.
Sul piano inclinato di questa tradizione, però, è la modernità come “epoca ebraica” a essere in questione in Heidegger. E in modo, se non nuovo, almeno peculiare. Gli ebrei, a maggior ragione se assimilati, infatti, sono per il filosofo i veri e propri agenti della modernità, ovvero, di quell’epoca storica che più d’ogni altra ha obliato l’Essere in favore dell’Ente, sradicando l’umanità dalla sua dimora per consegnarla a una perenne deriva verso inautenticità e nichilismo. Heidegger parla esplicitamente di Weltlosigkeit des Judentums: assenza di mondo dell’ebraismo. Proprio da questa condizione proviene la minaccia ebraica: senza terra, senza radici, cosmopolita, ovunque straniero non assimilabile, l’Ebreo non può che maturare un desiderio di rivalsa sui popoli che lo ospitano, che passa attraverso il potere di cui può disporre grazie alla fitta rete dei suoi contatti internazionali e al processo secolare di ibridazione, più che biologica, metafisica, cui dà seguito, e che Heidegger chiama senza mezzi termini “derazzificazione”. In questa visione della modernità si mescolano così antichi pregiudizi antigiudaici, rintracciabili anche in Kant e in Hegel, e accenti tradizionalisti, nostalgici e antisemiti che risuonano anche in autori coevi come Oswald Spengler, Ernst Jünger, Werner Sombart, Carl Schmitt. Ma con un tratto originale, laddove la questione ebraica viene collocata, fin quasi a coincidervi, nella questione ontologica, la domanda sul destino dell’Ebreo in quella sul destino dell’Essere. Nessuno era arrivato a esiti così radicali perché metafisici. È proprio in quanto esponente dell’ebraismo, quindi, che Husserl merita l’attacco (Angriff). Non c’è nulla di personale. Ebreo tedesco assimilato dei Sudeti, fervente patriota che nella Grande Guerra nazionalista aveva perso un figlio, Husserl incarnava perfettamente, per Heidegger, la fattispecie dello Jude agente della modernità, tanto più prossimo all’autentica domanda sull’Essere quanto più responsabile del suo occultamento, con quel suo ripiegare verso un trascendentalismo di stampo neokantiano, ultima vestigia moderna dell’oblio dell’Essere.
Ma la questione va oltre la pur significativa e certamente penosa vicenda biografica tra maestro e allievo. La china del pensiero di Heidegger, infatti, dopo esser risaliti alle sue sorgenti, va percorsa fino in fondo. E allora si capisce come l’Ebraismo sia per il filosofo il cuore da estirpare di un male più grande, di cui la modernità, con la sua Riforma, le sue Rivoluzioni, i suoi ideali di Libertà, Uguaglianza, Fraternità, Progresso, il suo Capitalismo, la sua Democrazia Liberale e non ultimo il suo Bolscevismo, non sono che aspetti. È in questa nebbia, e a partire da questa siderale distanza dalla quale lo sguardo metafisico si rivolge alle cose umane, che si coglie la cifra più precisa della filosofia di Heidegger. E si comprende anche l’enigma del suo sconcertante silenzio sulla Shoah, che ad alcuni apparve imbarazzato od ostinato, mentre non era che conseguente con il suo pensiero. Scrive Di Cesare: «Il silenzio di Heidegger ha ben poco in comune con la fredda indifferenza di Jünger o con la sprezzante condotta di Schmitt (…) Heidegger sceglie un silenzio che non è di rifiuto o di reticenza, ma di rinuncia. Non rilascia alcuna dichiarazione. In tal modo non accetta di figurare come complice dello sterminio, ma non si chiama neppure fuori». Rivelative, da questo punto di vista, sono le conferenze che Heidegger tenne nel 1949 nella sala del municipio della Libera città di Brema. Heidegger introdusse lì il concetto di Gestell, impianto, dispositivo, che avrebbe poi ripreso nella celebre conferenza di Monaco del 1953 sulla Tecnica. Nel testo di Brema, discettando della “macchinazione” del mondo, esito ultimo dell’oblio dell’Essere in favore dell’Ente, Heidegger scrisse: “L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza [im Wesen] è lo Stesso [das Selbe] della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso delle fabbricazioni di bombe all’idrogeno”. Accostamento osceno, e che ricorda, in un modo che ancora oggi dovrebbe indurci a rilflettere, quello di altri critici radicali della modernità, questa volta da sinistra, come Adorno. Ma in quello sguardo metafisico che scruta il destino della Tecnica, si scorge soprattutto la cifra ambigua della “risposta” di Heidegger alla domanda sulla Shoah. Una risposta elusiva, non priva di quella affettazione sapienziale che costituì parte della fortuna dell’Autore, ma perfettamente conseguente. Il male, l’errore, la responsabilità, ogni distinzione, infatti, annichilisce, se in gioco è l’unica posta che valga la pena di essere in gioco: l’Essere. Come ben scrive Di Cesare: «Dall’altezza essenziale della tecnica, le sue manifestazioni diventano inessenziali. È questo l’esito di una differenza ontologica esasperata e irrigidita: la storia dell’Essere si scinde dagli eventi storici e politici che sono consegnati a un’indifferenza ontica. Null’altro conta al di fuori dell’estraneazione dell’esserci dall’Essere. E come l’Ebreo, accusato di quell’estraneazione, veniva lasciato cadere, così sotto lo sguardo livellatore e anestetizzato del filosofo dell’Essere lo sterminio è un avvenimento come un altro, onticamente indifferente».
P.S. A proposito di rimozioni, un episodio sul quale varrebbe la pena di riflettere:
“UN General Assembly’s Third Committee passed a Russia-proposed resolution condemning attempts to glorify Nazism ideology and denial of German Nazi war crimes. The US, Canada and Ukraine were the only countries to vote against”. Ma ancora più importante: “delegations from EU member states abstained in the vote” …
Leggi l’articolo: it.http://rt.com/news/207899-un-anti-nazism-resolution/
Consulta il referto di voto: L56.Rev1(2)
La rimozione è la tentazione di sempre. e fa comodo, temo, a tutti. Ma, a pochi decenni dagli orrori del ‘900 sarebbe sbagliato pensare che siamo ormai in salvo sull’altra sponda. Poco o niente stiamo comprendendo del nostro tempo, delle implicazione che la drammatica situazione internazionale, lo scontro fra le diverse identità religiose e nazionali e la diffusa percezione di precarietà che fa crescere il bisogno di trovare nemici certi e certe appartenenze potranno avere nel breve e meno breve periodo. La politica si confronta col presente, spesso inadeguata e subalterna alle logiche di un’economia e di una finanza fuori controllo, l’opinione pubblica è ostaggio di un una comunicazione globale caotica e altrettanto fuori controllo, immersa in una babele di linguaggi e vittima spesso di una sistematica pseudo informazione. Una forma illusoria di neo positivismo ci sta facendo credere che la tecnologia salverà la civiltà e il mondo. A chi affidare l’incarico di guardare oltre le voci confuse, oltre la tendenza a chiamarsi fuori, a dimenticare chi siamo e da dove veniamo? Chi se non la filosofia può trovare il coraggio di sporcarsi le mani, di non guardare altrove, di puntare l’obiettivo dentro la storia del pensiero per capire il presente e leggere i segnali che preparano il futuro? Filosofi, scienziati, intellettuali devono essere giudicati anche per le loro scelte politiche e per le loro complicità perché spesso l’ideologia passa attraverso di loro. Esiste un filo rosso che si allunga nella storia, da una mente ad un’altra, da una cattedra all’altra, fatta di idee, pregiudizi, false certezze e oneste verità… È giusto che la filosofia se ne faccia carico e dia il suo contributo in termini di analisi spregiudicata e antidogmatica alla loro comprensione.
Vorrei introdurre due elementi di riflessione in merito ad alcuni passaggi di questo articolo. Premetto che non ho letto il libro della Di Cesare (lacuna che cercherò di riempire al più presto), né le duemila pagine delle Ueberlegungen, da cui vengono estrapolate le citazioni concernenti il “Weltjudentum” (conosco infatti, per adesso, solo questi “passaggi”).
“la sua riflessione attorno al problema dell’Essere, già impostata in Essere e tempo (1927), avrebbe almeno da un certo momento in poi fatto dell’Ebreo il portatore primo dell’oblio dell’Essere, ovvero, della riduzione del mondo all’Ente e alla sua “macchinazione” […]”
Questa, anche alla luce dei passaggi delle Ueberlegungen, continua a sembrarmi una forzatura. In realtà, in Heidegger non c’è (perché non può esserci, per ragioni, diciamo così, “strutturali”) un “portatore primo”, men che meno un responsabile primo, dell’oblio dell’essere, perché questo, semplicemente (ma certo quanta amibiguità in questa “semplicità”!), non dipende dall’uomo. I mutamenti epocali della verità dell’essere appartengono all’essere, sono inviati-destinati (nel senso dello “Schickliches”, dello Anfang che invia e dispone) dall’essere stesso, che “si dà” (al tempo stesso sottraendosi) nell’esserci. Ma mai nell’uomo in quanto essere umano (greco, tedesco, ebreo, americano, russo, inglese). E’ per questo che, a seconda dei diversi contesti, cioè dei diversi testi, il “primato negativo” spetta di volta in volta agli “americani”, agli “inglesi”, e anche gli stessi tedeschi (che hanno dimenticato e strumentalizzato Hoelderlin). Ma la questione è ulteriormente complicata dal fatto che, per Heidegger (sempre stando alla struttura del suo pensiero), l’oblio dell’essere non è un qualcosa di negativo, un qualcosa che non dovrebbe esserci, qualcosa che deturperebbe la perfezione dell’essere, ma appartiene (ancora l’ambiguità!)all’essere stesso, alla sua stessa “essenza” (Wesen o Wesung). In tal modo, così come “negativa” non può essere la tecnica moderna, “negativa” non può essere neanche la rispettiva umanità (americana, ebrea, etc.) in cui essa si dà.
Il che, naturalmente, non significa che l’uomo heidegger (uomo nel senso dell’animal rationale da lui stesso “criticato”) non abbia avuto dei pregiudizi, legati proprio a quella concretezza storica (l’unica tuttavia che alla fine è “importante”) che in un pensiero come il suo finiva inevitabilemente per essere sublimata, o se vogliamo degradata, a struttura ontologica.
“Heidegger fu nazista perché fu antisemita, questo è il primo punto da acquisire”.
Ed invece io continuo ad avere qualche dubbio. Certo non sul fatto che Heidegger per alcuni anni sia stato un convinto sostenitore del regime hitleriano (ma anche qui la questione andrebbe approfondita e sfumata, se non vogliamo fare del filosofo di Messkirch un qualsiasi Dottor Goebbels), bensì sull’antisemitismo. E qui vengo al secondo elemento di riflessione. Dico (e mi chiedo): ma un uomo che per anni, anzi forse per tutta la vita, ha amato (e l’ha amata sul serio, ci sono le lettere) una donna ebrea, Hannah Arendt (essendone per altro ricambiato), come fa ad essere antisemita, cioè, per dirla con parole più chiare, uno che odia gli ebrei in quanto ebrei ? Non deve almeno farci riflettere questo fatto della vita intima di Heidegger ? e magari insinuare qualche dubbio, anche oltre e contro le abbiette astrazioni degli “Schwarzen hefte” ?
Giulio
Le osservazioni di Giulio sono pertinenti e meritano senz’altro almeno un tentativo di risposta. Naturalmente, la mia è soltanto una recensione, sebbene teoricamente orientata ed emotivamente partecipata. Non sono certo nelle condizioni, non avendo ancora letto gli Schwarzen Hefte, di entrare nel merito esegetico quanto Donatella Di Cesare, peraltro, diversamente da me, una specialista e di livello. Tuttavia, in merito alla prima questione sollevata, quando scrivo che per Heidegger l’Ebreo è “portatore primo” adotto un’espressione, “portatore”, in luogo per esempio di “soggetto”, “agente”, “protagonista”, “responsabile”, “colpevole” ecc., il più possibile impersonale proprio perché il pensiero di Heidegger tende a non risolvere il senso del mondo e della storia sul piano ontico della responsabilità personale o collettiva, che giudicherebbe residuo della metafisica, bensì a intenderlo come “fenomeno” dell’oblìo dell’Essere, del suo destino, ecc. Ciò non toglie che sull’Ebreo, per ragioni che sono anche il precipitato di una tradizione culturale, finiscono per condensarsi una quantità talmente rimarchevole dei tratti riconducibili all’oblìo dell’Essere, da giustificare, io credo, l’uso dell’aggettivo “primo”. Certo l’oblìo dell’Essere non è un fatto del mondo da “rimuovere”, gli Ebrei non sono “nemici” da combattere. Heidegger si fa beffe della chiave di lettura ontica degli avvenimenti di Schmitt, incapace di cogliere la profondità del Kampf in atto, ridotto all’inessenziale differenza amico-nemico: Schmitt “ragiona [ancora] da liberale”, scrive. Tutto quel lessico, come sempre in Heidegger, va sempre messo tra virgolette, essendo modellato, per così dire, sulla metafisica della presenza. Questo, però, coerentemente, non significa null’altro che se l’Ebreo si trovasse, come Heidegger sostiene, nella contingenza storica (ontica e ontologica) di portare all’estremo, perpetrare e propagare lo sradicamento dell’Esserci dalla propria dimora, e questa sua condizione assumesse il tratto destinale (un “compito”) di condurlo alla segregazione e all’annientamento, Heidegger nella stessa misura in cui non ne farebbe colpa all’Ebreo, neppure potrebbe attribuirne al progetto politico nazista la responsabilità, almeno non nel senso consueto del termine. C’è una dialettica nascosta del rapporto “vittima” e “carnefice” qui. Senza volersi addentrare nei complessi nodi biografici e psicologici del rapporto con i suoi allievi, come giustamente ricordavi, in molti dei casi ebrei, questo andrebbe tenuto presente anche in merito al secondo problema da te posto. Proprio valutando dall’interno del suo pensiero il comportamento di Heidegger, non c’è un solo motivo fondato per cui Egli avrebbe dovuto “imputare” personalmente qualcosa a Hannah Arendt o agli altri. È difficile comprenderlo, se ci si mette fuori dal suo pensiero. Molto meno se ci si colloca dentro. E d’altronde, in generale, più che l’odio, fu l’indifferenza morale, che non è indifferenza tout court, tutt’altro, a risultare fatale tra tedeschi ed ebrei. Quando Frege nel 1924 scrive: «si potrà riconoscere che ci sono ebrei rispettabili e nondimeno si dovrà considerare una sciagura che ci siano così tanti ebrei in Germania e che abbiano gli stessi diritti degli ariani» muove i primi passi in quella direzione. La deresponsabilizzazione dell’Ebreo rispetto al proprio “compito” storico si stringe in un solo nodo con la deresponsabilizzazione del suo carnefice. Entrambi, per così dire, accadono. E in questo accadere, un destino si compie e si rivela, rispetto al quale il filosofo non si mette semplicemente in ascolto, ma “si decide”. E si decide come dichiara, anzi proclama, e come sappiamo. Di nuovo: anche la decisione (Entscheidung) andrebbe letta in una chiave che ci porta lontano dal senso usuale del termine, che implica soggettività, agenzia, responsabilità, colpa in senso ontico ecc. Ma c’è da chiedersi, a questo punto, se questo riduca la problematicità del pensiero di Heidegger oppure no, sempre che non si sia già deciso di consegnarsi al suo lessico assecondandolo in tutti i possibili risvolti, anche i più aberranti. Perché una “decisione” da cui sia non negata ma espunta come inessenziale ogni differenza morale, oscurata da quella ontologica, può prestarsi a esiti d’ogni sorta. E così, e consapevolmente, è stato. Questo significa che quella Entscheidung era conseguenza teoricamente e praticamente necessaria del suo pensiero? Che lungo quella strada egli non potesse che procedere? E che il problema heideggeriano di come “pensare” l’Essere, comunque lo si giudichi, porti necessariamente con sé come destino la segregazione e l’annientamento dell’Ebreo? Certamente no. Basterebbe ripensare alle strade aperte sulle sue orme proprio da Arendt, Marcuse, Loewith, Jonas ecc. Che Heidegger, però, abbia – e da filosofo – proceduto in quella direzione, mi pare difficile, con buona pace di Franco Volpi, sostenerlo. E che, in generale, questo ponga anche una rilevante questione teorica, mi sembra innegabile. E non da oggi. Già negli scritti su Jünger si poteva leggere, lo ricordò Paolo Rossi, del “pensiero della razza” come di qualcosa che scaturiva “dall’esperienza dell’essere come soggettività”, della “selezione razziale” come di una pratica “metafisicamente necessaria” oltreché dell’“essenza non purificata dei tedeschi”. Heidegger non è “un qualsiasi Dottor Goebbels”, come certi liquidatori sembrano pensare. Ma neppure uno sprovveduto impolitico, come ritengono molti minimizzatori. Heidegger ha pensato seriamente e seriamente ha agito. E seriamente, pertanto, vanno prese le sue luci e le sue ombre. Non tutte sempre consequenziali come ai filosofi piace leggerle.
“Perché una “decisione” da cui sia non negata ma espunta come inessenziale ogni differenza morale, oscurata da quella ontologica, può prestarsi a esiti d’ogni sorta.”
Ecco, mi sembra che qui si raccolga (ammesso che sia possibile raccoglierla in un unico punto) l’essenza, come direbbe Heidegger, della questione: Responsabilità morale, o se vogliamo etico-politica, e pensiero filosofico. La prima non si dà se non sul presupposto della coscienza morale (e sottolineo la parola “coscienza”), presupposto che, in ultima analisi, coincide con la kantiana autonomia della ragion pratica (non c’è moralità senza libertà, ma anche non c’è libertà senza la coscienza della, o comunque di una, legge morale). Il secondo, il pensiero filosofico, quando è autentico, non può che muoversi, invece, in una dimensione, in uno “spazio”, che, per dirla in breve, definirei come la dimensione o lo spazio della problematicità assoluta, cioè dell’assenza di ogni presupposto. Ed in questo senso è davvero, e non per indulgere al gergo heideggeriano (infatti lo sapeva già Platone), qualcosa di inquietante, un mondo alla rovescia (Hegel). Lo è perché nel vortice del domandare non può che cadere anche il fenomeno della responsabilità morale, con tutte le determinazioni (coscienza, libertà, bene e male) che esso comporta (e da questo punto di vista bisogna ammettere che la filosofia non è né morale né immorale, e neanche, a rigore, a–morale). Ma il vortice diventa tanto più pericoloso quanto più la storia contingente (quella che i filosofi spesso designano, con diverse sfumature assiologiche, come l’ “empirico”) così, all’improvviso, e senza che a chiamare sia l’essere, chiama alla responsabilità delle proprie azioni. E’ in uno di questi vortici che Heidegger, pensatore autentico e radicalissimo, si è venuto a trovare. Per lui la coscienza (e qui possiamo lasciare al termine italiano l’ambiguità del suo significare sia la coscienza teoretica, Bewusstsein, sia la coscienza morale, il Gewissen), era opinione di coscienza, un fenomeno non originario, non fondato in se stesso. Di qui la decisione di avventurarsi nel “mare” dell’essere. Avventura conclusasi con un naufragio, anche a giudicare dal “falimento” di Essere e tempo (come voleva Franco Volpi critico dei Beitraege zur Philosophie) ? Può darsi, può darsi che Heidegger non sia mai riuscito a venir a capo del problema della differenza ontologica. Di più, può darsi che sia rimasto irretito nella differenza, e che, nell’urgenza ( da lui percepita veramente come tale ) di prendere comunque una decisione in direzione della “verità dell’essere”, abbia poi finito per scambiare il nazionalsocialismo con l’essere stesso.
Tuttavia, io continuo a ritenere questo passaggio assai problematico (intendo il passaggio dal sistema, o comunque dal pensiero, alla decisione politica). Sul piano filosofico Heidegger si forma sui testi di Aristotele e della scolastica medievale, sulla questione dell’uno e del molteplice, dell’equivocità dell’essere. Questo è il centro della sua filosofia, il quale non ha nessuna connessione necessaria (cioè filosofica) , non dico con il nazionalsocialismo, ma nemmeno, in senso lato , con ciò che è “politico”. Il modo migliore, non dico per risolvere, ma per trattare con un minimo di rigore questo problema , non è quello di dedurre la sua scelta politica dalla sua filosofia (anche se lui stesso, appunto per la sua tendenza a “ontologizzare” la storia, ha fatto questo tentativo), ma di cercare nel più ampio svilupparsi della sua cultura, ma anche in generale nella cultura del suo tempo, il formarsi di certe convinzioni (ad esempio nella sua idea di università, o nella sua concezione di europa), cioè, in sostanza, di storicizzarne la figura, e, perché no, anche di storicizzare la stessa Germania di quel periodo (la Germania del 32–33 non è la Germania del 39–40). Il che, evidentemente, non può riuscire con il metodo fatto proprio dalla “letteratura di condanna” (a là Faye, tanto per intenderci), la quale, piuttosto che far storia, imbastisce processi. Per citare soltanto due esempio, il discorso di rettorato di Heidegger, tante volte considerato con disgusto un documento di hitlerismo, piacque molto a Jaspers, che lo lodò (anche se poi, ex post, cercò di giustificare quel suo apprezzamento), eppure noi siamo portati a vedere Jaspers e Heidegger su opposti fronti. Heidegger è accusato di antisemitismo, eppure fu anche accusato, da parte nazionalsocialista, di essere “un amico degli ebrei” e il capo di una “cricca giudaica”.
L’unico sapere che è in grado sopportare la tensione degli opposti, di distenderla, senza perderne la ricchezza dei contrasti , nella linea della comprensione, è quello della concreta ricerca storica, di una storia certo non ridotta a pura struttura ontologica, ma nemmeno a virtuale aula di tribunale da cui infliggere condanne (o assoluzioni). E del resto a che cosa servirebbe condannare i morti?
Giulio
Caro Giulio, potrei sottoscrivere tutto quello che scrivi. E questo benché io ritenga un grave errore logico e filosofico ritenere la coscienza, a partire dalla coscienza morale, un presupposto infondato; e sia divenuto fortemente restìo a consegnarmi alle profondità oscure dell’originario interrogare di Heidegger. Enzo Paci ripeteva sempre di leggere Husserl dopo Heidegger, non prima. Ma diceva comunque di leggere Heidegger, non di proscriverlo. Vorrei anche rimandarti, però, ai §§ 7-8 del capitolo primo del libro di Donatella Di Cesare (pp. 15-19), dove l’esigenza da te manifestata è rivendicata con parole limpidissime, senza alcuna concessione nei confronti di chi vorrebbe procedere a una banale Reductio ad Hitlerum di Heidegger. Scrive Di Cesare a p. 19: «(…) liberarsi di Heidegger significherebbe anche sbarazzarsi dei difficili interrogativi che ha sollevato, tornare al paesaggio della modernità, rischiarato dai lumi, rasserenato dalla fede nel progresso, dalla fiducia illimitata nella scienza. Come se nulla fosse successo. E come se fosse possibile armonizzare quella tarda modernità con l’attuale mondo globalizzato». Di mio potrei aggiungere che, oltre che di Heidegger, non dovremmo “liberarci” di Spengler, Jünger, Sombart, Schmitt, soprattutto per non rischiare di non riuscire a cogliere con la giusta profondità di comprensione teorica e storica il senso di parole come Europa, Asia, Russia, Occidente, Oriente, valori europei, valori cristiani, valori occidentali, diritto di cittadinanza, diritto d’asilo, diritto internazionale, polizia internazionale, guerra totale, guerra di distruzione, guerra di sterminio, disumanizzazione, mercificazione, ecc, termini che pure ricorrono nel dibattito pubblico. Non si può più, però, come per un lungo tempo è stato fatto, minimizzare certe vicende storiche derubricandole a “episodi” biografici di scarso rilievo teorico. Non si può più, per intenderci, scrivere, come fece Gianfranco Miglio, una Presentazione all’edizione italiana de Le categorie del politico di Carl Schmitt senza fare minimamente cenno al nazismo e al violento antisemitismo dichiarato da quello straordinario giurista, parte certo non accidentale del suo sentirsi ultimo erede dello ius publicum europaeum. Essi devono costituire un problema. È anche, benché certo non soltanto, alla luce di certi episodi (e che episodi!), che il pensiero deve essere compreso. È un doppio tabù che deve quindi cadere. E io credo che Di Cesare abbia dato un contributo in questo senso, anche quando, nella seconda parte del volume, affronta la questione di come Heidegger intendesse le radici cristiane del moderno, al cui nocciolo, come Nietzsche, il filosofo, non insensibile a certo neopaganesimo di quegli anni, riteneva si trovasse ancora una volta l’ebraismo. La pubblicazione dei Quaderni neri non dovrebbe tanto “chiudere” la questione Heidegger, quindi. Semmai farci riaprire con più onestà, rigore e consapevolezza storica la questione dell’Europa, della sua identità e dei suoi valori fondativi.
Heidegger continua a presentarsi, ai miei occhi, nel segno di una grande ambiguità (per riprendere un’espressione su cui insistevo nel primo intervento). È considerato il filosofo dell’essere, della verità dell’essere (e io stesso lo considero come tale), ma poi ha parlato della “situazione emotiva”, dell’ “angoscia”, della “chiacchiera del Sì”; venendo dal cristianesimo ha criticato il cristianesimo, per poi finire con l’esprimere il rapporto tre essere ed esserci in termini, se non religiosi, almeno post-religiosi. Ha costruito un’imponente distruzione della metafisica occidentale, ma poi ha detto che non ha senso cercare di superarla, o oltrepassarla. Ha pensato la libertà dell’uomo con una radicalità che forse nessun pensatore prima di lui aveva mai raggiunto, ma poi ha aderito al partito nazista. Da ultimo, è stato forse il più grande filosofo del ventesimo secolo, ma anche quello che ha detto che la filosofia è inadeguata a cogliere l’intima verità dell’essere. Eppure continuo a pensare, con lui, e senza compiacermene, che l’ambiguità (o se vogliamo la “differenza”) faccia in qualche modo parte delle cose stesse, le quali, nel loro fondo, offrono un volto opaco, non trasparente alla coscienza che, facendo il suo dovere, cerca ci penetrarle.
Bene, mi avventuro anch’io in questa discussione prima di aver letto il libro di Donatella Di Cesare e fidando solo sulla recensione di Stefano Cardini – poi lo leggerò, ma il dibattito qui sarà già spento. E siccome siamo su un blog e lo stile può essere un po’ spiccio e rapido, assumo volentieri il ruolo che molti mi attribuiscono di giustizialista e moralista, e oso giudicare anche moralmente, sì, il pensiero di Heidegger. L’ho fatto in tante occasioni e non voglio annoiare nessuno: rinvio magari a un articolo che ho aggiornato quest’anno e si trova in rete, https://www.academia.edu/9524367/Ancora_su_Heidegger_e_il_nazismo._Il_Filosofo_e_la_politica_2014 .
Comincio con un aneddoto: quando qualche anno fa rilessi la Krisis di Husserl, fui stupefatta di non trovare nella Prefazione di Paci menzione alcuna delle circostanze in cui Husserl lo aveva scritto, ultimo messaggio nella bottiglia all’umanità europea, nel rinnovato tradimento dei suoi chierici. Già, Paci, come noi del resto, aveva in mente tutt’altro da quella cognizione del dolore: come noi ragazzi smemorati e ignoranti, ma più colpevolmente di noi, intenti a portare “l’immaginazione al potere”. Non una parola sul senso disperato di quell’espressione, il “funzionario dell’umanità” – il filosofo – sotto la penna non tanto di un uomo privato della sua funzione pubblica (come fu per le leggi antisemite), ma di un filosofo socratico che vedeva tanto violentemente calpestati dai vincitori, e dal suo allievo apertamente negati i due principi sui quali la cognizione del dolore, dagli anni ’20 in poi, gli aveva fatto vedere il possibile fondamento di un’Europa a venire. Questi due pilastri sono il principio di personalità – col suo corollario di (pari) dignità e diritti di tutte le persone; e l’universalismo della legge (di quella morale, certo – ma in linea di principio anche del diritto, sovra statuale e sovranazionale). Sono i due principi che dopo la guerra ponemmo a fondamento della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Essere Umano, e delle costituzioni delle Repubbliche rifondate, compresa la nostra.
È proprio per l’esplicita e negazione di questi principi che Heidegger, io credo, rappresenta la quintessenza della demolizione della ragione pratica nel Novecento. E’ per la loro sostituzione con due principi opposti: la concezione destinale della storia, con la sua rimozione radicale di qualunque forma di radicalismo morale, in particolare dell’autonomia e della responsabilità morale degli individui, anche di fronte alla storia; e l’adozione altrettanto radicale di un principio di comunità, radice e destino come esplicitamente più fondamentale di quello di personalità, e sulla base del quale fu possibile a H. esaltare il Fuehrerprinzip e i legami della terra e del sangue, salutando “l’intima grandezza del Nazionalsocialismo” nella sua vocazione a ad avvolgere del suo spirito “l’incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno”.
Ma Paci diceva di leggere Husserl solo dopo Heidegger…. E questi due fondamenti ultimi del suo pensiero, che sono la negazione più violenta e sanguinaria dell’idea husserliana d’Europa? Di un’Europa che, più che come un continente, Husserl vide (se dio vuole!) come ciò che sradica, sì, perché al valore delle radici antepone la questione critica sulla propria identità, sull’ethos ricevuto, il vaglio di ogni tradizione e la veglia dell’interrogativo. Del chiedere ragione: perché? Questo che fai, perché lo fai? In che modo è giusto, o forse non lo è? Questo che dici, su quali basi d’evidenza lo dici? Possono forse coesistere, quei due fondamenti del pensiero heideggeriano, con L’Europa che Husserl ci insegnò a vedere come il luogo della sempre potenziale, sconfitta e rinascente eccedenza dell’ideale sul reale e del diritto sul potere, del valore sul fatto e della ricerca sul dogma. Non possono, evidentemente. Ma vollero vederlo e insegnarcelo, quei nostri maestri di allora?
Macché. Non una parola, allora, non una parola per venti, trent’anni ancora su questo. Non dal nostro maestro Paci, non da alcuno di quelli che, oh molto peggio, non hanno solo ignorato (come l’intera intellighentsja francese e poi italiana del secolo scorso, con poche luminose eccezioni) il nazismo di Heidegger, ma la sua radicale irresponsabilità logica e concettuale nell’uso del linguaggio, e anzi a tutt’oggi la imitano e la trasmettono, con i risultati che si sono visti, quanto alla presenza al loro tempo dei filosofi della mia generazione, al loro (nostro, ahimé) ruolo di coscienza critica e ragione indipendente nello spazio pubblico delle ragioni, di sentinelle della democrazia e di ispiratori di vera ricerca. E già ce ne stupivamo su questo blog all’inizio di quest’anno, confortati in questo stupore dal simile stupore di uno dei nostri maestri, Giovanni Piana: https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2014/01/heidegger-il-vate-delatore/. Andatevi a vedere le lettere che scriveva quest’uomo spregevole. Ma non dell’uomo ci importa. È vero: è del pensiero che discutiamo.
Ma appunto per questo ancora due cose voglio dire a costo di prendere troppo spazio. E la prima è che non condivido la tesi di uno Heidegger nazista perché antisemita. Non la condivido in buona compagnia con Raymond Klibansky e con Jeanne Hersch, che, ben oltre Victor Farias e ben meglio di Emmanyel Faye penetrarono, prima dei Quaderni neri, il fondo cieco e vuoto di questo “pensiero” ebbro carismatico, “dittatoriale e irresponsabile” come “un incantesimo totalitario” (Hersch) , al seguito del quale la filosofia ha ancora per mezzo secolo dimenticato la sua vocazione socratica. L’antisemitismo può essere, semmai ci fu, un effetto accidentale della negazione di quel fondamento illuministico di una possibile civiltà che Husserl sentiva nutrire l’Inno alla gioia di Schiller e Beethoven. Ma le sue radici sono più in là – dormono nel sonno stesso della ragione che produce mostri. Sono in una frase celebre di Heidegger: “Tanto peggio per la logica”.
La seconda cosa – forse riguarda più la recensione di Stefano Cardini che il libro di Donatella Di Cesare? Non lo so, ancora. Ma Kant appartiene alla luce dolce dei Lumi: alla stirpe di Lessing, de Mendelssohn, di Heine, di Goethe – e, perdonatemi, chi se ne importa, se possa aver usato anche lui di passaggio – lui, il più ferreo assertore dell’universalismo morale – quel linguaggio antisemita che a noi pare tanto assurdo e che ritroviamo in tutta la tradizione cristiana e non, da Agostino a Shakespeare a Fichte. Non è per ribadire l’ovvio che dico questo, ma perché a me pare invece che stirare così il tema dell’ambiguità della cultura tedesca (o europea) in modo da trovare un po’ di peccato ovunque rischia di accecarci di nuovo di fronte alle distinzioni fondamentali. Ed è per questo che vorrei lasciare l’ultima parola al più grande fra i miei maestri, quella Jeanne Hersch erede di Karl Jaspers che scrisse parole semplicissime e molto limpide sul tema – parole che a me paiono definitive. Eccole:
“Nel cuore della filosofia di Heidegger troviamo questa forza, la più viva del suo pensiero, che non è, come è stato detto, la meraviglia di fronte all’essere, ma il disprezzo per tutto quello che non è questa meraviglia, nella sua nudità e sterilità. Un disprezzo ardente, appassionato, ossessivo per tutto ciò che è comune, medio e generalmente ammesso; per il senso comune, per la razionalità; per le istituzioni, le regole, il diritto; per tutto quello che gli uomini hanno inventato, nello spazio in cui debbono convivere, per confrontare i loro pensieri e le loro volontà, dominare la loro natura selvaggia, attenuare l’impero della forza. Disprezzo globale, dunque, per la civiltà occidentale, cristallizzata in tre direzioni: la democrazia, la scienza e la tecnica – per tutto ciò che, generato dallo spirito dell’Illuminismo, fa assegnamento su ciò che può esserci di universale nel senso di Cartesio, in tutti gli esseri umani. Tutto questo è vuoto. …”
Gentile professoressa De Monticelli, il suo intervento, pur così ricco di sincera passione e di buone intenzioni, non mi convince. Tralascio qui di far notare come un’assunzione così acritica del punto di vista dell’universalismo morale, della “ragione”, del “progresso”, finisca per suonare come un discorso da vita dei santi (“la luce dolce dei lumi”!), correndo il serio rischio di rovesciarsi nel suo contrario. Mi limito invece ad introdurre un elemento di dubbio riguardo ad una circostanza storica concreta, cui peraltro facevo riferimento già nel mio primo commento, e che anche lei, seppur indirettamente, ha citato.
Dal suo articolo “Ancora Heidegger, il vate-delatore?” si evince che, mentre Hannah Arendt è una persona per bene, Martin Heidegger sarebbe un personaggio “spregevole”. Il loro è un “amorazzo”, “vile” per giunta, tra l’adulto professore e la sua “studentessa diciannovenne”. Ma se è così, allora come si spiega che, ancora nel 1960 (quando cioè la Arendt non aveva più diciannove anni, ma cinquantaquattro), inviando ad Heidegger una copia della versione tedesca del suo “Vita activa” (un libro che sappiamo quanto abbia insegnato a certa sinistra progressista), lo accompagnava con la seguente lettera: “Come vedrai il libro è privo di dedica. Se i rapporti tra noi non fossero stati sfortunati – intendo tra, il che non significa né tu né io – ti avrei chiesto se potevo dedicarlo a te. Il libro ha cominciato a prendere forma già a Marburgo e ti deve quasi tutto, sotto ogni aspetto. Visto come stanno le cose, mi è sembrato impossibile; ma volevo almeno dirti, in un modo o nell’altro, quali sono i puri fatti”. Ma la Arendt è una persona seria, mentre Heidegger sarebbe un delinquente….evidentemente qui, anche per quel “buon senso comune” a cui lei sembra non voler rinunciare, c’è qualcosa che non va, e qualcosa che non si può risolvere facendo appello a qualche presunta magia psicopatologica di cui la Arendt sarebbe stata vittima da parte del “mago di Messkirch”. La questione è, in ogni senso, più complessa.
Gentile professoressa, da semplice lettore degli scritti di Martin Heidegger, continuo a leggere Essere e tempo (come tanti altri, assai più autorevoli di me) accanto alla Metafisica di Aristotele, alla Critica della ragion pura, e alla Scienza della logica. Lo faccio nonostante, e non perché, Heidegger abbia aderito, nel 33-34, al nazionalsocialismo. Il che non m’impedisce peraltro di “condannare”, quando sia chiamato a farlo, questo coinvolgimento – ammesso (ma non concesso tuttavia) che la vita morale si esprima, nella sua forma più alta, attraverso l’esercizio dell’infliggere condanne.
G.
Come sempre, un’ottima De Monticelli (l’ammiro dai tempi della sua splendida traduzione delle Confessioni). Un’osservazione semplicissima: forse sarebbe il caso di recuperare le opinioni del caro e compianto Piero Chiodi che liquidò il secondo Heidegger come un vagheggiamento post-romantico fin troppo tedesco e senz’altro troppo crucco – fantasie mezzo mistiche che si nutrivano di un profondissimo risentimento contro gli ebrei. Si legga un po’ di vera mistica e si vedrà quanto in fondo provinciale e sopravvalutato sia il pensiero di Heidegger e delle sue frescacce di cui già ben disse Thomas Bernhardt. Altro che spararsi 2000 pagine di assurdità di un montanaro mancato.
Ma caro Giulio, l’universalismo morale non è un’assunzione acritica, è un impegno etico. Io lo assumo. Che abbia anche buone ragioni per farlo, lo argomento da una vita e pazienza se non la convincerò. Certo però (visto che su questo si sofferma) che se lei scrivesse lettere delatorie del tipo che quel signore scrisse, sapendo quali conseguenze avrebbero avuto, non potrei che ritenerla una persona spregevole (almeno fino a prova umana contraria. E c’è sempre una chance, finché la vita dura) – quand’anche fosse un filosofo geniale. Lei non farebbe lo stesso? Le assicuro che giudicherei in questo modo me stessa per prima. E non avrei la benché minima presunzione di esercitare con questo doloroso giudizio una forma alta di vita morale. Giusto il minimo, discernere la vittima dal carnefice (virtuale). Quanto all’amore, non è mai spregevole e non è mai neppure cieco – anzi perdona. Legga il bel romanzo di Josè Pablo Feinmann, L’ombra di Heidegger, Neri Pozza 2007, Prefazione di Gnoli e Volpi. Vedrà una certa asimmetria fra il modo di amare dell’uno e dell’altra (filosofa che ammiro in parte per il suo socratismo, di cui dà prova in altri scritti – non in quello che lei cita,però, e neppure in troppi altri). Ma non si parlava del pensiero? Io di quello parlavo, e ho provato a mostrare perché l’adesione heideggeriana al nazismo ha un fondamento solido nel pensiero di Heidegger, fondamento di cui l’antisemitismo, se c’è, è solo una conseguenza. Alcuni, e lui per primo, hanno negato questo antisemitismo. In fondo la lettera dei coniugi Heidegger a Husserl in cui gli spiegavano che le leggi antisemite erano giuste e la sua espulsione dall’università pure, nonostante il sacrificio del figlio di Husserl nella grande guerra, la scrisse la fedele Elfride, per tutt’e due. Anzi su quest’ultima tesi mi pareva addirittura di esser d’accordo con lei… Ma sarebbe bello sentire da Donatella Di Cesare stessa qualche sua replica, che ci orienti nella lettura del suo certo interessantissimo libro!
Gentile professoressa, la ringrazio per l’indicazione bibliografica. No, non ho letto il romanzo di Josè Pablo Feinmann, e cercherò di farlo. Per quanto riguarda il comportamento che Heidegger, nella sua persona, tenne nei confronti degli ebrei, io ho parlato di “ambiguità”, anche perché, accanto alle lettere delatorie da lei giustamente citate, e che certo non si fatica a definire come riprovevoli (o spregevoli, che dir si voglia), ci sono fatti che portano, o dovrebbero portare il giudizio morale in un’altra direzione. Ad esempio, si sa che Heidegger fece ottenere una borsa di studio per Karl Loewith, e che, alla fine del 33’, si adoperò per il suo assistente Werner Brock, procurando anche a lui una borsa per Cambridge; è noto altresì che venne egli stesso accusato, da parte nazionalsocialista, e con riferimento particolare agli anni di Marburgo, di essere a capo di una “cricca giudaica”. La questione, quindi, per quanto riguarda la vicenda storica, resta non univoca, o non del tutto univoca.
Ma mi lasci approfondire alcuni punti che sono rimasti in sospeso, e che meritano un chiarimento.
Vorrei innanzitutto riandare al rapporto tra Heidegger e Hannah Arendt, e non certo per usarlo come argomento di ritorsione polemica (lungi da me!), al fine magari di stendere sulla figura di Heidegger una patina di rispettabilità posticcia. Ritengo al contrario che, attraverso quel rapporto, possa esser messo in luce un aspetto importante, che riguarda, diciamo così, le “cose stesse”. Dalla lettera che ho menzionato, lettera in cui Hannah Arendt dice, del suo libro “Vita activa”, che esso “deve tutto” a Martin Heidegger, si evince che la Arendt elaborò la sua teoria politica (una teoria politica in senso libertario) a partire da concetti heideggeriani, o meglio (e a tal proposito il riferimento agli anni di Marburgo è illuminante), servendosi dell’interpretazione dell’ “Etica nicomachea” che, proprio a Marburgo, Heidegger aveva svolto. Il compianto Franco Volpi ha dimostrato, con analisi testuali precise e puntuali (nel suo volume classico “Heidegger e Aristotele”), che buona parte di “Essere e tempo” altro non è che una “traduzione”, nel linguaggio ontologico–esistenziale, di concetti fondamentali ripresi dalla filosofia pratica aristotelica. Altro che abbandono della ragion pratica! Semmai, nuova definizione, nuova interpretazione, nell’ambito del problema dell’essere, della filosofia pratica (del “bios praktikos”, o della “human condition”, per dirla con la Arendt, cioè del “Dasein”, con termine heideggeriano). Qui, davvero, il nazismo non c’entra niente.
E questo era il primo punto che volevo precisare.
In secondo luogo, in merito al tema da Lei proposto, e che potrebbe cadere sotto il titolo “Heidegger e l’illuminismo”, beh, non mi sembra di aver detto, nella sostanza, cose molto diverse dalle sue. Quando in precedenza, dialogando con l’autore della recensione, si parlava della critica heideggeriana alla soggettività, alla coscienza (nel doppio senso di Bewusstsein, coscienza teoretica, e Gewissen, coscienza morale), a questo ci si riferiva. Certamente, Heidegger nega, o meglio ancora, critica, quello che lei chiama il “fondamento illuministico”: per lui sarà anche illuministico, ma non è un fondamento. Questa critica è però condizione necessaria e sufficiente per spiegare la sua adesione, nel 33–34, al regime nazionalsocialista? Io direi di no. Anche Thomas Mann aveva un rapporto problematico col “fondamento illuministico”, ma non si compromise col regime, e lasciò la Germania; anche il pensiero cattolico negava la ragione illuministica, ma non tutti i cattolici finirono nelle braccia dell’ideologia di Hitler. Evidentemente, il nesso tra le due cose non può essere asserito in modo automatico.
Del resto, quando si parla di “fondamento illuministico”, e della critica che esso incontra in Heidegger (ma non solo in Heidegger), bisogna ammettere che la questione è complessa, e che non può essere trattata con l’accetta. Lei ha parlato di fondamento illuministico intendendolo, se non ho capito male, come “universalismo morale”. Il pensiero, qui, corre immediatamente a Immanuel Kant (che infatti Lei cita direttamente). Ora, nella “Critica della ragion pratica”, Kant parla bensì di “universalità” della legge morale (che peraltro non è la legge di un codice, cioè non è una legge buona per giudicare i comportamenti altrui), – anche se forse, come ad esempio ha messo in luce Sergio Landucci (in “L’etica di Kant”), le formulazioni kantiane della legge morale sono tutto fuorché universali, e mostrano un ben visibile condizionamento storico–culturale. Ma il punto essenziale è che la legge morale è possibile soltanto sul presupposto (sul presupposto, non sul fondamento) della libertà (la libertà è la “ratio essendi” della legge morale). E la libertà non è un concetto, non è una categoria (a rigore, almeno nel contesto della Critica della ragion pratica, non è neppure un’Idea), non appartiene cioè all’ambito della verità e della conoscenza. In Kant, dunque, netta differenza, anzi separazione, tra ragione teoretica e vita morale. Ma è proprio su questa “differenza” (concetto centrale per la sua intera opera) che Heidegger riflette, cercando, a partire dalla riproposizione della Seinsfrage, di guadagnare un fondamento più originario, di pensare cioè la verità “in quanto” libertà (è questo l’intento, ad esempio, della conferenza “Dell’essenza della verità”, pubblicata nel 1943). Da questo punto di vista, la filosofia di Heidegger può essere interpretata come una continuazione dell’Idealismo classico tedesco (e il volume 86 della Gesamtausgabe, di recente pubblicazione, comprendente i Seminari su Hegel e Schelling tenuti nell’arco di un’intera vita, lo dimostra con dovizia di dettagli). Anche Fichte ed Hegel si erano trovati davanti alla separazione (Entzweiung), di matrice kantiana, tra verità e libertà, tra il concetto logico della natura e il concetto di libertà (come li aveva definiti Kant nella “Critica del giudizio”, ponendo esplicitamente il problema del passaggio tra i due), e si erano avviati lungo la ricerca di un’unità più originaria (alla fine della “Scienza della logica” Hegel chiama l’assoluto, cioè l’Idea logica, “das Freieste”, l’espressione più concreta della libertà). Anche Heidegger cerca di risalire all’origine di questa differenza, che egli però pensa non già sul fondamento della soggettività assoluta, ma come quello “spazio”, quell’aperto (la famosa “Lichtung”) che rende possibile la differenza stessa (l’essere della libertà e l’essere della verità).
Non si tratta di un pensiero irrazionalistico, come ad uno sguardo superficiale potrebbe apparire (e del resto l’irrazionalismo, in quanto negazione del razionalismo, lo presuppone, e non può negarlo), si tratta in realtà di una nuova fondazione della ragione, di una nuova critica della ragione, tentata muovendosi in quella dimensione della “problematicità assoluta” (che porta con sé sempre anche un ri-significare il mondo “ab ovo”) che solo è propria della riflessione filosofica. Potrà piacere o non piacere, ma, in questo preciso senso filosofico, non ha nulla a che vedere con la politica.
G.
Cari amici, non entro nel merito della discussione sulla supposta differenza ontologica tra verità e libertà, troppo lontana dall’interesse che ha mosso la mia recensione. Mi limito a precisare che il riferimento a Kant, come gli altri, naturalmente, sono ripresi dal volume di Donatella Di Cesare. Personalmente non li ho trovati “stirati”, perché il loro scopo – che probabilmente potrà risultare più chiaro alla lettura del libro – è mostrare i passaggi di fase che nel corso della storia del pensiero filosofico quella che oggi chiamiamo “questione ebraica” ha assunto, non soltanto in Germania, ma in modo particolare in Germania. È una ricognizione storica e teorica che, almeno per come io l’ho letta e condivisa, risponde alla “voglia di capire” prima che alla preoccupazione di giudicare, non perché non si giudichi o non si sia già giudicata moralmente la condotta di Heidegger o di altri, ma perché si ritiene che per ben giudicare si debba anzitutto ben capire e che ancora qualcosa da capire, nonostante tutto, ci sia. Non credo, per esempio, che il nazismo e l’antisemitismo di Heidegger possano essere semplicemente dedotti dalla sua “critica” al primato fenomenologico della teoria della conoscenza in favore di una “fondazione” della trascendenza ritenuta più radicale, con il conseguente abbandono del terreno husserliano della logica, caro a me non meno che a Roberta. Onestamente, a partire di lì molte altre strade sarebbero state percorribili, molte delle quali sono anche state percorse. La logica non è uno spartiacque sufficiente, anche perché c’è logica e logica, nel senso che va poi anche chiarito che cosa intendiamo per tale nel nostro discorso. Frege ha avuto la fortuna, per ragioni di età, di non essere stato messo alla prova, ma ho qualche dubbio che avrebbe osteggiato il nazismo in nome della logica. Mentre Bonhoeffer del nazismo è stato una vittima eroica, ma non direi in nome dei principi della logica di osservanza illuminista, qualunque cosa si possa intendere. A me, e forse anche a Donatella Di Cesare, interessa quindi capire perché è stata invece imboccata e mai davvero ridiscussa (non “rinnegata”, giacché rinnegare sarebbe stato abbastanza facile e tanti l’hanno fatto a buon mercato) quella strada. C’è un terreno sul quale fioriscono (e naufragano) le “titaniche” imprese intellettuali – titaniche a volte fino al ridicolo – di Spengler, Jünger, Schmitt, Heidegger? C’interessa esplorarlo in profondità? A me sì. A partire da una considerazione, per esempio. Che uno dei passaggi di fase evidenziati da Donatella Di Cesare del rapporto tra pensiero filosofico ed ebraismo riguarda proprio l’epoca dell’Illuminismo. E non tanto per il famoso e fin troppo citato pamphlet di Voltaire sui Juifs, ma per le difficoltà con cui il sorgente ethos moderno, impegnato a districarsi ed emanciparsi idealmente e realmente da ogni forma di tutela religiosa, incontra nel ricavare uno spazio di legittimità civile e politica a quell’enigmatico e sempre sospetto impasto di teologia e politica, religione e nazionalità che scorge nell’ebraismo. Nasce così la famosa “questione ebraica”. Nasce sotto i Lumi della ragione, non sempre così sereni.
“Non credo, per esempio, che il nazismo e l’antisemitismo di Heidegger possano essere semplicemente dedotti dalla sua “critica” al primato fenomenologico della teoria della conoscenza in favore di una “fondazione” della trascendenza ritenuta più radicale, con il conseguente abbandono del terreno husserliano della logica, caro a me non meno che a Roberta. Onestamente, a partire di lì molte altre strade sarebbero state percorribili, molte delle quali sono anche state percorse”.
Caro Stefano, non lo credo neanch’io, e chi lo crederebbe? E dove mai l’ho detto? E che c’entra la teoria della conoscenza? Che peccato che in questa bella discussione ci si ascolti però a vicenda… con poca attenzione. Forse è successo anche a me, e se così fosse me ne scuso: ma siccome mi chiami esplicitamente in causa, permettimi di rinviare a quello che ho detto. Ho parlato di due principi, quello di personalità e quello universalistico, e della loro espicita negazione da parte di Heidegger. E ho mostrato, come già fecero Raymond Klibansky e Jeanne Hersch, la continuità incontestabile, anzi l’equivalenza, fra l’affermazione di due principi opposti a questi – ESPLICITAMENTE opposti a questi – e le due più famose tesi del Discorso del rettorato, Blut und Boden e Fuehrerprinzip. Anzi, siccome mi prende un poco d’angoscia, lo confesso, a vedere i miei argomenti non solo ignorati ma addirittura sostituiti con altri che neppur mi sono sognata di proporre, perdonatemi se provo a placare lo spaesamento che si prova quando si viene scambiati per un altro sussurrando (a me stessa, magari! E allora, di nuovo, me ne scuso) esattamente quello che ho detto:
“È proprio per l’esplicita e negazione di questi principi che Heidegger, io credo, rappresenta la quintessenza della demolizione della ragione pratica nel Novecento. E’ per la loro sostituzione con due principi opposti: la concezione destinale della storia, con la sua rimozione radicale di qualunque forma di radicalismo morale, in particolare dell’autonomia e della responsabilità morale degli individui, anche di fronte alla storia; e l’adozione altrettanto radicale di un principio di comunità, radice e destino come esplicitamente più fondamentale di quello di personalità, e sulla base del quale fu possibile a H. esaltare il Fuehrerprinzip e i legami della terra e del sangue, salutando “l’intima grandezza del Nazionalsocialismo” nella sua vocazione a ad avvolgere del suo spirito “l’incontro tra la tecnica planetaria e l’uomo moderno”.”
Anche su questo, e naturalmente sui molti altri temi interessantissimi sollevati in questo dibattito, mi piacerebbe ascoltare l’autrice del libro che abbiamo discussio – e che, come Donatella ben vede, ci fa pensare!
«Del chiedere ragione: perché? Questo che fai, perché lo fai? In che modo è giusto, o forse non lo è? Questo che dici, su quali basi d’evidenza lo dici? Possono forse coesistere, quei due fondamenti del pensiero heideggeriano, con L’Europa che Husserl ci insegnò a vedere come il luogo della sempre potenziale, sconfitta e rinascente eccedenza dell’ideale sul reale e del diritto sul potere, del valore sul fatto e della ricerca sul dogma.» Mi pare che tutto questo abbia a che fare con il problema della conoscenza (che è conoscenza, se pretende d’essere conoscenza morale, conoscenza di “fatti morali”) e dell’evidenza come fondamento della pretesa universalistica della ragione teoretica e pratica, cui Heidegger contrappone l’irriducibile contingenza dell’esistere ecc. Tanto che tu stessa, Roberta, citi la battuta di Heidegger: “E tanto peggio per la logica”. D’altronde, la questione dei fondamenti della logica, dell’evidenza come fondamento ecc, è sempre stata al cuore della riflessione di Heidegger, che s’interessò della fenomenologia proprio dopo la lettura delle Ricerche Logiche.
Cari amici, malgrado qualche reciproca incomprensione (ma del resto è anche vero che senza una incomprensione di fondo lo stesso esercizio del comprendersi perderebbe di senso,), mi sembra che le posizioni interpretative fin qui emerse (e le rispettive Grundstimmungen, come forse avrebbe detto Heidegger) si siano delineate con sufficiente chiarezza. Giunti a questo punto, almeno per quanto riguarda la mia persona, sento quindi il bisogno, prima di proseguire il dibattito, di leggere il libro di Donatella Di Cesare, e, per quanto mi riuscirà, di meditarlo. Mi riprometto però di tornare, a lettura (e meditazione) conclusa, in questo “spazio”, per offrire, con qualche strumento in più, un ulteriore contributo alla discussione su un problema che, dopo più di ottant’anni (durante i quali non sempre la serietà della riflessione critica ha avuto la meglio sull’istinto delle passioni), evidentemente non smette di turbare le coscienze.
G.
Veramente interessante questa diatriba, pur non capendoci molto di filosofia, mi par di capire che uno come Heidegger intenda negare il primato della coscienza umana in ambito morale cercando di trovarvi un fondamento fuori dalla soggettività rappresentata da tale coscienza, giusto? Se è vero che un fenomeno come la coscienza è interamente dominio della soggettività, nel senso, come diceva anche Nagel, che nessuno è in grado di riprodurre esattamente come si sente un pipistrello, pur tuttavia, non dovrebbe una teoria filosofica di tipo morale avere come fondamento proprio la coscienza, sebbene sfugga alle cosiddette oggettivazioni di tipo scientifico (mi sembra di capire che uno come Heidegger intenda trovare per la sfera morale un fondamento scientifico universale nella trascendenza che non sia dominio della soggettivita, giusto?).
Scusate le mie incomprensioni, o i miei fraintendimenti, vi pregherei di non trattarmi troppo male se alcuni termini della diatriba li ho esposti in maniera troppo grossolana o troppo volgare, non all’altezza di persone aventi una competenza filosofica specifica.
Caro Claudio, perché dovremmo trattarti male? 😉 Il tuo riassunto è per metà corretto, per metà no. È vero che Heidegger ritiene che la coscienza non possa essere il terreno ultimo di fondazione della verità, per la semplice ragione che la soggettività trascendentale, nonostante le pretese di universalità che da Socrate, a Cartesio, a Kant, a Husserl accampa, non sfugge alla contingenza dell’esistere di ciascuno di noi, che è irrimediabilmente situato storicamente e dunque affatto universale nel suo conoscere, agire ecc. E questo vale per la soggettività trascendentale in tutte le sue possibili varianti (uomo, pipistrello ecc). Questo, però, non lo porta in cerca di quella che tu chiami una “fondazione scientifica universale”, proprio perché quest’ultima, per quanto detto, alla fine lo farebbe ricadere nelle pretese di quella soggettività trascendentale da cui abbiamo preso le mosse. L’Essere è per Heidegger il “fondamento ultimo”. Ma va scritto fra virgolette, nel senso che esso non è un Ente del mondo, una cosa tra le altre, una ragione tra le altre, un’evidenza tra le altre, ecc: non è, in definitiva, un possibile correlato della soggettività, comunque la si voglia intendere, perché è solamente nel “non fondamento” del nostro Esserci come possibilità esistenziale (libertà) autentica (Essere-per-la-morte) o inautentica (Esserci che si perde nel “Si pensa”, “Si dice”, “Si fa”, “Si vuole”) che la nostra conoscenza può “fondarsi” (come Abgrund, abisso ecc). Di esso, quindi, per Heidegger non si può dare conoscenza né universale né scientifica, con buona pace della filosofia che lo ha preceduto. Anzi, tale conoscenza ne costituisce il più radicale dei nascondimenti, di cui la volontà di potenza di Nietzsche non è che l’ultima vestigia. Ed è infatti in direzioni differenti dalla conoscenza che Egli cercherà la “soluzione” del “problema” del “fondamento”, dall'”azione” che, nella decisione (Entscheidung), assume su di sé per intero la propria radicale contingenza come destino dell’Essere, alla “poesia”, con gli esiti problematici che stiamo discutendo.
Se posso, ormai in sordina e quasi in un sussurro, spezzare una lancia a favore di Claudio: non c’è un solo fenomenologo (degno del nome, a partire naturalmente da Husserl) che non condivida la tesi che “non c’è coscienza che non sia retta dal suo impegno primordiale nel mondo della vita” (Merleau-Ponty). Il che vuol dire: incarnata nel corpo di una persona, la quale è inserita in un ambiente (naturale e culturale-storico, dunque immersa anche in un ethos o scala di valori pre-data eppure che proprio le persone possono sempre vagliare, assumere o rigettare, a volte facendo progredire la nostra conoscenza morale). Vuol dire inoltre che ogni persona è costantemente “enactive”, cioè non solo in azione ma anche più o meno irriflessivamente impegnata a “impersonare” la sua umanità, individuandosi, precisamente attraverso le sue risposte emotive e riflesse, i suoi comportamenti e giudizi pratici, le sue scelte, fra cui quelle moralmente rilevanti. È perché il suo sentire e i relativi giudizi di valore e pratici sono giusti o sbagliati, cioè fallibili e rivedibili sempre, ma esattamente come il resto delle nostre cognizioni aperti a critica, discussione, correzione e soprattutto a sempre nuove verifiche, che la coscienza morale è, esattamente quanto quella teorica, “soggetta alla giurisdizione della ragione” (Husserl). E in questo senso, come ovunque ci sia ricerca di verità (al plurale: di verità dei giudizi di valore e quindi di validità delle scelte anche morali che ne dipendono) ogni base di verifica è almeno in linea di principio universalmente accessibile. E in questo senso, è ben fondato l’universalismo morale, senza alcun illusorio dogma relativo a fantomatici soggetti trascendentali. Naturalmente l’universalismo morale è ben fondato nella misura in cui ciascuno di noi lo assume, come impegno personale: perché altro fondamento che la disponibilità a non chiudersi gli occhi davanti al vero e a cercarlo dove ancora non è evidente, non c’è. Per questo ho risposto a un obiettore, sopra, che l’universalismo morale è un impegno e non un dogma.
Discussione di straordinario livello. Un piacere leggerla. Complimenti.
Aggiungo un ulteriore riferimento per completare il dibattito: l’articolo uscito ieri sul Corriere della Sera, di Livia Profeti:
http://www.corriere.it/cultura/14_dicembre_28/heidegger-antisemita-perche-razzista-6226209e-8e7b-11e4-9f4a-a1bebd9fbc0e.shtml
Tuttavia mi pare che il titolo di questo articolo sia riduttivo: l’articolo mostra come il razzismo sia una delle conseguenze del rifiuto del principio di pari dignità degli esseri umani, che coincide con l’universalismo morale, il principio personalistico della responsabilità e il conseguente rifiuto del Blut und Boden e del Fuehrerprinzip. Come, ben prima di conoscere i Quaderni neri, e sulla base della sola conoscenza delle pubblicazioni e delle lezioni di Heidegger, avevano mostrato Karl Loewith, Raymond Klibansky e Jeanne Hersch, a partire dagli anni Trenta. Non parliamo poi del povero Husserl e della serie dei suoi allievi che patirono la morte o l’esilio, e tutti scrissero contro l’orrendo comunitarismo heideggeriano, contro il principio destinale della storia e della germanità, contro l’essere per la morte, e tutti misero in guardia dall’ontologia destinale dell’Occidente, vedendoci letteralmente la più mostruosa minaccia per l’umanesimo e i suoi assi portanti, per lo spirito stesso dell’Illuminismo, per le grandi direttive ideali alle quali ancora impegna il filosofo socratico: da Edith Stein a Dietrich Von Hildebrand a Herbert Spiegelberg, uno degli ispiratori di John Rawls….
Questo per dire anche che non si può accusare “la filosofia” di aver preso sul serio Heidegger ignorando il nazismo radicato nel suo pensiero. Ci fu e c’è filosofo e filosofo. Anche se io metterei le virgolette al termine “filosofia” se fossi costretta ad aggiungerci l’aggettivo “anti-socratica” – ma questo temo che Donatella Di Cesare, di cui sto leggendo il libro, me lo giudicherebbe un gesto “totalitario”…
«Vogliamo la Palestina non “per gli ebrei”; la vogliamo per l’umanità, perché la vogliamo per la realizzazione dell’ebraismo». Nel 1916 il filosofo ebreo-tedesco Hermann Cohen ebbe un aspro confronto pubblico con Martin Buber, filosofo ebreo-austriaco ispiratore della rivista Der Jude. Era appena iniziata la Prima Guerra Mondiale e l’anziano, autorevole e influente neokantiano Cohen aveva attaccato il Sionismo, di cui Martin Buber rappresentava la giovane e battagliera anima “culturale”, anima minoritaria rispetto a quella “politica” ispirata dal fondatore del movimento: Theodor Herzl. Se ne può trovare testimonianza in Martin Buber, Rinascimento ebraico. Scritti sull’ebraismo e sul sionismo (1899-1923), Mondadori 2013. Cohen metteva in guardia dal pericolo, rappresentato per lui dal Sionismo, di non distinguere tra i concetti di “nazionalità” e di “nazione”: la prima, infatti, sarebbe una realtà “naturale”, una estensione della comunità familiare fondata sulla semplice discendenza; la seconda, invece, una realtà “storica”, che come tale implicherebbe l’esistenza di uno Stato giuridicamente e territorialmente costituito. Non è dunque necessario rivendicare una propria nazione, un proprio Stato, per salvaguardare la nazionalità ebraica, perché uno Stato può e deve ospitare diverse nazionalità, come dimostrava la lealtà alla Patria dei molti combattenti ebrei, come pure di altre nazionalità, nelle file dell’esercito dell’Austria-Ungheria, alleata nel conflitto in corso con la “sua” Germania. Il movimento sionista, quindi, avvertiva Cohen, nel rivendicare una “terra” per gli ebrei in Palestina, rischiava di apparire antipatriottico in tutti gli Stati dove gli ebrei risiedevano, più o meno riconosciuti come cittadini o più o meno assimilati. Buber replicava che questo avrebbe significato fraintendere il compito dell’ebraismo e immiserirlo a mera confessione religiosa, oltretutto ovunque minoritaria, ricettacolo di rituali, usi e costumi destinato, con il disperdersi della discendenza, a estinguersi nei vari Stati nazionali. Inoltre, a Cohen Buber contestava di ridurre il Sionismo a una banale rivendicazione territoriale nazionalistica analoga a quelle che, per una parte, erano state all’origine della guerra: «L’aspirazione a una “dimora” è un’aspirazione nazionale; l’aspirazione della collettività ebraica in Palestina dovrà essere un’aspirazione sovranazionale». Questo tra Cohen e Buber è uno confronto molto interessante, a mio giudizio, e non soltanto perché potrebbe suggerire una lettura parallela con il più famoso faccia a faccia, svolto questa volta sul piano della “metafisica”, tra Cassirer e Heidegger (1929). Cohen e Buber, infatti, hanno certamente entrambi una indubbia vocazione morale umanistica e universalistica (o, se vogliamo, lato sensu socratica) che li rende inconciliabili con qualunque nazionalismo. Su che cosa verte, dunque, il loro dissenso? L’impressione è che per Cohen ogni forma di comunitarismo, non ultimo quello ebraico, contraddice quell’ideale e non può quindi che essere disgregante dello Stato come unità costituzionale fonte del diritto. Per Buber, il cui idealismo vuol essere più radicale, solamente un universalismo basato su quel genere di comunitarismo che è l’autentico spirito nazionale, e al quale per primo il popolo ebraico fu chiamato, può scongiurare la deriva autoritaria, nazionalistica, imperialistica e coloniale che, ad onta di qualunque dettato costituzionale, sempre minaccia individui e comunità internamente ai confini dello Stato e la pace al di fuori di esso. Quando parliamo di “autentico spirito nazionale” possiamo pensare, per esempio, a Giuseppe Mazzini e ai suoi eredi spirituali, repubblicani e democratici, i quali concepirono l’indipendenza nazionale italiana come un ideale inscritto nell’orizzonte della “nazione” europea, a sua volta incluso in quello del bene dell’umanità. Inutile dire quanto l’evoluzione della Prima e poi della Seconda Guerra Mondiale sembri aver dato ragione a Buber, che scorse subito, per esempio, la logica di potenza imperialistica e coloniale nascosta sotto la vernice “democratica” della Società delle Nazioni, logica che non è certamente venuta meno con l’Organizzazione delle Nazioni Unite (1948). Ma anche quanto fondati si siano rivelati i timori di Cohen alla luce dello scatenamento, nel primo dopoguerra e nella Seconda guerra mondiale, del razzismo e dell’antisemitismo, che in Germania, in spregio al vecchio patriottismo dei Cohen (ma potremmo anche dire degli Husserl…), vagheggiarono a loro modo un’umanità nuova in quanto biologicamente o culturalmente ri-ordinata “secondo natura”. È poi forse degno di nota come il compito che Buber assegnava all’ebraismo non sia molto diverso da quello di cui in varie forme gli europei si sono nel tempo sentiti investiti. «Vogliamo l’Europa non “per gli europei”; la vogliamo per l’umanità, perché la vogliamo per la realizzazione dell’ideale della civiltà europea» è una dichiarazione che in molti sottoscriveremmo, magari senza condividere lo stesso ideale di civiltà europea.
Un contributo articolato, che integra la mia recensione. Donatella Di Cesare e gli «Schwarze Hefte» di Martin Heidegger: http://www.kasparhauser.net/CULTURE%20DESK/HeideggerNazismo/Fai-DiCesare.html
Peccato leggere solo adesso, quando essa è forse oramai esaurita, questa discussione sulla questione radicalmente riproposta dalla pubblicazione degli Schwarzen Hefte. Discussione, questa, che andrebbe raddoppiata, perché personalmente avverto sempre l’esigenza, in mezzo alla crisi radicale della civiltà europea, di una discussione sul perché si discuta ancora di Heidegger “e” del nazismo. Comunque… La premessa è d’obbligo: non ho ancora letto né il libro della Di Cesare (che, se certe recensioni che ho letto dicono il vero, insiste sulla categoria dell’antisemitismo metafisico come la categoria fondamentale all’interno della quale, addirittura, sarebbe cresciuta buona parte della filosofia occidentale…) né i Quaderni di Heidegger. La questione riguarda in generale il triangolo pensatore/pensiero/epoca e, più specificamente, l’individuazione delle “parole” mediante le quali pensare correttamente il rapporto di consonanza tra un pensiero filosofico (quello di Heidegger) ed un accadimento storico (che qui è dato tanto dal nazismo quanto dall’adesione di Heidegger a quest’ultimo). Problema non semplice, ed essenzialmente filosofico, quello di tale individuazione. La mia opinione è che è ragionevole credere che la riproposizione della questione del nazismo di Heidegger non potrà smuovere quanto è così schematizzabile in termini logici: la filosofia di Heidegger non si lascia ridurre ad una interpretazione filosofica del nazismo; né, viceversa, il nazismo si lascia ridurre ad un modello politico della filosofia heideggeriana. Insomma, la filosofia di Heidegger non può essere proiettata sul nazismo; ed il nazismo non può essere proiettato sulla filosofia di Heidegger.
E questo anche perché da un lato la filosofia heideggeriana contiene delle determinazioni teorico-concettuali che rendono inconsistente la sua posizione come un “modello filosofico” del nazismo; dall’altro lato il nazismo, come dottrina ideologico-politica, manifesta tratti sui quali la filosofia di Heidegger non appare in alcun modo proiettabile. Questa doppia irriducibilità segnala allora la sporgenza entro la quale deve essere colta la *dignità* e la *legittimità* del pensiero filosofico di Heidegger. Questa sporgenza, di carattere fondamentale, non può essere in alcun modo eliminata a favore di “regioni” relativamente alle quali filosofia heideggeriana e nazismo appaiano corrispondersi. Tutt’altro: si tratterà, infatti, di “mandar giù” (come diceva lui) tali parziali corrispondenze, affidandole ad una ulteriore interpretazione. Ritengo pertanto che sia in ultima analisi errata l’appassionata impostazione della De Monticelli. La sua imposizione del rinnegamento del fondamento illuministico-umanistico della civiltà europea da parte di Heidegger come la “regola” per interpretare la consonanza di Heidegger con il nazismo, delegittima infatti a priori un’operazione filosofica radicale, quale quella eseguita da Heidegger, che accetti e solleciti la ripercussione della questione della tecnica sul concetto di “umanità”.
http://www.eudia.org/component/remository/?func=startdown&id=235
Nel caso in cui si volesse riprendere il dibattito, segnalo un interessante articolo di Maurizio Borghi sul libro di Donatella Di Cesare. Borghi ritiene che la tesi della Di Cesare, la stessa formula “antisemitismo metafisico”, non abbia “dunque apparentemente altro fondamento che la volontà interpretativa dell’autrice del libro”. In poche pagine Borghi demolisce (ognuno giudichi se in modo convincente) la costruzione dell’opera che ha dato avvio all’appassionante discussione di questo blog.
Buongiorno,
mi permetto di rimandare ad un piccolo articolo che ho scritto sulla questione e che è stato gentilmente ospitato da “Officina Sedici. Periodico di diritto letteratura politica”:il link è il seguente
http://www.officinasedici.org/2016/09/02/lautoannientamento-degli-ebrei-francesca-gunella/
grazie mille
FG