CONTRA DEINOS – EDUCAZIONE CONTRO CORRUZIONE

sabato, 14 Giugno, 2014
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                                                              <<…nell’epoca più ricca della storia, le menti

 soccombevano e si deterioravano prima dei corpi>>.

Elkhonon Goldberg

 

  

Fenomenologia dei Deinos, ovvero come ti riduco la democrazia

Per effetto diffuso del fenomeno dei Deinos la Scuola è sull’orlo. Sull’orlo di che? E chi sono oggi i Deinos, oltre quelli evocati da Aristotele nell’ Etica Nicomachea? E come si generano oggi?

 

Non si tratta dell’ennesimo titolo suggestivo, ma solo di rilevazione intuitiva di dati di fatto; per reperire i quali basta porsi la seguente diretta domanda: -Cosa forma in prevalenza la nostra scuola, cittadini della convivenza civile o fameliche orde di furbetti pronti a tutto per acquisire pezzi di potere gestiti in forma egocentrica e corruttiva? Si dice, si badi bene, in prevalenza. Tuttavia, si dirà ritualmente che la maggioranza dei cittadini è onesta, laboriosa e paziente e potenzialmente disposta alla collaborazione costruttiva. E questi, come quelli, sono sortiti dalle nostre scuole. Si, ma si trascura che tale maggioranza di onesti cittadini ha una concezione ondivaga della legalità perché prodotta da una formazione casuistica ed è, per questo, alla merce dei poteri che quei furbetti hanno acquisito anche nelle modalità apparentemente legittime, e che gestiscono però in forma utilitaristica, corrompendo o lasciandosi corrompere. Così, non è affatto vero che la maggioranza è formata da onesti cittadini; o almeno si intuisce che tale maggioranza è disponibile per l’una e l’altra cosa, perché a formazione etica lasca. Il fatto è che una formazione etica costrittiva, insomma eccessivamente rigorosa per eterodirezione, potrebbe far sortire esiti comportamentali peggiori, con punte di dogmatismo eccessivo.

Sta che quei soggetti prevalenti per giungere a posti di potere hanno utilizzato tutte le strategie che la moderna tecnologia, tecnica e finanziaria, mette a disposizione e che abbisogna di quell’immensa gamma di competenze che la scuola generosamente fornisce. E’ però il fallimento di una scuola che ha chiuso i pur minimi laboratori di scienze, sostituendoli, invece di integrarli, con i computer e che utilizza le forme poetiche dell’esperienza quali quelle espresse talora dal cinema, dal teatro e in genere dalle arti e dalla letteratura senza finalità formativa. In tal modo non ha dato a quella maggioranza di cittadini una sicura autonomia di giudizio, la capacità critica e la competenza a distinguere tra solidarietà col gruppo e cedimento alle pressioni. Perché è una scuola la nostra e in generale quella europea che agisce, per tradizione, senza scopi.

Dal dopoguerra e fino alla caduta del muro di Berlino era sufficiente formare cittadini che stessero ben saldi al di qua di quel muro. E quell’educazione fatta di intense quantità di nozioni serviva allo scopo della trasmissione ideologica funzionale, se non addirittura casuistica. D’altra parte, una scuola che già veniva dai guasti che la dittatura ventennale fascista aveva procurato, con  l‘aggiunta della lunga fase della guerra fredda, non ha avuto una tradizione democratica e di massa da cui attingere i nessi per una revisione di paradigma. A ciò si aggiunga che l’immenso lavorio di innovazione didattica degli ultimi venti anni ha riguardato esclusivamente le didattiche disciplinari, in misura cosi debordante da aver condizionato una pedagogia divenuta, di conseguenza, prevalentemente disciplinarista. Da qui la sommatoria di errori che hanno condotto la scuola sull’orlo. Sull’orlo di un fallimento, dalle conseguenze drammatiche per i livelli di civiltà del nostro Paese e dell’Europa. Non cercheremo di dimostrare questo, perché questo è sotto gli occhi di tutti- E’ sufficiente qualche breve flash per ricordare a tutti l’atmosfera in cui viviamo.

 

Un’atmosfera da after day

Siamo dopo il primo decennio di questo nuovo Secolo e si respira una sorta di atmosfera da after day. Fabbriche che chiudono, piccoli imprenditori che si suicidano, operai e impiegati che perdono il posto di lavoro, licenziamenti da delocalizzazione, spesso condotte da imprenditori che hanno prima fruito di finanziamenti statali, operai sui tetti che minacciano di buttarsi giù, collegamenti serali in vari talk show con facce disperate di lavoratori in procinto di perdere il posto, volti di donne che vanno perdendo quel po’di autonomia acquisita pur nel duro compito di far coesistere lavoro, poco retribuito, cura dei figli e di parenti anziani o disabili; musei a cielo aperto che perdono pezzi importanti di reperti della nostra civiltà, magari per aver spianato senza criterio aree archeologiche per far atterrare l’elicottero del salvatore della patria pro-tempore; ospedali che –pur in un quadro di politica sanitaria che era più che buono, non si accorgono che propri settori effettuano operazioni chirurgiche non necessarie con asporto di organi all’insaputa del paziente. Baby prostitute ai Parioli, indagati almeno 50 persone tra imprenditori, professionisti ed altri; Courmayer: smottamento di miglia di metri cubi di montagna; mafie: accertati 45 mila affiliati alle drine, coinvolti esponenti della finanza, apparentemente puliti.

 

Notizie queste prese a caso di fronte a due telegiornali (Rai tre delle 19,00 e Tele7, delle ore 20,00), di una sera qualsiasi della primavera del 2014.

Ma tutto ciò è davvero addebitabile al modo con cui vengono formate le generazioni che si contendono come lupi la scena dell’esistenza? Naturalmente no. Ci troviamo coinvolti da una crisi planetaria e ci distinguiamo per la mediocre capacità di farvi fronte. E,  in tale magma, i deinos sono i veri protagonisti di successo.

Modifica in corso d’opera. Poco sopra si era richiamata l’impressione di trovarci a vivere in una sorta di after day, insomma in un clima da catastrofe morale e si era detto che per averne conferma era sufficiente tenere a portata di mano un paio di quotidiani;  per avere cioè la misura, pure molto approssimativa, dell’entità reale dei fenomeni di corruzione. Ma la realtà, appunto, smentisce giorno per giorno il carico degli avvertimenti per imporci una presa d’atto che siamo, invece, oltre la catastrofe: siamo cioè di fronte a una totale caduta etica, in cui non vige più alcuna remora né legale, né genericamente morale. Ci troviamo oltre la catastrofe: questo ci dicono i 35 arresti per il Mose di Venezia e gli oltre cento indagati; ieri, un altro evento di pari grandezza all’EXPO di Milano, tralasciando casi come quello della Banca Carige dell’altro ieri. Siamo nell’anno del Signore 2014, tra il giorno 5 e 6 del mese di giugno. Sindaci, ex ministri, ufficiali e giudici delle autorità e delle forze preposte al controllo, tenuti a registro paga di imprenditori  spregiudicati per milioni di euro all’anno, in tal modo determinando –per limitare i danni al puro conteggio dei costi del pubblico denaro- un aumento della spesa del 4, 500 per cento. Ma i danni sull’affossamento dell’etica pubblica non sono più calcolabili. E’ la deriva etica del Paese, a fronte di qualche timida reattività di giovani governanti che pure saprebbero fare, se non fossero tirati nel pantano dalla giravolta degli eventi ormai non più controllabili.

 

Eccone alcune manifestazioni.

“Agora Rai” del 6 mattina discute dei fatti del giorno precedente, intorno al Mose di Venezia: <<E’ ormai  una corruzione di sistema, occorre una educazione alla legalità, è un fatto di cultura>>.

<< E’ stato scardinato il falso in bilancio che era il modo residuo di individuare tali operazioni>>. <<Non c’è la percezione che la corruzione sia un reato>>. Un’indagine empirica all’Università: <<Gli studenti ritengono sfigati quelli che non si corrompono. L’ascensione sociale avviene attraverso la corruzione>>. Una domanda cardine: << Perché la cosa non si può risolvere?>>. Una risposta significativa: <<Nessuno è disposto a segare l’albero su cui è seduto>>.

Segue un filmato da una fase precedente della corruzione: terremoto dell’Aquila. Colloquio tra due imprenditori in vista degli appalti da accaparrarsi: <<Dobbiamo svegliarci, non c’è mica un terremoto al giorno!>>.

Viene sottolineato che il Presidente del Consiglio chiama ladri, non mariuoli, i nuovi corrotti per evidenziare l’aggravarsi della caduta dell’etica pubblica.

Presidente del Consiglio: <Se dipendesse da me riscrivere le norme considererei la corruzione come alto tradimento>>.

Una corrispondente della stampa tedesca dall’Italia: <<E’ quasi tragico che il Presidente del Consiglio a Bruxelles si deve presentare alla stampa, tra gli altri Presidenti del G 7,  e affrontare questioni così umilianti per il suo Paese>>.

Atri commenti: <<Nella gestione del Mose ci sono universi che hanno cancellato il concetto di bene pubblico>>. << Le regole ci sono ma sono state fatte per legittimare le eccezioni deregolanti. <<Mani pulite fu scoperta per indagini sul falso in bilancio, che poi è stato cancellato>>.

Come faremo a spendere i fondi europei?

Si cita un certo personaggio che a distanza da tangentopoli ritorna da protagonista delle attuali tangenti;  si evidenzia che a quel tempo tale personaggio fu arrestato per tre volte. Perché ora è stato ricandidato al Parlamento da un partito il cui fratello del leader lo aveva fatto condannare per le sue dichiarazioni? Ci si chiede: – Cosa c’è dietro a tale decisione?

Non è dato sapere, ma è dato intuire.

 

Sta che a fronte della crescita esponenziale dei fatti corruttivi si reclama come urgente un’educazione alla legalità da introdurre nei percorsi formativi, tutti dimenticandosi che sono almeno vent’anni che i curricoli delle scuole, già di per se dilatati dalle aggiunte seguite all’emergenza di turno, si sono fatto carico anche di tali forme di educazione. Sembra, senza alcun esito apprezzabile. Perché svolta tale educazione in contesto non costitutivo, ma vicariante. In breve: o l’educazione alla legalità emerge dall’intima struttura della formazione, ovvero da tutto il curricolo prescelto, o un’episodica aggiuntività non risolve. Anzi, creando noia, predispone al qualunquismo che è la madre di ogni disponibilità a lasciansi andare.

 

Paradossalmente abbiamo, pure in modo inconsapevole, realizzate istituzioni che formano in prevalenza soggetti permeabili alla corruzione, disponibili a corrompere. Basta condurre una rapida indagine in una Scuola secondaria superiore per accertare che sono ritenuti “fico” i soggetti che sanno farsi valere in qualsiasi forma e modalità di arricchimento, non importa se illegali. La notizia è stata data in uno dei talk show citati. La cosa è così diffusa che perfino i genitori che solitamente prefiguravano per i propri figli un successo nella legalità, vanno in questa drammatica crisi attenuando le aspettative e non esitano a sperare in un successo comunque sia. Così non sorprende che la madre di una delle adolescenti dei Parioli aiutasse la propria figlia a prostituirsi come modalità di fare reddito. E, tuttavia, non è ancora questa la fenomenologia generale del Paese. Ma la può diventare, come si coglie dall’allarme dell’opinione pubblica, se non si pone un argine culturale, da intendersi però come rivoluzione etica a partire dai  contesti di attività formativa.

 

Il principio di conoscenza

L’attività formativa in sede scolastica comporta, come ogni attività umana, manifestazioni di ciò che inerisce a quell’attività. Se questo è, tale fenomeno comporta secondo un approccio fenomenologico la <<ricerca del principio di conoscenza di ciò che si manifesta>> (Armezzani, 1998, p.10).  Qual è il principio di conoscenza  del fare istruzione, educazione e formazione, dato per certo che nelle specificazioni di queste risiedano le manifestazioni inerenti all’attività del fare scuola? Tale principio è per caso da reperire nell’ideologia del docente? O forse nelle linee di spiegazione delle unità didattiche preformate? O nell’assunzione ipso facto delle pianificazioni riportate dai libri di testo?

E’ subito da osservare che se queste componenti non son ridotte all’osso, quell’attività formativa si fa eterodiretta e invece che formare persone libere e autonome formerà soggetti laschi, manipolabili o ad orientamento costrittivo, dogmatico. Si osserverà anche che questa conclusione è affrettata e che le cose sono più complicate e che, insomma, nonostante tutto, è anche possibile che sortiscano dalle nostre scuole soggetti con sufficienti capacità di autonomia di giudizio e capacità di essere liberi. Ma è solo per caso; e si possono registrare in una curva gaussiana tali presenze, allocate però in una parte bassa delle stessa curva.

 

Il cominciamento come metodo

La domanda a cui occorre dare una risposta esaustiva è: <<Cosa si manifesta nel fare istruzione?>> e, correlativamente, <<Come si fa a cercare il principio di conoscenza di ciò che si manifesta?>>.

 

Una prima risposta empirica è del seguente tipo: -Nelle pratiche istruttive, formative ed educative, ovvero nella didattica del fare scuola, si manifestano condotte docenti e condotte degli allievi in ordine al rapporto insegnamento-apprendimento. Alla seconda
questione che riguarda il principio di conoscenza e dunque del rapporto insegnamento apprendimento occorre rispondere con le parole autovincolanti  della fenomenologia : <<La scoperta  del “cominciamento” è, insieme, scoperta del metodo della conoscenza, perché il procedere conoscitivo dovrà conformarsi alla sua origine, dovrà tenere conto delle sue ragioni effettive e della sua natura, se non vuole perdere la sua validità.

 

L’andare avanti è ancorato al modo dell’iniziare e ogni passo, ogni nuovo orizzonte, porta impresse le possibilità e i limiti inscritti, e impliciti, nell’atto originario>> (Armezzani, id., pp.10-11).

Di questa petizione alla coerenza assumiamo il fatto che l’andare avanti implica rifarsi continuamente all’atto originario, insomma a quel cominciamento che ha valore di metodo del conoscere. Diversamente, il rapporto insegnamento-apprendimento viene a perdere la sua validità. E viene a trasformarsi in un’altra cosa: in una sorta di baraccone. Insomma in un rapporto brutale, fatto di reciproci atti  di autodifesa, autolesionismo, di autoincensamento richiesti questi dal diritto alla sopravvivenza furbesca, coperti da un apparente manto di legalità, ma che nasconde una reciproca intesa. L’insegnante fa quel che può per insegnare le cose che crede di dover insegnare, avendo sullo sfondo un labile ricordo delle partizioni epocali o per periodi; l’alunno fa quel che può, tanto prima o dopo sa che tra insufficienze, recuperi apparenti da debiti, donazioni o abbuoni decisi dal Consiglio di classe se la caverà in qualche modo. Almeno nella Scuola ­media. Perché a partire dal biennio delle Superiori le bocciature sono lo sbocco più possibile, a fronte di determinate difficoltà.

 

Il tradimento delle “ Indicazioni per il curricolo”

Quale evidente stridore tra la brillante ipotesi del metodo del conoscere implicato nel cominciamento e la tristezza che la negazione del cominciamento fa emergere come conseguenza di un occultamento di un atto dovuto.

Perché tale atto del cominciamento virtuoso è atto dovuto? Basta leggere con un minimo spirito critico quanto espresso nelle Indicazioni per il curricolo. Qui vi si legge chiaramente che le conoscenze preformate che rappresenterebbero una sorta di media delle possibilità degli studenti non sono più accettabili e che, invece, occorre por mano ad una originale elaborazione del curricolo che tenga conto non della media ma di ciascuna persona che viene affidata ad una collegialità docente. Cosa questa ammessa in linea di principio, ma di fatto del tutto occultata nelle prassi quotidiane del fare scuola.

 

Tuttavia, v’è da osservare che non si tratta di un occultamento consapevole di quell’atto dovuto, quanto –piuttosto- della inconsapevolezza dell’esistenza di quell’atto. I dirigenti locali, i dirigenti regionali, i dirigenti ministeriali, pur sapendo invece della sua esistenza come atto vincolante e imprescindibile, perché su tali questioni, centrali per lo svolgimento di funzioni dirigenziali, hanno dovuto sostenere esami scritti e colloqui orali, non si sono ancora interrogati in cosa possa consistere e quale sia il proprio ruolo per suggerirne l’applicazione e il monitoraggio. Si potrà osservare qui che anche i docenti, quelli che hanno avuto accesso alla funzione per concorso e non per vari tipi di sanatorie, hanno dovuto manifestare una qualche consapevolezza dell’esistenza del problema.

 

Le inadempienze formative che formano deinos

Il che se è vero, ci costringe a concludere che esistono nel sistema scuola, a tutti i livelli, inadempienze rispetto a vincoli fondamentali che ne minano alla base  la sua natura di istituzione che dovrebbe tentare di attuare finalità formative, portandola nell’inadempimento a divenire gradualmente un’altra cosa: un’organizzazione casuistica che –in quanto tale-  si presta a sfornare eserciti di Deinos e poche brigate di persone orientate alla costruttività personale e sociale, per puro effetto statistico. Così invece del cominciamento e insomma di come deve avviarsi una corretta prassi istruttiva che sia anche educativa, ci si sofferma su generiche affermazioni pedagogiche di principi astratti, anche se spesso affermati con competenza che hanno più a che fare con la filosofia dell’educazione che non con quelle prassi che rendano costitutivo il lavoro scolastico di educazione.

 

Quasi tutta la pedagogia universitaria e degli enti preposti alla formazione in servizio, alla valutazione e alla ricerca, sostiene tale impianto, contribuendo al perpetuarsi di una tradizione che sta portando le istituzioni scolastiche sull’orlo della perdita di identità. Il paradosso sta nel fatto che a definire struttura e contorni di quel cominciamento sono stati chiamati proprio esponenti di primo piano delle scienze dell’educazione. Come può spiegarsi una tale condizione? E’ che la pedagogia universitaria contribuisce a definire gli scopi di una riforma implicati nelle Indicazioni ministeriali per il curricolo. Ma si dimentica di allertare che se non si comincia dall’inizio, quell’inizio non avrà mai inizio.

E’ in presenza di una tale allucinante condizione che si fa urgente il ricorso alla Fenomenologia  perché ci aiuti ad allarmare. Mentre sullo sfondo resta latitante l’Università che ancora non si è data una ricerca sulle condizioni di attuazione di una finalità educativa, i meccanismi formativi vigenti continuano a produrre deinos a tutti i livelli non risparmiando, naturalmente, nemmeno l’Università con talune sue orgiastiche nicchie di potere. Come descrivere diversamente la condizione presente dei sistemi formativi?

 

Edgar Morin, ricordando Ortega Y Gasset, afferma: <<Non sappiamo cosa accade e questo è ciò che accade>>  (Morin 2012, p. 5). Ma cosa è quel che accade, almeno a livello molto generale? E’ che la quantità esponenziale delle conoscenze ha fatto smarrire <<l’attitudine a contestualizzare l’informazione e a integrarla in un insieme che le dia senso>> (id., p. 133) nella individuazione non solo dei nessi logici ma anche delle dimensioni affettive delle relazioni umane.

Qui non si sta cercando la fondazione di un nuovo discorso sull’educazione, ma si cerca di rendere percettibile ciò che accade e se questo che accade non è condivisibile è bene pensare a ciò che può essere.

Per comprendere l’incidenza nefasta dei deinos usciti dai sistemi formativi o che questi sistemi non hanno saputo porre un argine alla deriva egocentrica dei suoi allievi si consiglia, riprendendo di discorso di poco sopra, di avere a portata di mano, solo a mo’ di verifica, almeno un paio di quotidiani. Dalla stampa si avrà riscontro che non esiste settore di attività, dalle più umili a quelle più intellettualmente elevate, che non  registrino atti di corruzione o di inadempimenti dei propri doveri che però causano danni incalcolabili alla comunità.

 

Fatto è che, seguendo ancora Morin, è pura illusione pensare che agiamo nella società della conoscenza; invece <<siamo giunti alla società delle conoscenze separate le une dalle altre, separazione che ci impedisce di legarle, per concepire i problemi fondamentali e globali sia delle nostre vite personali che dei nostri destini collettivi>> (id., p. 134). Dunque, si va sempre più diffondendo una incapacità di fare relianza, di legare gli eventi conoscitivi, per coglierne il senso. E allora <<la nostra intelligenza si acceca>> (id., p. 135) fino al punto –di degrado in degrado- da rendere prevalente la ragion strumentale dei deinos. Vale a dire di quella ragione <<che è al servizio di imprese nocive, criminali o dementi>> (id.) che certo, nei nostri tempi, non giungono a costruire campi di concentramento ma che producono autentiche imprese atte a delinquere, sostenute da tecnologie avanzate.

 

La speranza: la scuola con la libertà culturale scopra anche i vincoli

Tocca, allora, alle istituzioni formative comprendere il valore della selettività delle conoscenze, per scegliere e orientare mediante saperi autenticamente formativi, costruendo relianza. Perché <<La selettività non equivale a una degradazione della conoscenza ma è, al contrario, la via maestra attraverso cui ogni individuo accede al mondo, vive nel mondo e costruisce il mondo>> (Bocchi, Ceruti 2004, p. 28). E’ questo l’esito della selettività auspicabile, purché si stagli nell’orizzonte della trinità etica <<che comporta un’etica della persona (per il proprio onore e per l’aiuto al prossimo); un’etica civica; un’etica del genere umano>> (Morin, op. cit., p. 145).

 

Allora due sembrano essere le condizioni per avviare una riforma dei saperi in ambito scolastico. La prima è quella di darsi una strumentazione per la selezione delle conoscenze. La seconda è quella di tenere conto del sistema nervoso che è apparato specializzato proprio nella selezione delle <<particolari sensazioni, percezioni e cognizioni>> (Bocchi, Ceruti, op. cit., p. 28). C’é chi scrive da decenni proponendo tali condizioni preliminari per ogni cominciamento dell’azione educativa (cfr. Aprile 1991). Ma se non v’è un’amministrazione scolastica (centrale e periferica) che compia queste opzioni e se non v’è un parallelo lavoro di ricerca dell’università che sostenga tali processi, l’impresa condotta da qualche ingenuo esploratore, pure avviata con intenti innovativi, si fa –come si fa sempre più- destinata alla sconfitta.

 

Si sottolinea però che se la condizione universalmente ammessa è che <<la scuola  e l’università devono formare soprattutto cittadini, che siano in grado di scegliere le modalità della loro partecipazione alla costruzione collettiva  nazionale e globale>> (Bocchi, Ceruti, op. cit., p. 36), occorre chiedersi cosa fare e come farle queste cose. Questa conclusione, apparentemente facilitante risposte empiricamente utili, ci riporta ancora una volta al problema del cominciamento, senza gli orizzonti del quale le risposte empiriche ci condannano alla replicanza del noto.

 

A questo punto occorre domandarsi, con determinazione, se la scuola ha una sua essenza.  Perché se possiede questa sua specificità <<può conoscere in modo oggettivamente valido solo essenze e relazioni di essenze e così compiere in maniera definitiva tutto ciò che è necessario alla comprensione chiarificante di ogni conoscenza empirica e di ogni conoscenza in genere >> (Husserl 2005, pp. 62-63). Vale a dire che si può richiedere alla scuola di darsi delle condotte coerenti con quanto implicato nella origine della sua costitutività e di operare per <<la chiarificazione dell’origine di tutti i “principi”  […]  e di ogni altro “principio” guida, nonché di tutti i problemi, a ciò strettamente connessi>> (id.), compresi il modo d’essere e il modo di concepire la coscienza. Proprio sulla coscienza va chiarito che ad essa si perviene con l’intuizione fenomenologica e non con l’introspezione (id., p. 61),  perché non siamo di fronte alle singolarità individuali in quanto –come ha sostenuto Varela (2000) –  la coscienza è un fatto pubblico. Nel senso che le sue elaborazioni sorgono e si ripercuotono in atti pubblicamente osservabili.

 

Ritorna così con forza il problema dell’origine. E poiché i problemi d’origine sono problemi fenomenologici (id., p. 60) si conferma l’esigenza di assumere la fenomenologia come scienza dell’indagine sull’ origine di fatti educativi e sulle articolazioni delle sue componenti da cogliere con le coerenze dell’intuizione fenomenologica rispetto a quell’inizio. Tale approccio si è reso più necessario a partire dagli anni 90, vale a dire da quando il problema della coscienza fu sollevato come problema da affrontare  con una strumentazione idonea; allora <<in alcuni circoli si pensò che la fenomenologia come approccio filosofico potesse avere una sua importanza>> (Gallagher e Zahavi 2009, p. 7) a cui si aggiungeranno ben presto gli <<approcci “incarnati” della cognizione>> (id.)

Si è insistito sull’importanza della fenomenologia e del suo metodo per un’assunzione di responsabilità e di coerenze nello svolgimento di prassi didattiche orientate ad un approccio naive, non burocratico, ma enattivo. Cioè agito mentre si fa; il che non vuol dire affatto che tale approccio sia improvvisazione o mancanza di orientamenti. Anzi. Proprio l’assunzione del principio di coerenza del cominciamento, qui esteso ad ogni tappa della processualità scolastica, obbliga a che tali tappe siano appunto discendenti dal contenuto e dalla forma di quell’inizio. Questa assunzione è di vitale importanza per il futuro delle nostre istituzioni scolastiche. Si può, empiricamente, prescindere anche dalla metodologia fenomenologica, ma quel che non si deve fare è continuare a ignorare il vincolo del cominciamento e, insomma, del dovere di dover partire dall’inizio.

 

Sospendere il giudizio sulle prassi correnti

E qui ci si riferisce al lavoro docente e a quello dirigente. Ma non al rapporto docente-discente che abbisogna di essere orientato dai bisogni formativi dell’alunno che è già portatore di esperienza e di conoscenza. Solo che se tali bisogni sono ricavati dalla lettura dei vincoli connessi a quel cominciamento o, meglio, se le specificazioni sono assunte in termini di valori implicati nelle finalità, che sono l’essente del cominciamento, si ha qualche speranza di cogliere l’essenza di quei bisogni e accedere così all’essenza dell’insegnamento. Purché anche il cominciamento venga sottoposto ad indagine. Se quel cominciamento, attraverso un’indagine fenomenologica, riesce a divenire: <<facciamo qualcosa in vista di>> attribuiamo alle finalità la capacità di darsi i mezzi per raggiungerla o di provarvi.

Dunque, vi è un nesso di continuità tra finalità e mezzi. Sta che il rapporto finalità-mezzi pur venendo più volte ricordato viene  in pratica del tutto trascurato, soprattutto nel nesso virtuoso di fini-mezzi-fini. Non v’è manuale di pedagogia che non ne faccia cenno. Si cita a caso da appunti recuperati online da testi di autorevoli pedagogisti: <<la pedagogia si rivolge a indicare azioni da compiere in vista della realizzazione di scopi e valori>>; ed ancora: <<la specificità dell’azione educativa sussiste necessariamente nell’intenzione che la muove>>. Quest’ultimo passaggio rinforza la questione delle finalità perché l’intenzione che muove  l’azione educativa è proprio quella della <<realizzazione di scopi e valori>>. Si invita il lettore attento a voler condurre un’indagine per accertarsi se esiste almeno una pubblicazione della pedagogia ufficiale che tratti le azioni conseguenti a quell’intenzionalità che muove il fare educazione, purché sia vista in coerenza con gli scopi e i valori che rendono costitutiva la funzione, ricordata qui proprio dal passaggio appena indicato.

Ciò detto, la speranza che nelle scuole, nei primi giorni di ogni anno scolastico, quando si dedica un certo tempo alla progettazione educativa, venga messa all’ordine del giorno cosa possa significare partire da quel cominciamento, quella speranza è vana. Perché sono irresponsabili docenti e dirigenti? Assolutamente no. E’ che nessuno glielo ha mai chiesto e nessuno glielo chiederà mai. Se poi a qualcuno venisse il desiderio di accertare l’esistenza di questo problema e di esplorarlo, il suo desiderio verrebbe travolto dalle urgenti necessità organizzative logistiche, di orari e di materiali.

 

Tutto diventa di prima necessità; quella di partire daccapo sarà intesa  nel senso che da qualunque luogo ciascuno parta, quello sarà definito come cominciamento, e partenza per … nessun luogo! La sola speranza che qualcuno, oltre agli autori delle Indicazioni per il curricolo, si accorga dell’esistenza del problema è trattare questo dalla prospettiva delle neuroscienze cognitive che favoriscano la crescita della consapevolezza della complessità formativa (ved. Aprile 2012).

 

Il fare scuola non è svolgere una serie di semplici lezioni, pure ben preparate  tecnicamente e culturalmente. E’ cosa molto più complicata. Per questo bisognerebbe cogliere, per assumerla, la prospettiva della neurofenomenologia che dà conto, con la fenomenologia husserliana, della necessità del partire daccapo o, meglio, della necessità di dare nuove basi epistemologiche alla scienza del fare scuola. Trattando, finora, delle inosservate ovvietà si è già di fatto compiuto un cammino dentro la fenomenologia, soprattutto per quella dose  di dogmatismo da evitare implicato nel sostenere affermazioni come <<quello che non si è fatto, è ora che si cominci a farlo>>. Ebbene, tutto questo va messo tra parentesi, non rinunciando ad indagare quelle prassi didattiche vigenti che si ritengano caratterizzate da indubitabilità per l’inclinazione realistica che governa gli attuali processi formativi; perché qui <<l’epoché implica un cambiamento di atteggiamento verso la realtà, e non un’esclusione della realtà>> (Gallagher e Zahavi 2009, p.37).

 

Se desideriamo contribuire alla fuoriuscita dalla crisi drammatica in cui versano le Istituzioni pubbliche non possiamo escludere da tale meta una seria revisione dei modi in cui si esplica la formazione scolastica. Perché da questa dipende la interruzione della deriva governata dai deinos, per una ripresa della speranza di formare cittadini della convivenza civile. Si è reso evidente l’importanza del nesso fini-mezzi. Ma è più ricca e costruttiva la prospettiva fini-mezzi-fini (FMF), perché comporta la costruzione di un sistema congruente di valutazione, per sapere se si va interrompendo la dilagante produzione di deinos. In tal modo la prospettiva assume i caratteri di una vera e propria strategia formativa. Diversamente, uno sviluppo certo prefigurabile è quello esponenziale dei deinos, ovvero di soggetti permeabili ad essere corrotti o divenire  corruttori.

Opere citate

LeDoux J. (2002), Il sé sinaptico, Milano, Cortina.

Macchi Cassia V., Valenza E., Simion F. (2004),-Lo sviluppo cognitivo,-Bologna, Il Mulino.

Aprile F. (1991), Come realizzare gli obiettivi formativi, Roma, Skema.

Aprile F. (2012), L’alunno furgoncino e l’alunno carrarmato, Roma, Armando.

Aristotele (1994), Etica Nicomachea, Milano, Rizzoli.

Armezzani M.  (1998), L’enigma dell’ovvio, Padova, Unipress.

Bocchi G., Ceruti M. (2004), Educazione e globalizzazione, Milano, Cortina.

Gallagher S., Zahavi D. (2009), La mente fenomenologica, Milano, Cortina

Goldberg E. (2010), La sinfonia del cervello, Milano, Ponte alle Grazie, p. 303.

 

Husserl  E. (2005), La filosofia come scienza rigorosa, Roma-Bari, Laterza

Morin E. (2012), La via, Milano, Cortina.

Varela F. (2000), Quattro pilastri per il futuro della scienza cognitiva, in “Pluriverso”, 2, p.13.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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