La polemica dilaga. Tempo fa Alberto Asor Rosa, Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Esposito hanno denunciato con un appello promosso dal Mulino lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari, considerati sempre più alla stregua di un ciarpame inutile che deve fare spazio alle “cose serie”: le scienze naturali e matematiche, i metodi quantitativi e “oggettivi”, da privilegiare alle fumisterie inconcludenti delle scienze non esatte. I promotori dell’appello avevano individuato un segnale di questo svilimento nel dilagare dei metodi quantitativi e statistici di valutazione dei lavori scientifici mediante la “bibliometria”, assurti a dogma per opera dell’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca). Poi sono venuti altri fatti a rafforzare la denuncia: la filosofia è stata eliminata dalle tabelle disciplinari di alcuni corsi di laurea universitari (come Pedagogia e Scienze dell’educazione) e prende corpo il tentativo promosso da un fronte tecnocratico-confindustriale di ridurre la durata dei licei a quattro anni colpendo soprattutto la filosofia, che sarebbe ridotta a un relitto in via di definitiva eliminazione. Roberto Esposito ha denunciato con vigore questa tendenza definendola un tentativo di abolire il pensiero critico da scuola e università. A sua volta, Dario Antiseri ha accusato della stessa colpa i fautori dell’“ignoranza attiva”, che si aggirerebbero negli “antri” del Ministero dell’istruzione.
Non si creda che questi appelli e queste reazioni abbiano suscitato consensi unanimi. Al contrario. Si è aperto un confronto confuso in cui alcuni hanno contrapposto la tesi che in Italia, per l’antico persistente influsso del crocianesimo, è la cultura scientifica ad essere da sempre all’angolo. Altri hanno sostenuto che l’ossessione per la valutazione quantitativa sia proprio un prodotto di tale incultura scientifica. Altri ancora hanno lamentato la cronica carenza di laureati in materie scientifiche che sarebbe dovuta a una campagna antiscientifica che denigra ciò che non sarebbe direttamente utile e propaga una deplorevole diffidenza nei confronti di tutto ciò che è misurabile e quantitativo. Giovanni Reale ha replicato individuando la radice di tutti i guai nell’idea che il sapere derivi tutto dalla scienza e che la tecnologia risolva tutti i problemi. Ha ricordato la tesi di Popper secondo cui la scienza non può avere idee universali e necessarie, ma solo coerenti con un paradigma contingente, mentre la filosofia può contenere anche sistemi opposti. Qui è stato assai meno convincente. In primo luogo, perché la visione di Popper della scienza non è “la” scienza, la cui storia offre prospettive molto più ricche. In secondo luogo, perché la discussione poggia su un vizio di fondo che mostra quanto sia incancrenito il conflitto tra le “due culture”: di esse si parla come cose diverse e divise da un’insuperabile barriera che lascia come unica possibilità la definizione dei rispettivi spazi di sopravvivenza.
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Ho aderito all’appello per amore della Filosofia! Sia pure con qualche remora perché ritengo responsabili anche i suoi promotori del disastro in cui versa la filosofia in Italia. La loro indisponibilità ad aggiornarsi sui traguardi della scienza ha determinato la marginalizzazione del pensiero umanistico rispetto alla divulgazione della CONOSCENZA.
Se oggi prevale un’ideologia tecnocratica che detta legge su cosa sia da ritenere utile per l’uomo e cosa no, è proprio dovuto all’assenza puridecennale del contributo dei nostri “filosofi” che hanno snobbato la scienza invece di tenersi aggiornati sui suoi sviluppi. Se avessero prevalso Geymonat, Paolo Rossi, Toraldo di Francia… e altri, l’ideologia tecnocratica non avrebbe prevalso impunemente.
La conoscenza può essere effettiva e al tempo stesso oscura. E la filosofia è soprattutto una questione di chiarezza non di conoscenza (scientia) su come stanno le cose. E sotto questo profilo i danni, oltre che da molti epigoni di Heidegger o dell’improbabile Wittgenstein “misterico” o del variegato pensiero postqualunquecosista ecc, sono stati compiuti anche dalla scuola di Geymonat e dai suoi epigoni (leggere le pagine dedicate a Husserl nell’omonima Storia del pensiero filosofico e scientifico è un’esperienza imbarazzante, soprattutto perché paiono fraintendere completamente non soltanto Husserl ma addirittura Galileo), come pure da molto storicismo idealista e marxismo positivista. Ma non è il caso di piangersi addosso. Semmai di darsi da fare per evitare nuovi equivoci. Come quelli, numerosi, che già inficiano un discorso serio attorno alle neuroscienze, ridotto spesso a puro slogan. La chiarezza che la filosofia può portare sulla conoscenza scientifica o è in linea di principio autonoma da questa o non è. Il che non significa ignorare i risultati della scienza né tantomeno svilirli o demonizzarli. Ma riconoscere i loro limiti ed esplorarli. Per amore di chiarezza.
Non è del tutto certo che vi sia un attacco alla filosofia; certamente, vi è un serio attacco da parte della tecnoscienza al modo di intendere la conoscenza come complessità delle sue indagini e per i risultati formalizzati. Considerare queste due dimensioni di problemi al di fuori degli strumenti esplicativi che la tradizione filosofica fornisce ci pone sul terreno delle pure datità e allontana la conoscenza dalle sue strutture eidetiche, e cioè dalla loro essenzialità. Ovvero, dal loro potere di maggiore o migliore umanizzazione. E ciò è paradossale. Eppure nella epistemologia contemporanea era prevalsa la nozione per cui non v’è ricerca empirica senza che essa venga orientata da una teoria. E che non v’è teoria degna del nome senza che essa produca esiti empiricamente valutabili nei termini delle coerenze con i presupposti teorici. Dunque, se questo fosse veramente accettato e assunto come base minima dell’operare in termini di scienza, l’apporto della filosofia – e in genere delle scienze umane- sarebbe salvaguardato e arricchirebbe la stessa esperienza. Ma così non sembra essere. Sorge allora il sospetto che la tecnoscienza ricorra a una pseudo teoria, ritenendo la teoria formalizzata come ingombrante orpello e riservando alla filosofia <>.
Non ci si accorge però che il male è antico ed è radicato nel tradimento che le istituzioni scolastiche vanno da lungo tempo compiendo, nell’indifferenza dell’università; operando cioè secondo un sostituto di teoria della scienza del fare formazione: una pseudo teoria che legittima l’operare empirico che resta fatto dominante e misurabile in termini di quoziente intellettivo o di oggettività quantitativa. Realtà questa che -come Edith Stein direbbe – porta a formare gli esseri umani a un fine identico per tutti. Da un tale effetto omologante non ne potevano che sortire fenomeni come quelli denunciati dal Prof. Giorgio Israel.
Occorre allora che ciascuno faccia qualcosa nel proprio territorio di competenza , ma che si coordini con altri territori per fare relianza. Quella relianza che la tecnoscienza –dea della separazione delle conoscenze- guarda con sufficienza, perché in contrasto con i suoi presupposti strumentali e manipolativi.
Sono da segnalare, in margine, due fenomeni. Il primo si riferisce alla cosiddetta philosophy for children: una sorta di miniaturizzazione della filosofia che da qualche anno si sta introducendo nella scuola primaria, con la speranza di far fronte alle carenze dei processi formativi. E non ci si avvede che questa si presta a possibili effetti di banalizzazione del pensiero filosofico e di adultizzazione precoce dei bambini; mentre si trascura la richiesta di estendere a tutti gli ordini di scuola, a partire con gradualità dalla terza media, la conoscenza di problemi filosofici e degli strumenti che tale conoscenza fornisce per attrezzare gli allievi all’esercizio del pensiero critico, all’autonomia di giudizio, a un’educazione al pensiero complesso.
Il secondo si riferisce all’osservazione del fatto che le conoscenze della rivoluzione in atto nelle neuroscienze cognitive sono rese percettibili e talora fruibili grazie al rapporto di collaborazione tra neuro scienziati e filosofi. Tale fenomeno è particolarmente positivo per il fatto che è la filosofia che sta fornendo linguaggio e strutture esplicative per la comunicazione democratica degli esiti della ricerca scientifica. Forse una rondine non fa primavera. Ma da Kandell a Damasio, da Oliverio a Boncinelli, da Varela a Changeux ci si avvede che l’eleganza delle loro formulazioni teoriche si struttura su basi filosofiche. Resta, tuttavia, la innegabile condizione generale dell’allarme urlato con grande stile dal Prof. Israel. Il rischio è il futuro di quel che resta della democrazia: è questa che sta subendo, per traslatio, l’attacco più demolitorio.