Per capire la ratio e il dispositivo della legge che tra mille polemiche ha rivalutato le quote societarie di Bankitalia, ora entrata nel mirino dell’Unione Europea, bisogna richiamare diverse circostanze storico-giuridiche conosciute sino ad ora da pochi: magari noiose, ma indispensabili per potersi orientare nell´argomento.
La Banca d´Italia (d´ora in poi, BdI), la nostra Banca Centrale, origina da una sorta di associazione tra banche. Come ricordato in un Comunicato dal titolo “Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5”, emesso dalla BdI il 3 Febbraio per chiarire alcuni punti della legge di cui è oggetto, ma che ha sicuramente e rilevantemente contribuito a dettare, per ragioni storiche che risalgono agli anni Trenta del secolo scorso, la Banca d’Italia già aveva una forma giuridica associativa, che ricordava quella di una società per azioni; le quote di partecipazione al capitale erano distribuite tra banche ed enti di assicurazione e previdenza, per la maggior parte divenuti dagli anni Novanta di natura privata.
Dunque la forma giuridica ricordava quella di una società per azioni, senza esserlo. In particolare, le quote detenute dagli istituti bancari e previdenziali partecipanti non erano negoziabili e quindi non avevano un prezzo di mercato. Inoltre, il massimo dividendo distribuibile era commisurato non al valore delle quote ma all´entità delle riserve accumulate. La BdI ottiene dei redditi dalla sua attività. Questi sono i rendimenti delle riserve, fondi investiti oculatamente, e il reddito da signoraggio, che la Banca percepisce in quanto molte delle sue transazioni (ad esempio operazioni creditizie con le banche ordinarie) comportano la creazione di base monetaria, o, come meno esattamente si dice, la stampa di moneta. Il possesso delle quote a cosa dava diritto? A un dividendo determinato discrezionalmente ogni anno, che non avrebbe dovuto eccedere il 4% delle riserve.
Le banche partecipanti erano pubbliche ma sono state privatizzate e hanno dato vita a un processo di concentrazione. Sicché anche la distribuzione delle quote è mutata, e un paio di banche, Intesa San Paolo e Unicredit, ne possiedono insieme il 58%: decisamente troppo per degli istituti che devono essere soggetti alla vigilanza della BdI.
Il problema dell´assetto giuridico della BdI aveva trovato una soluzione affatto diversa in una legge della Repubblica del 2005. Come ricorda il Comunicato succitato, La “Legge sul risparmio” del 2005 prevedeva, tra l’altro, il passaggio del capitale sociale della Banca allo Stato. Negli anni seguenti questa previsione non è stata attuata.
Infatti il governo non esercitò mai la delega che la legge gli conferiva a gestire il trasferimento delle quote a enti pubblici. Al riguardo, il Comunicato si limita ad osservare:
Il mantenimento dell’indipendenza della Banca d’Italia, sancita e tutelata dal Trattato europeo sull’Unione economica e monetaria, avrebbe richiesto la predisposizione di un complesso intervento legislativo a protezione di tale indipendenza. Questa, come è stato più volte riconosciuto dalla Banca centrale europea, non è stata in alcun modo compromessa dall’assetto a partecipazione privata.
Dunque ora si è preferito imboccare la strada opposta: lasciare a dei soggetti ormai privati la proprietà della BdI, procedendo però a rifrazionarla, imponendo un massimo del 3% alla partecipazione di ciascun istituto, e ammettendone di nuovi. Queste operazioni presupponevano degli scambi, dunque la formazione di un mercato. Perché allora non far diventare i detentori delle quote azionisti in piena regola? Però all´uopo serve l´indicazione, e prima ancora l´identificazione del capitale sociale. Ossia i fondi versati dagli istituti partecipanti per la costituzione della nuova entità, la BdI. In definitiva, che cosa possiedono della BdI coloro che ne detengono le quote? Si dirà: il patrimonio tangibile della Banca, le sue riserve: magari anche il mitico oro! No assolutamente, spiega il Comunicato: «In quanto derivanti da una tipica attività di interesse pubblico, queste riserve (così come le altre poste patrimoniali presenti nei conti della Banca d’Italia, incluso ovviamente l’oro) non sono di proprietà dei partecipanti, i quali possono vantare diritti solo in relazione al capitale in senso stretto della Banca, diritti assegnati loro dalla Legge Bancaria del 1936 e ora rivalutati». Ma, cos´è, e quanto è, il “capitale in senso stretto della Banca”? Si potrebbe dire che sia il rimborso che lo Stato avrebbe dovuto effettuare ai partecipanti, se si fosse proceduto ad attuare la legge del 2005. Giusto, ma determinato come? Afferma il Comunicato:
La misura dell’indennizzo era incerta e ardua da determinare. Si è arrivati oggi a stimare il valore delle quote attraverso un calcolo complesso e con la consulenza di esperti nazionali e internazionali (da 5 a 7,5 miliardi di euro; … ). In caso di statalizzazione della Banca una tale somma sarebbe stata a carico del bilancio pubblico, cioè del contribuente.
Così sappiamo a quanto è stato stimato, ma non il criterio adottato per identificarlo. La nuova legge ad ogni modo l´ha fissato a 7,5 miliardi di euro, l´estremo superiore dell´intervallo suggerito dagli esperti. Come questo idiosincratico “capitale in senso stretto” fa la sua apparizione nel conto patrimoniale della BdI? Ecco la risposta:
I 7,5 miliardi della rivalutazione sono già nel bilancio della Banca d’Italia. Erano iscritti come fondi di riserva, ora entrano nel capitale sociale e servono a delimitare i diritti dei partecipanti. Il capitale della Banca viene rivalutato a 7,5 miliardi, secondo un criterio che tiene conto del flusso storico di dividendi pagati e della sua evoluzione nel tempo. Né lo Stato né i contribuenti sborsano alcunché per questa riforma. Il patrimonio della Banca (capitale + riserve) resta inalterato.
Questo è davvero un passo chiave. Dunque, nonostante la quasi veemente negazione precedente, 7,5 miliardi di euro vengono riclassificati e passano dall´attivo al passivo. Sono ora nella disponibilità dei proprietari. Ecco, potrebbero dire i grillini, questo (se non la peccaminosa “privatizzazione della Banca d´Italia” sopra descritta) è il regalo alle banche! Ma si tratta, potrebbero rispondere i sostenitori della legge, solo di un espediente contabile. Essi potrebbero anche contro-attaccare: attraverso tale indolore artificio, e la creazione di un mercato delle quote, risulta migliorata la composizione dei patrimoni delle banche, che avrebbe comunque dovuto essere rafforzata per soddisfare ai requisiti di “Basilea III”, il grande accordo internazionale di regolazione bancaria, e per superare gli incombenti stress tests predisposti dalla Comunità Europea. A loro volta, delle banche ricapitalizzate potranno concedere maggiori prestiti: proprio ciò di cui il settore privato ha bisogno! Cosa ci sarebbe di inaccettabile in un regalo che oltre a beneficiare il destinatario, non nuocesse a nessuno e anzi indirettamente avvantaggiasse molti?
E veniamo all´individuazione del “capitale in senso stretto”. Esso, si potrebbe dire, e’ null´altro che le lire inizialmente versate (300 milioni nel 1936, 156.000 euro), o meglio il loro equivalente reale in termini di euro oggi. Questo sarebbe di circa 1 miliardo di euro, ed e’ a questo criterio e a questa si stima che si sono attenute Intesa San paolo e Unicredit nel mettere a bilancio le loro partecipazioni (ereditate dalle loro progenitrici Banca Commerciale e Credito Italiano.) Ma questo concetto di capitale, che ovviamente porge la giusta “misura dell´indennizzo” di cui sopra (1 miliardo, non 7, 5 come terroristicamente insinua il Comunicato), non è quello rilevante per i calcoli che dovessero fare degli operatori economici oggi. Il concetto giusto è quello della attualizzazione del flusso dei dividendi futuri: il prezzo che il mercato pagherebbe per il diritto a percepire tale flusso, in presenza di un mercato del credito ben funzionante. Ora il flusso dei dividendi futuri dipende dalla politica dei dividendi della BdI. La BdI ha dato incarico a una Commissione di autorevoli esperti (che l´hanno accettato senza batter ciglio) di provare a stimare qualcosa che dipende esclusivamente da lei! Il “capitale in senso stretto” degli istituti partecipanti dipende essenzialmente ed esclusivamente da quanto la BdI ha voglia di elargire loro annualmente sotto la forma legale di dividendi. La nuova legge fissa solamente la percentuale massima che può essere distribuita annualmente: il 6% del capitale. Con la vecchia legge, vi era pure un limite massimo: il 4% delle riserve. Dunque: con la vecchia legge il massimo dividendo sarebbe cresciuto nel tempo, con la nuova resterebbe costante. Ma questo non dice nulla su ciò che avverrà. L´unico limite alla discrezionalità della BdI è che la detenzione delle quote, ormai azioni a pieno titolo, deve essere conveniente per gli istituti partecipanti e per gli altri soggetti che la BdI desidera entrino nel nuovo mercato. Dunque gli dovranno essere versati almeno gli interessi che i 7,5 miliardi di riserve ora attribuiti alle banche partecipanti fruttano alla BdI: sennò le banche potrebbero vendere le quote e replicare loro con il ricavato tali investimenti finanziari! Gli dovrà essere versato almeno tale importo e, direi, non di più di esso: altrimenti avremmo addirittura un doppio regalo della BdI ai possessori delle quote: che sarebbe ammessi a una divisione dei profitti monopolistici della Banca, al di là del rendimento delle riserve graziosamente attribuitegli, come se ne fossero davvero (e non per comoda finzione giuridica) i proprietari!
Si potrebbe pensare che con la nuova legge si sia data inspiegabilmente nuova forza a dei diritti ormai desueti. Ad esempio, la situazione immediatamente precedente la nuova legge è stata pochi giorni fa cosi’ descritta da Boldrin, Bisin, e Moro:
I “soci” fondatori della Banca d´Italia ad oggi non sono che un residuo storico: non hanno controllo della banca, non possono commerciare le proprie quote e da esse ricevono dividendi minimi ed indipendenti dagli introiti di signoraggio, che vanno invece (giustamente) al Tesoro.
Si potrebbe pensare che fosse stato cosi, e si sarebbe nel giusto. Ma non del tutto. C´era infatti un dato non conforme a questa rosea, quasi ideale raffigurazione: l´ultimo dividendo distribuito alle banche (nel 2012) è stato di 70 milioni di euro. Non noccioline! Ad esempio, se si capitalizza questa somma (assumendola costante nel tempo) a un tasso d´interesse economicamente sensato, dell´1%, si trovano 7 miliardi di euro, una somma molto vicina al valore del capitale fissato dalla legge (7,5 miliardi). In un recentissimo studio, Francesco Lippi ha ricostruito il profilo storico del flusso dei dividendi pagati dalla BdI alle banche, sia in termini monetari che reali. E ha scoperto che i dividendi reali, dopo essere stati quasi irrisori dal 1945 al 1990, hanno iniziato a crescere negli anni ´90 dallo 0,1% delle riserve correnti allo 0,5%, per poi assestarsi su tale valore percentuale nell´ultimo decennio. Ecco a che cosa allude quel criptico cenno del Comunicato al flusso storico di dividendi pagati e della sua evoluzione nel tempo! I “regali alle banche” sono in atto da vent´anni, pur in piena osservanza dei limiti statutari.
In quanto il “capitale in senso stretto” dei partecipanti consiste esclusivamente nel desiderio della BdI di elargire loro delle somme che, come ben spiega il Comunicato, dovrebbero essere trasferite al Tesoro, o alimentare le riserve, questi flussi potrebbero ben essere considerati “aiuti di Stato” alle banche partecipanti. Ma gli aiuti sono vietati dalle leggi sulla concorrenza. Bisognava trovare un modo per aggirare il divieto.
Non è facile appurare che cosa abbia indotto i Governatori C.A. Ciampi, Antonio Fazio, Mario Draghi, a realizzare negli ultimi due decenni il progressivo ripristino dei diritti dei soci fondatori della BdI, rendendoli beneficiari di una munificenza a carico della collettività tanto ampia quanto ingiustificata. Certo all´attuale Governatore Ignazio Visco, e al fido Ministro Saccomanni, alla ricerca di un espediente qualsiasi per iniettare un po’ di capitale nelle banche, non deve essere sembrato vero trovare un appiglio cosi plausibile per poter procedere a una sostanziosa “rivalutazione del capitale” conferito alla BdI. Gli economisti che hanno parlato con la consueta loro gravita’ dell´arduo problema di valutarlo hanno forse involontariamente contribuito alla riuscita dell´escamotage. Solo parziale del resto. I tedeschi non si sono convinti, la Bce solo un po’ di più. L´incombente stress test dovra’ essere affrontato senza tener conto della pretesa rivalutazione, e neppure ai fini dei requisiti di patrimonializzazione se ne potra’ tener conto nell´anno in corso. Neppure le teste forti della BdI sono convinte, parrebbe, che la furbizia non paga.
Riferimenti
Banca d´Italia, Comunicato: “Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5”, emesso il 3 Febbraio 2014.
Boldrin, Bisin, Moro, “Le quote di Bankitalia: la solita porcata”, sul sito Noise from America, 30 Gennaio 2014.
Francesco Lippi, “Le quote di Bankitalia: un approfondimento”, Noise from America, 7 Febbraio 2014.
Maurizio Sgroi, “Bankitalia, la Bce e la freccia di Apollo”, nel sito www.formiche.net, 14 Gennaio 2014.
Metto a disposizione qualche elemento di contestualizzazione in più del problema dei cosiddetti aiuti di Stato al sistema del credito, tratto dalla Relazione annuale Consob del 2012, consultabile in formato Pdf a questo indirizzo.
A p. 116, infatti, si trovano due grafici molto eloquenti. Il tema è quello dell’incidenza, in rapida crescita in particolare a partire dal 2000, del sistema bancario sull’economia nei principali Paesi europei. E insieme degli aiuti pubblici forniti allo stesso sistema. L’Italia, dal punto di vista delle ricapitalizzazioni delle banche, è fanalino di coda: 6 miliardi di euro contro i 25 della Francia, i 47 della Germania, i 54 della Spagna, i 115 del Regno Unito (che ha proceduto in alcuni casi a vere e proprie nazionalizzazioni).
Si legge a commento dei grafici nella relazione:
«La stretta interconnessione tra banche ed emittenti sovrani ha continuato a condizionare, anche nel corso del 2012, l’evoluzione della congiuntura nei paesi europei e il dibattito sulle misure di policy idonee ad attenuare il legame tra rischio sovrano e rischio bancario. Tale interconnessione è stata alimentata dalla significativa crescita delle dimensioni del sistema bancario registrata, a partire dai primi anni 2000, nei principali paesi europei (Francia, Regno Unito e, in misura meno marcata, Germania, Spagna e Italia … ).
In termini assoluti il Regno Unito presenta il più grande sistema bancario per totale attivo (9.552 miliardi di euro a fine dicembre 2012), seguito da Francia e Germania (più di 8.000 miliardi); Italia e Spagna si caratterizzano, invece, per un sistema bancario dalle dimensioni più contenute (rispettivamente 4.220 e 3.582 miliardi a dicembre 2012). Nel periodo 2001-2012 le dimensioni del sistema bancario, in termini di totale attivo, sono più che raddoppiate in Spagna e Italia (rispettivamente, +177 e +125 per cento); seguono Francia (+99 per cento), Regno Unito (+62 per cento) e Germania (+31 per cento).
Il Regno Unito e la Francia si connotano anche per il maggior peso del settore bancario sull’economia, con attivi bancari che a fine 2012 equivalgono, rispettivamente, a 5 e a 4 volte il Pil domestico; per l’Italia il dato rappresenta il valore più basso tra i paesi considerati attestandosi a 2,7 volte il Pil.
All’aumentare del peso del sistema bancario nell’economia cresce di pari passo l’incentivo dello Stato a sostenere gli istituti creditizi in difficoltà. In ambito europeo, in particolare, a partire dal 2007 sono stati realizzati numerosi interventi a favore del settore bancario, talvolta sotto forma di ricapitalizzazioni (poi sfociate in nazionalizzazioni) degli istituti di credito coinvolti, più spesso sotto forma di garanzie statali sulle passività bancarie; queste ultime, pur non comportando un reale esborso di denaro, hanno fatto sorgere consistenti passività potenziali a carico dei bilanci pubblici. Gli interventi di salvataggio delle banche attuati nei principali paesi europei si sono connotati per dimensioni e forme tecniche differenti. In particolare il Regno Unito è intervenuto nel salvataggio di numerose banche e, in due casi, ha nazionalizzato l’istituto coinvolto; gli interventi di ricapitalizzazione hanno superato i 100 miliardi di euro, mentre le garanzie sulle passività sono state superiori a 1.000 miliardi. Anche in Germania gli aiuti pubblici alle banche sono stati di ammontare considerevole, sia sotto forma di garanzie sulle passività bancarie sia sotto forma di sottoscrizione di azioni o titoli subordinati (oltre 370 miliardi di euro di garanzie e circa 47 di capitale). In Spagna il più consistente intervento di ricapitalizzazione ha coinvolto il fondo europeo di salvataggio (EFSF), che nel 2012 ha erogato un prestito allo Stato di oltre 30 miliardi di euro; tale somma costituisce la prima tranche dei 100 miliardi di aiuti concessi dall’Unione Europea al Paese per la ricapitalizzazione e la ristrutturazione del sistema bancario domestico. In Italia, invece, il sistema bancario non è stato assistito da significativi interventi di sostegno pubblico sino alla fine del 2011. Lo Stato si è limitato, infatti, a sottoscrivere obbligazioni subordinate, per un ammontare complessivo di poco più di 4 miliardi di euro, emesse da quattro banche, a fronte dell’impegno degli istituti emittenti a non ridurre il credito erogato all’economia reale. Le maggiori difficoltà per le banche italiane sono state determinate, invece, dalla crisi del debito sovrano che, acuitasi dalla metà del 2011, ha provocato un deterioramento degli attivi bancari a causa dei consistenti investimenti diretti degli istituti di credito in titoli pubblici domestici. L’intervento dello Stato, in tal caso, ha preso la forma di garanzia pubblica sulle obbligazioni emesse dalle banche (per un ammontare di circa 120 miliardi) con l’obiettivo di alleviarne le difficoltà di provvista attraverso la riduzione del costo della raccolta obbligazionaria e l’accesso alle operazioni di rifinanziamento presso la BCE garantite dagli stessi titoli obbligazionari».
Aggiungo altre tre recenti notizie importanti per ricostruire la cornice di questo discorso degli aiuti di Stato alle banche, che altrimenti rischia di divenire parziale e soprattutto di oscurare la rilevanza della posta in gioco.
La prima riguarda lo specifico e principale problema di bilancio delle banche italiane, differente rispetto a quello di altre banche. È quello dei crediti “a rischio” insolvenza, ovvero, dei finanziamenti a soggetti che, anche e soprattutto in ragione della crisi, rischiano di non riuscire a onorare i propri impegni. I crediti “a rischio” insolvenza, infatti, sono in percentuale circa il doppio della media di quelli delle altre banche europee. E questo rappresenta un ostacolo evidente alla possibilità di tornare a erogare credito a famiglie e imprese. È il tallone d’Achille del nostro sistema del credito, che se non altro, diversamente per esempio da banche francesi o tedesche, s’è invece tenuto alla larga da derivati e simili, più direttamente investiti dalla crisi innescata dai mutui subprime.
Banche Italia, crediti dubbi saliti a 8,7% a fine 2012 – Mediobanca
I crediti dubbi fanno “soffrire” i banchieri italiani
La seconda riguarda i piani per la creazione, anche con l’intervento di private equity fund stranieri, Bad Bank per alleggerire parzialmente dai crediti “a rischio” insolvenza i bilanci delle nostre banche, in particolare delle due principali partecipanti, almeno fino all’approvazione del decreto, di Banca d’Italia: Imi San Paolo e Unicredit.
Due veicoli per la bad bank di Intesa Sanpaolo, Unicredit e Kkr
La terza riguarda il ricorso della Corte costituzionale tedesca contro l’acquisto da parte della Bce dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, che ha consentito nel 2011 di evitare il default italiano.
Bce, acquisto di titoli di Stato per i paesi in difficoltà. I tedeschi ricorrono alla Corte di giustizia europea
Nel panorama dei commenti suscitati dalla conversione in legge del decreto 133 del 30.11.2013 (IMU-Banca d’Italia), fitti di suggestioni, imprecisioni e di interpretazioni, il contributo di Giacomo Costa espone con cristallina precisione i problemi connessi all’ aumento del valore del capitale della BdI dai 150000 ai 7,5miliardi di euro. Lo stimolo a intervenire è duplice: precisare meglio l’ origine dell’ attuale distribuzione presso i gruppi bancari delle quote del capitale. Un aspetto importante alla luce (secondo motivo) di una possibile revisione del neonato decreto che, a mio avviso, eliminerebbe alla radice le (altrimenti insolubili) contraddizioni evidenziate da Giacomo Costa. I gruppi Intesa San Paolo e Unicredit rispettivamente titolari del 30% e 22% delle quote non le hanno ereditate solo o prevalentemente dalla Banca Commerciale e dal Credito Italiano; una quota ben consistente viene loro dall’ aver assorbito le quote del Banco di Napoli (primo azionista di BdI con oltre il 10%) e del Banco di Sicilia. Il che rileva alla luce del suggerimento che intendo qui proporre e che, perr capirne la ratio, necessita di un minimo di rivisitazione di una storia recentissima che si tende disinvoltamente a dimenticare. Fino al 1990 le banche che partecipavano al capitale della Banca d’Italia erano enti di diritto pubblico (Istituti di Credito di Diritto Pubblico) o a partecipazione statale (Banche di Interesse Nazionale) o di un “pubblico locale” come le Casse di Risparmio. La legge bancaria nel periodo 1936-1938 aveva infatti assegnato le quote espropriate alle Casse di Risparmio a queste banche e a istituti italiani di previdenza e di assicurazione. Nel fare ciò il legislatore si preoccupò di assicurare un’equa ripartizione territoriale di questi diritti (anche perché sia Banco di Napoli, sia Banco di Sicilia erano state, fino al 1926, banche di emissione). La saggezza di Beneduce (poi disattesa in tempi moderni) si ispirò al modello federale statunitense. Veniamo all’oggi. Come noto, la legge 245 del 1990 (la Amato-Carli), al fine di privatizzare la “foresta pietrificata”, ha previsto che le banche pubbliche (Enti conferenti) fossero incentivate (si fa per dire) a creare delle S.p.A. di diritto privato (Enti conferitari) alle quali gli Enti conferenti hanno trasferito attività patrimoniali (adeguatamente rivalutate) e le attività commerciali (cioè la gestione del credito, ecc.) tenendo per sé le azioni delle S.p.A. Le attuali banche s.p.a. sono perciò molto giovani, sono molto antiche le cosiddette Fondazioni cioè il loro “azionista paziente”. L’attività degli Enti conferenti (da allora dette appunto Fondazioni di matrice bancaria (FoB)) a norma di legge ha per esclusivo oggetto interventi socialmente utili in settori rilevanti. Esse sono sottoposte alla vigilanza di un’autorità che provvisoriamente fu identificata nel Tesoro, ed ancora è così. Veniamo ora alle quote del capitale della BdI. Esse furono (improvvidamente) conferite all’Ente conferitario, cioè alle S.p.A di diritto privato, per un valore simbolico che in qualche caso è stato anche rivalutato con criteri sostanzialmente arbitrari dalle fortunate conferitarie. È allora che si è creata l’assurda situazione di banche private vigilate dalla Banca centrale che sono anche azioniste proprietarie della stessa BdI. Questa assurdità si è accentuata via, via con il progredire della concentrazione delle banche S.p.A. Se le FoB avessero trattenuto le partecipazioni originarie, questi enti – non abilitati a operare sul mercato del credito, di natura privata con autonomia statutaria e vigilati dal Tesoro – non porrebbero alcun problema di conflitto vigilato-vigilante. Nè la “rivalutazione“ del capitale di BdI e la sua attribuzione darebbe luogo a reciminazioni visto il compito sociale e strettamente vigilato della loro attività come operating e/o grant making Foundations. Anche l’obbligo di realizzare il valore eccedente il 3% del capitale non farebbe che consolidare un patrimonio (che è delle comunità di riferimento) i cui frutti vanno obbligatoriamente ed esclusivamente a fini sociali. Né ci sarebbe bisogno di argomentare in modo così contorto per giustificare la distribuzione del famoso “dividendo massimo” (420 milioni euro per anno) visto che non si configurerebbe alcuna privatizzazione del signoraggio. Se infatti è certo che la natura dei 420 milioni distribuisce proventi da signoraggio, “bene pubblico” per eccellenza, ciò avverrebbe per il perseguimento di fini sociali, a sostegno di quel “privato sociale” strettamente vigilato da autorità a ciò delegate. Insomma l’ esortazione a “rifarsi alla Storia” sembra molto opportuna sia per i contenuti che per lo stile al quale gli autorevolissimi protagonisti dovrebbero porre massima attenzione. Non ci vuole molto a trovare il bandolo della matassa che si è (volutamente?) ingarbugliata dal 1990 per un banale “errore” iniziale correggendo il quale è possibile dare soluzione al problema del capitale e della partecipazione alla Banca Centrale. Ammesso (e, ora più che mai, non concesso) che questo sia l’ obiettivo del decreto. Non solo, il recupero della storia consentirebbe anche – pur tardivamente e, come al solito in Italia, del tutto preterintenzionalmente – di riparare a qualche tremendo e sistematico scempio territoriale prodotto dal processo di concentrazione degli Enti conferitari. Più che del ricorso rituale agli esperti internazionali, ci vuole un’attenta ricostruzione giuridica per realizzare questo tardivo “recupero”. L’Europa non potrebbe obiettare, mentre la soluzione oggi adottata (con tutta la benevolenza che la BCE potrà esprimere) configura come consistente aiuto di Stato alle banche e (ciò che è più grave) una parziale ma sistematica, del tutto illegittima e permanente privatizzazione di un bene pubblico come i proventi da signoraggio. Si dirà che chi è senza peccato scagli la prima pietra (come funziona ad esempio la Federal Reserve?) ma una “illegalità” non per questo ne giustifica un’altra.
Dunque se ho capito bene l’argomentazione, il regalo andrebbe fatto alle Fondazioni bancarie, non alle banche. Con buona pace di tutte le argomentazioni del prof. Costa e della legge Ciampi, che voleva le Fondazioni fuori dalle banche. Un argomento non proprio disinteressato.
Con il suo candido commento-al-commento Orestino Repente (O.P.) precipita nel mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie con tanto di Humpty Dumpty vestito da Ciampi. Ricordiamo che il fatto di cui si parla è la ferrea volontà del controllore di fare un regalo (e che regalo!) ai controllati. Il veicolo delle Fondazioni bancarie (FoB) ha il magico potere di troncare alla radice il rapporto vigilante-vigilati e restituire alla Comunità (territori e contribuenti) la titolarità (capitale) e il frutto (dividendi) di cotanta generosa munificenza sul signoraggio (un “bene comune” come si dice oggi). È troppo cinico ricordare che la soluzione andrebbe benissimo anche alle banche? E interrogarsi su chi mai finanzia il tanto celebrato “privato sociale” o il nuovo welfare comunitario del quale andiamo così fieri?
Posso chiedere, premetto da assoluto inesperto, perché se anche alle banche andrebbe benissimo trasferire alle Fondazioni bancarie quote rivalutate di Bankitalia e conseguenti proventi di signoraggio, non accade? E anzi nessuno ne parla mai? Inoltre, a quanto ammonta il contributo economico che le Fondazioni bancarie apportano al privato sociale e al welfare? Infine, un’ultima domanda: perché le Fondazioni bancarie, essendo comunque private, dovrebbero essere più affidabili per i cittadini delle banche? Una Spa non è tenuta a maggior trasparenza di una Fondazione? Per esempio per la pubblicità che deve per legge sia sui soci sia sui bilanci e che l’assoggettano a vari organisimi di controllo? Non mi pare che qualcuno, anche tra i critici (seri) della rivalutazione delle quote, abbia messo mai in discussione l’indipendenza di Bankitalia dalle banche partecipanti al suo capitale, ovvero, la presunta commistione tra controllore e controllati.