«Questa nostra barbarie dobbiamo
rifiutarla dentro di noi»
(Etty Hillesum, 15 marzo 1941)
Cara Roberta,
anni fa avemmo un vivace scambio, come non di rado ci accade. Fu in occasione dell’iniziativa di pubblicare sul nostro blog un Appello in difesa della Costituzione, minacciata da un’iniziativa unilaterale del governo presieduto dall’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Tu volevi assolutamente la pubblicazione dell’Appello, io avevo qualche perplessità.
Le mie obiezioni, tuttavia, furono di metodo, non di merito. Ritenevo infatti che il procurato e reiterato pubblico allarme di un’intellettuale, o di un gruppo di intellettuali, come quelli che allora aderirono a quell’iniziativa, potesse col tempo indebolirne l’efficacia, minarne l’autorevolezza, che in una società della ipercomunicazione si coltiva anche con la parsimonia nel prendere posizione.
Quell’episodio mi è tornato alla mente in questi giorni, che vedono l’Italia discutere in modo così caotico e scomposto attorno alla proposta di riforma elettorale uscita dall’incontro tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi nella sede nazionale del Partito Democratico, in via del Nazareno.
Non ci siamo mai davvero confrontati in proposito. Certo perché entrambi molto occupati. Ma forse anche perché consapevoli di non dare lo stesso giudizio su quel passaggio, che per quel che ho intuito dalle tue prese di posizione hai giudicato scellerato tanto quanto io ho l’ho ritenuto “necessario” se non addirittura “auspicabile”. Mi chiedo allora che cosa sia intercorso, in questi anni, per far sì che due persone che allora concordavano su quell’Appello, si trovino oggi su posizioni così distanti e inconciliabili.
Ho provato a cercare una risposta.
Per quanto mi riguarda, non ritengo di avere abdicato moralmente ad alcunché, se ritengo giusto accordarmi con il mio principale avversario politico su un’ipotesi di legge elettorale, nella speranza che, con il contributo costruttivo del maggior numero possibile delle forze in Parlamento, si vari una riforma decente che garantisca che in futuro non si ripresenti alcun governo di larghe intese così come è stato concepito, come un compromesso al ribasso su qualunque cosa.
Non è, quindi, in omaggio a un’idea della politica come mero rapporto di forze, la cui giustezza si misuri esclusivamente secondo il metro consequenzialista del risultato, che sostengo l’iniziativa di Renzi. Non dico che qualcuno, o magari molti, non possano intendere la questione in questi termini. Dico che io non la intendo così, e non credo di essere il solo. E per la semplice ragione che non è affatto necessario intenderla così.
La ragione di fondo per cui spero che l’iniziativa di Renzi e Berlusconi abbia successo, infatti, è che ho deciso – e non da oggi – di liberarmi dalla rabbia e dalla paura, ovvero, di tornare libero.
Non si tratta, quindi, di un gesto che sacrifica l’etica alla politica, la razionalità alla realtà, il diritto alla forza, il visibile all’invisibile, come pure ho letto. Al contrario, esso rappresenta il più radicale e fecondo tra gli atti che la sfera etica ci mette a disposizione. Lontano dal quale la politica diventa esattamente quella cosa che tu per prima hai sempre rigettato e ancora spero rigetti: contesa di forze, trionfo della parola che disumanizza, che si fa livida caricatura delle persone e delle tesi avversarie, scomunica, anatema, iperbole retorica che accende le passioni e propaganda illusioni di fuga o di palingenesi, convinta, nell’ebbra follia che le ossessioni a lungo coltivate procurano, di potersi sollevare dalla responsabilità in merito agli esiti delle proprie scelte, diretti o collaterali.
Personalmente, ripongo pochissima fiducia nella capacità di questo Parlamento, eticamente così scarsamente attrezzato, di compiere questo gesto liberatorio, accettando davvero, e non con il palese o malcelato desiderio di farla fallire, oppure di non farla fallire solo nella speranza di approfittarne in qualche modo, la sfida di ridefinire tutti nuove e funzionanti regole per competere politicamente. Fossi un consequenzialista radicale, quindi, forse mi schiererei al tuo fianco.
Quello che voglio, invece, è tornare a sperare. E solamente tornando libero posso farlo.
Intendiamoci: quando parlo di liberarmi dalla rabbia e dalla paura, di restituire a me stesso e a chi ho intorno la speranza, non intendo affatto “sperare” nel senso di confidare nel fatto che anche Berlusconi, l’apparato di forze e l’organizzazione che lo sostiene, l’elettorato che non l’abbandona, abbia necessariamente anch’esso in cuor suo qualcosa di buono, quasi che il lievito di una riforma congiunta potesse finalmente far sì che affiorasse. Quando uso la parola “sperare” la intendo nel senso di tornare a confidare in me stesso, a essere me stesso e a credere nella possibilità di essere giudicato, con la mia parte politica, migliore, più credibile, affidabile, convincente in una competizione elettorale giocata con regole dotate dei minimi requisiti di affidabilità democratica, di cui allo stato attuale siamo privi e che un sistema proporzionale puro garantirebbe ancor meno.
La mia generazione ha vissuto la propria giovinezza incubata nello splendore effimero ed equivoco dei “meravigliosi” anni Ottanta. Eravamo alle scuole elementari quando le Br uccisero Aldo Moro. Frequentavamo le medie quando una bomba fascista fece strage a Bologna. Terminavamo l’Università quando la mafia uccideva Falcone e Borsellino. Eravamo da poco approdati alla maturità quando al G8 una polizia coperta fece strage di partecipazione democratica e di intelligenza del futuro. Noi la rabbia e la paura l’abbiamo bevuta per trent’anni, ogni giorno. Ora molti di noi hanno figli, un lavoro sempre più incerto, un futuro da ripensare da principio. Non possiamo più permetterci di avere paura. Berlusconi è il nostro avversario, l’Italia che non vogliamo. Ma non lo temiamo. E della rabbia che abbiamo alimentato in noi ci vogliamo liberare.
La verità va detta. Se qualcun altro in Parlamento fosse stato altrettanto libero, libero dalla rabbia, dalla paura, dalla ridicola, indimostrata e indimostrabile pretesa di rappresentare la sola opportunità di catarsi di questo Paese, non ci sarebbe stato alcun “scandaloso” accordo del Nazareno. Ma così, purtroppo, non è stato. Su quest’intesa, tuttavia, chi è intellettualmente onesto, sa che si può convergere, che una legge decente si può fare: decente perché capace di dare a ciascuno la ragionevole occasione di rappresentanza per essere poi misurato per quello che dice e fa.
Non ci nascondiamo i problemi. Bene fanno, se onesti, quanti ricordano che il conflitto d’interessi è un problema che va affrontato, anche se sarebbe puerile circoscriverlo al solo Berlusconi. Bene fanno coloro che dichiarano di temere che questa intesa restituisca a Berlusconi lo spazio di gioco per tentare di nuovo di risolvere politicamente i suoi processi. E bene fanno coloro che ricordano i rischi di restituire legittimità morale e politica a un condannato in un Paese che tra i suoi più gravi e radicati limiti ha esattamente il degrado di qualunque etica pubblica. Non sono i soli a temerlo. E tuttavia, la ragione per la quale, io credo, molti ritengano non solo non disonorevole e inevitabile ma meritoria questa intesa, è che non solo accettano ma desiderano di poter correre questi rischi, convinti che la rabbia e la paura coltivata per Berlusconi si siano ormai rivelate come il suo principale alleato nell’alimentare ogni sorta di deriva di civiltà del nostro Paese.
In etica, l’anticonsequenzalismo radicale non è meno immorale del consequenzialismo radicale. Anzi, l’uno è l’anticamera dell’altro, prospera nell’ombra dell’altro. Non sono questi i discrimini: il diritto contro la forza, la razionalità contro la realtà, il visibile contro l’invisibile. A separarci è la voglia di tornare liberi: di vivere, di sperare, di fare. La certezza che, per quanto stretto, insidioso e difficile sia il sentiero, questo è il nostro sentiero. Ed è ora di affrontarlo.
Con affetto.
Stefano
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Caro Stefano,
vorrei soltanto chiederti di leggere questo comunicato di Libertà e giustizia, perché ho avuto l’impressione che nella lettera dai di me un’immagine che non corrisponde veramente – questa volta – a quello che ho detto.
Ecco qui il sito:
http://www.libertaegiustizia.it/2014/01/21/renzi-e-berlusconi-dove-volete-arrivare/
La questione per me non era affatto quella dell’accordo: con chi accordarsi per una una legge elettorale se non con un avversario? Le mie domande riguardavano solo questo: fino a che punto deve essere giudicato “normale” che nemmeno una sentenza definitiva tolga a qualcuno lo stato di “avversario”? Fino a che punto i voti rendono un cittadino diseguale di fronte alla legge penale?
E se mi si risponde “e con chi doveva parlare”, io direi: ma con i capogruppi parlamentari del suo partito, ovviamente! E con chi se no? O un parlamento a tal punto non serve a nulla? E io perché dovrei accettare senza aprir bocca e senza batter ciglio questa totale delegittimazione? Del resto a me sarebbe bastato questo omaggio almeno formale alla -diciamo – residua maestà della giustizia (penale). Se tu vuoi chiamare questo rabbia o paura, sei libero di farlo. Io questi sentimenti non sono consapevole di provarli, e non credo di ingannare me stessa.
Ti riporto qua sotto invece un commento piuttosto percettivo che ho ricevuto. Prescindo dalle lodi: mi sembra che il signore abbia colto (potesse esserti utile in qualche più precisa formulazione) il senso esatto di una reazione che non è solo la mia, ma quella di molte molte altre persone.
“La tragedia dell’Italia non si chiama B si chiama viltà, miseria, ignavia di tutti gli altri, con qualche esclusione tra cui lei. Che lo fa molto stile.
Per esempio l’appariscente Severgnini che aveva di fronte ieri, ha detto una cosa da abbattere un mammouth: “l’Italia non è un Paese normale”. Come dire che si possono usare logiche diverse da quelle corrette per parlarne. E non invece dire: come facciamo a farla divenire un Paese normale!! Quindi metto anche lui tra i pusillanimi/ignavi. “
Cara Roberta,
ho letto il comunicato, ho visto Ballarò, venendo meno al voto di non seguire più talk show, neppure in differita. Altrimenti non ti avrei scritto questa lettera.
Scrivi: «La questione per me non era affatto quella dell’accordo: con chi accordarsi per una legge elettorale se non con un avversario? Le mie domande riguardavano solo questo: fino a che punto deve essere giudicato “normale” che nemmeno una sentenza definitiva tolga a qualcuno lo stato di “avversario”? Fino a che punto i voti rendono un cittadino diseguale di fronte alla legge penale?»
Questa dichiarazione dice molte cose. Oltre l’avversario, Roberta, c’è il nemico. Non bisogna avere pudore nell’uso delle parole, in certi casi. Quindi noi decidiamo che un terzo degli italiani che, pur sapendo che Berlusconi non è eleggibile gli riconoscono il diritto – che anche la legge non gli preclude – di guidare una formazione politica, sono dei “non avversari”. Ci lamentiamo della scarsa rappresentatività democratica di una proposta di legge elettorale maggioritaria, ma ci prendiamo la libertà di misconoscere come avversari politici un terzo degli italiani. Qualche cosa decisamente non va in questo ragionamento, no?
Dove credi possa portare questa logica? Non c’è alcun bisogno di ritenere “normale” questa situazione per preferire un accordo sulla legge elettorale anziché no. È semmai la constatazione della sua “non normalità” a spingerci. Tutti temiamo le conseguenze sul piano etico e politico di questo accordo, il rischio che faccia, per così dire, “giurisprudenza” negativa nel comune sentire.
Il punto è che a te questo timore basta per sapere da che parte stare. Ad altri invece no.
Libertà e giustizia, nel comunicato, persegue la sua linea. Che a mio giudizio cade perfettamente al cuore della fattispecie che contesto, ovvero, di coloro che arrivano all’estremo tattiscismo consequenzialista di avversare ogni ipotesi di sistema maggioritario (non vedo proposte di L&G neppure vagamente percorribili né sulla soglia del premio, né sugli sbarramenti) pur sapendo che il proporzionale ci consegnerebbe alla cancrena istituzionale e politica; di brandire la retorica delle preferenze, benché sappiano (si spera) che tale logica è sempre stata in Italia il cuore della corruzione politica di questo Paese e del suo costo esorbitante (non vedo proposte su un’eventuale riduzione del listino, o quantomeno sul collegio uninominale); tacciono, per quanto attiene alla trasformazione del Senato in camera delle autonomie, il fatto che esso rappresenta la perfetta e da anni sospirata esecuzione del dettato costituzionale; insinuano, senza citare né adombrare fonti, tacite trattative su una presunta elezione diretta del capo dello Stato di cui finora nessuno ha mai parlato; fingono di ignorare che per mesi questo Parlamento ha in tutti i modi ingabbiato ogni ipotesi di riforma elettorale proprio al fine di mantenere nelle mani delle più corrive logiche partitocratiche e correntiste la politica italiana, e che la proposta tripartita di Renzi, rivolta a tutto l’arco parlamentare, non è avvenuta in alcuna segreta stanza, semmai, disgraziatamente, non è stata accolta da nessuno tranne che da Berlusconi. Ma anziché prendersela con chi riduce all’impotenza ogni alternativa politica alla cancrena del Paese, non fa che agitare lo spettro del “pericolo” berlusconiano, della “riabilitazione” berlusconiana, della “inaffidabilità” berlusconiana, del”fantasma” berlusconiano del presidenzialismo, del compromesso che seguirà a compromesso e fino a che punto (“dove volete arrivare?”).
E questo non tradirebbe risentimento e paura?
Il tutto con l’esito consequenzialista cui si condanna spesso l’etica delle convinzioni più radicale, per cui, pur di screditare un accordo “in sé inammissibile” con Berlusconi, ci si avvale di mezze verità se non addirittura di menzogne: sul rischio antidemocratico della proposta elettorale sul tavolo (come se soglie di sbarramento o sistemi maggioritari fossero un pericolo per la democrazia), sulla piena legittimità democratica del metodo seguito (come se non ci fosse stata un’elezione di un segretario attraverso le primarie e un voto di una Direzione di partito a legittimare la proposta), sulla percorribilità di altre strade (i famosi capigruppo del Parlamento… come se Renzi non avesse pubblicamente offerto un terreno di trattativa alle altre forze politiche e non avesse sondato con tutte la altre forze politiche le possibilità di un percorso di riforma), sulla minaccia rappresentata dal non ripristino delle preferenze, dimenticandosi di che cosa fu il referendum del 1991/93, il senso dell’uninominale o del listino plurinominale breve, che non consegnano affatto “alle segreterie dei partiti” alcunché se non la piena e trasparente responsabilità delle scelte che compiono di fronte agli elettori, scelte che in particolare nel partito democratico passerebbero attraverso le primarie: era forse espressione delle segreterie Pisapia? O Vendola? O lo stesso Renzi? Sono impressionato dal livello di capziosità e fumosità di questi argomenti. E siccome non dubito della tua buona fede né della tua logica, non posso che concludere che tu, come tanti, siate semplicemente prigionieri di un’ossessione, non siate più persone interiormente libere.
Non è attraverso l’introspezione che va cercata la rabbia, la paura, la sfiducia che divora tanti, ma nella pochezza degli argomenti, nel linguaggio opaco e obliquo, disponibile sempre e soltanto a cogliere un aspetto della realtà, quello che più conviene alla Grande Causa: emendare dal “non avversario” Berlusconi, e immagino anche dal “non avversario” elettorato che ancora lo vota, questo Paese. Comincio a temere che una volta al potere certi irriducibili “non avversari” di Berlusconi non sarebbero molto migliori di lui, sinceramente.
La e-mail che mi hai segnalato, che definisce la fragile e insidiosa prospettiva politica aperta da Renzi il frutto di “viltà, miseria, ignavia” la rispedisco al mittente.
Vile, misero, ignavo è chi a forza di guardarsi allo specchio ha preso se stesso per la verità, sentendosi esonerato dalla responsabilità di offrire una qualche prospettiva. Calamandrei diceva che le democrazie muoiono non per le loro decisioni, ma per le loro “non decisioni”. Walter Veltroni lo ha citato alla Direzione nazionale del Pd. E ha fatto bene. Vile, misero, ignavo è chi è indifferente, nel senso etimologico di chi è divenuto ormai incapace di cogliere le differenze e riconoscere le ragioni degli altri e i limiti delle proprie.
Non ritualmente. Ma per agire di conseguenza.
Non c’è catarsi possibile senza questa capacità, che risentimento e paura invece annientano.
Bisognerebbe sempre rileggere Etty Hillesum.
Gustavo Zagrebelsky aveva, nella riunione della presidenza di Libertà e Giustizia in seguito a cui fu redatto quel documento,esposto da par suo il degrado terribile cui è ridotta l’attività parlamentare, in particolare legislativa, in Italia. E sarà il caso di riparlarne. Ma ora lascerei a chi fosse interessato a questo scambio di esprimere la sua opinione: non è più la mia che conta, certamente, e del resto ci sarà tempo di rimettere ogni cosa a fuoco con calma. Tuttavia nello spirito del documento citato di Libertà e giustizia vorrei segnalare questo articolo di Nadia Urbinati, che mi sembra fare chiarezza su un punto tanto fondamentale quanto impopolare – a proposito di riduzione della norma alla forza, delle idee ai fatti. Siccome non so come rinviare a quello, lo incollo nel prossimo post.
La democrazia non si taglia
di Nadia Urbinati • 23-Gen-14
Tagliare gli sprechi, non la democrazia
«Via i Senatori, un miliardo di tagli alla politica». Con questo argomento Renzi giustifica la sua proposta di riforme costituzionali a complemento della riforma elettorale; per entrambe scopre di avere una «profonda sintonia» con l’ex senatore Berlusconi. Alle critiche rivolte da più parti per l’incontro che ha messo in luce questa sintonia, vorrei proporne un’altra sull’argomento che motiva la riforma. L’argomentazione è pessima perché le istituzioni si dovrebbero riformare per ragioni politiche, non perché sono costose. La democrazia non è costosa: essa esiste o non esiste.
E per esistere, poiché coloro che praticano la democrazia sono ordinari cittadini che vivono del loro lavoro, deve mettere in conto di usare i soldi pubblici per far fronte alle sue spese di funzionamento. La politica è un bene pubblico che si autoalimenta con i soldi dei suoi cittadini. Non c’è spreco in questo. Se ci sono sprechi (e ce ne sono certamente), questi devono essere cancellati, eliminando i comportamenti inutili o male organizzati non «tagliando la politica».
Il Senato non è uno spreco e non è rubricabile tra le spese da eliminare, neppure da parte dei riformatori, se è vero che verrebbe più che eliminato, sostituito con un diverso Senato. Se lo si cambia non può essere quindi perché costa troppo. Dunque, eliminarlo perché? E sostituirlo con che cosa?
Circola nei media l’idea (con pochi argomenti ragionevoli e nessun contro argomento) che il bicameralismo sia un orpello ereditato dal passato, dal liberalismo ottocentesco che lo ha desunto dalla tradizione anglosassone, la quale fece con esso la sua battaglia contro i rischi di nuova tirannia della maggioranza parlamentare. Il bicameralismo è nato con lo scopo di limitare il potere elettivo mediante la lentezza, contro l’argomento sofistico dell’emergenza e della velocità decisionale (lasciateci governare, diceva Berlusconi quando era a Palazzo Chigi).
A leggere le note in favore dell’abbandono del bicameralismo sembra di essere tornati sulle barricate giacobine, se non che a proporlo oggi sono tutt’altro che radicali o comunisti: semmai sono leader plebiscitari che vogliono rafforzare il potere dell’esecutivo sfoltendo sia le assemblee legislative (riduzione del numero dei parlamentari) sia il numero dei partiti rappresentati in assemblea (con un sistema elettorale che rappresenti prima di tutto la maggioranza). In sostanza, un sistema mono-assemblea con non più di 400 o 450 deputati espressione idealmente di due partiti o poco più: questa è l’ingegneria nella quale si inserisce la volontà di abolire il Senato della Repubblica. Una replica a livello nazionale del governo dei sindaci che godono di un potere simile per intensità a quello di un amministratore delegato, e nessun consiglio comunale può controllare efficacemente o fermare, perché la sua piccola opposizione può difficilmente fare da argine alla volontà della maggioranza. Il costi del Senato della Repubblica non sarebbe annullati come si è detto ma impiegati per rendere possibile un Senato delle autonomie, che non dovendo condividere con la Camera dei deputati il potere di dare e togliere la fiducia al governo, non dovrebbe né potrebbe essere formato con suffragio diretto. Il voto dei cittadini non può infatti essere all’origine di due Camere ineguali in potere; pertanto la proposta di un Senato delle autonomie si combina a quella della sua formazione per voto indiretto. Parte dei senatori deriverebbero dai Consigli regionali o dalle aree metropolitane (quando ci saranno) o da altri organi di governo dei territori. Insomma la crisi delle istituzioni democratiche – di cui lamentiamo da anni la gravità – verrebbe risolta togliendo potere diretto ai cittadini e aumentando i poteri indiretti di quei cittadini che hanno già funzioni pubbliche.
Si porta a modello la Germania che ha una camera dei Länder (Bundesrat) i cui membri non sono eletti a suffragio universale diretto ma sono esponenti dei governi dei vari Länder e inoltre vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali di cui sono parte, in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. Tuttavia, non si tiene contro del fatto la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento e non ha fatto marcia indietro dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: si può dire agli italiani di devolvere il loro potere di nomina a funzionari ed eletti locali? È il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto?
Il metodo dell’elezione indiretta ebbe successo nell’Ottocento come argine alla democrazia. Il liberale Benjamin Constant lo suggerì per questa ragione, volendo contenere l’egualitarismo che il diritto di suffragio portava con sè. La proposta si attirò prevedibilmente la critica di generare e proteggere un’oligarchia, di dar vita a una classe di notabili o di auto-referenziali, un club di cittadini con più potere. Inoltre non si può non mettere in conto un incremento di sprechi e corruzione, come mostra la storia degli Stati Uniti, i quali avevano all’origine un Senato nominato dagli Stati che divenne in pochi decenni un luogo di grandissima corruzione, traguardo per politicanti e interessi locali famelici. E così alla fine dell’Ottocento gli Stati Uniti si risolsero a restituire il potere elettivo ai cittadini per toglierlo ai potentati locali. Insomma, chi in Italia si ostina a legare questa riforma all’abbattimento dei costi della politica usa essenzialmente un argomento retorico.
Per valutare l’opportunità di riformare le istituzioni occorrerebbe avere come idea regolativa l’accountability democratica (il rendere conto a coloro che eleggono). Se il nostro scopo è di rendere il sistema delle istituzioni più, non meno, coerente con i principi democratici allora non si comprende perché dobbiamo prendere questa strada. Ecco quindi che la questione «perché ci proponiamo questa riforma» diventa cruciale, un canovaccio interpretativo delle proposte e una guida di selezione delle stesse. L’elezione indiretta del Senato non sembra essere la strada giusta. Se dobbiamo riflettere sull’accusa di autoreferenzialità rivolta alla classe (casta) politica in questi anni e che ha tante parte nei sentimenti antipolitici diffusi, allora risulta difficile da giustificare una proposta che va addirittura nella direzione di costituzionalizzare la formazione di livelli gerarchici di cittadinanza elettorale.
l’Unità 22.1.14
In merito ai rilievi di Zagrebelsky, una delle ragioni per cui è stata lanciata urbi et orbi una proposta tripartita di riforme elettorale da Renzi, è stata la constatazione dell’incapacità per non dire della noluntas del Parlamento di avviare alcunché senza una moral suasion innescata da una qualche parte politica, nel caso specifico parte del Pd. Non era bastato certo lo sciopero della fame del deputato renziano Giachetti, per intenderci. Tutto immobile. Quindi la deplorevole condizione dell’attività legislativa è un argomento a favore della strategia adottata, che non scavalca affatto il Parlamento, ma lo vincola moralmente ad assumersi davanti ai cittadini la responsabilità di rispondere: “sì”, “no”, “sì, però…”, “no, però…”. Inoltre, è un argomento a favore dell’approccio maggioritario alla riforma, sempre che uno intenda risolvere i problemi prima della fine dei tempi. Quanto all’articolo di Nadia Urbinati, sommessamente, farei notare che nessuno ritiene che il superamento del bicameralismo perfetto debba farsi esclusivamente per ragioni di risparmio. Questo è un motivo in più, se vogliamo di più facile propaganda. La ragione sta esattamente in quanto detto sopra, ovvero, la necessità di responsabilizzare una camera a legiferare in coerenza con il mandato degli elettori, l’altra, come Senato delle autonomie, a far valere le istanze locali nell’ambito di loro competenza, uscendo dal pernicioso “statalismo regionalista” in cui le sciagurate riforme degli ultimi anni ci hanno precipitato. Non vedo, poi, come al solito, un’idea, una proposta anche solo vagamente praticabile, a fronte di obiezioni di carattere “storico” (gli Stati Uniti di Constant, i Laender tedeschi ottocenteschi) che tutt’al più possono valere come eruditi corollari, non certo come argomenti, figurati se decisivi. Si enuncia sul finale il principio per cui per valutare “l’opportunità di riformare le istituzioni occorrerebbe avere come idea regolativa l’accountability democratica (il rendere conto a coloro che eleggono)”. Molto bene: è quello che si vorrebbe fare abbandonando il bicameralismo perfetto e introducendo la rappresentanza indiretta dei territori. È sbagliato? Perché non ci viene suggerito, allora, in quale direzione dovremmo muoverci? Perché il maggioritario no, lo sbarramento no, l’uninominale no, il listino breve no, il senato delle autonomie no, mentre l’unica cosa che qua e là si accetta di sostenere apertamente sono “le preferenze”, uno dei più micidiali volani del clientelismo politico mafioso e affaristico di questo Paese, già abolito da un meritorio referendum? Se si continua così diviene invincibile la sensazione che non si voglia dire davvero fino in fondo qual è il punto, ovvero, che siccome c’è di mezzo un accordo con Berlusconi, siccome questo Parlamento ha dentro troppi berlusconiani, ex berlusconiani e uomini del Pd “compromessi” con il centro destra, o di cui non ci si fida a prescindere, non meriti neppure parlare di riforma elettorale e ancor meno di riforma costituzionale. Posizione assolutamente legittima. A patto, però, che insieme ci si assuma la responsabilità del proprio vuoto di prospettiva di fronte a un’Italia imballata, impotente, politicamente e culturalmente in caduta libera. Il discredito sulla classe intellettuale che negli anni si è venuto condensando per questa tendenza a spacciare o mascherare dietro pareri “esperti” le proprie convinzioni, ha delegittimato progressivamente anche le voci più equilibrate, a partire dai costituzionalisti, una volta ascoltati con il rispetto dovuto a un sacerdote laico. È parte della deriva di civiltà da cui dobbiamo liberarci al più presto.
P.S. A riprova di quanto scritto, ecco – immancabile – il “contributo” di un gruppo di “autorevoli costituzionalisti”, sui libri di alcuni dei quali ho anche studiato:
Autorevoli costituzionalisti contro la legge elettorale
di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. “È peggio del Porcellum”:
http://www.huffingtonpost.it/2014/01/26/costituzionalisti-contro-italicum_n_4668402.html?1390735599&utm_hp_ref=italy
P.P.S. Nella Repubblica dei Soloni, il più Solone di tutti, Eugenio Scalfari, dopo molte molte righe più o meno pertinenti, ci gratifica di una proposta, che tace tuttavia sulla questione bicameralismo, per la verità decisiva nel quadro della riforma presentata. Farei notare lo scarto imbarazzante tra il titolo e la prima parte dell’articolo, dove per poco non si celebra il day after della democrazia, e le tutto sommato alquanto modeste correzioni alla proposta di legge della seconda:
«La soluzione migliore sarebbe quella di votare in collegi uninominali, innalzare la soglia prevista per ottenere il premio di maggioranza al 40 per cento, abolire la soglia del 5 per cento o abbassarla al 3, abbassando in proporzione la soglia dell’8 prevista per i partiti che si presentano da soli. Più o meno sono questi i lineamenti di una legge elettorale accettabile nell’interesse della democrazia parlamentare. Assai meglio delle preferenze che Renzi fa bene a non volere perché possono inquinare il voto in favore di clientele e mafie, come è spesso avvenuto in passato.»
http://www.repubblica.it/politica/2014/01/26/news/il_duopolio_ai_partitoni_e_il_bavaglio_ai_partitini-76943868/
Mi si perdoni. Sento il bisogno di sottoscrivere gli argomenti di Stefano. E mi spingo oltre. C’è un’anomalia italiana, una delle tante, che fa sì che una larga parte dell’elettorato si rifiuti di prendere atto che un pluricondannato per gravi reati fiscali e finanziari rappresenti un problema come capo del proprio partito. Non solo: questo partito, diciamolo, è organizzato in modo che a decidere è uno: LUI. Quando si persegue un obiettivo in politica, si devono seguire alcune regole tra cui quelle della trasparenza nel concordare eventuali decisioni da condividere con gli avversari. QUESTO è l’aspetto etico. Il resto è ideologia. Il resto è l’eterno gioco dei sentenziatori che emergono dalle nebbie dei loro comodi studi quando c’è da difendere logiche di partito o di corrente… È importante, credo, che l’intellettuale che si cimenta nel difficile ruolo di alimentare opinioni in politica tenga conto di alcune regole. Una è che deve essere consapevole che sta entrando in un ambito che non conosce e che si muove entra un sistema di regole scritte e non scritte che richiedono comunque rispetto, per il fatto che esistono e nascono in quel mondo. Certo si può chiedere di cambiarle, si può sperare di migliorarle, ma senza mai dimenticare che la politica appartiene al regno del FARE. È la vita vera, quella di cui si parla. Quella che impatta ogni giorno su milioni di cittadini che hanno bisogno di risolvere problemi reali, dell’adesso e non solo del futuro… Sono 20 anni che aspettiamo. Quello che si sta facendo è provare a far ripartire il volano inceppato delle riforme. Magari sarà l’ennesimo fallimento. Ma è ingiusto puntare a priori il dito contro ci sta provando.
Chiedo scusa se mi intrometto in un dialogo “familiare”, e alto, naturalmente. Desidero solo inserire nel contesto l’intervista alla professoressa Carlassare apparsa sul fatto quotidiano on-line, e di cui ho voluto far cenno nel mio sito, segnalandone la lettura e aggiungendo un mio breve commento. Spero che tale intervista possa essere utile o un po’ dirimente per quanto concerne qualche diversità. Riguardo a quanto ha detto la professoressa De Monticelli a Ballarò ho già avuto modo di concordare con lei, tempestivamente, con mail.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/26/italicum-carlassare-la-governabilita-e-un-artificio-per-garantire-la-conservazione-del-potere/858298/
dal titolo: Italicum, Carlassare: “Governabilità è artificio per garantire stabilità al potere”.
Ciò che afferma la professoressa Carlassare corrisponde effettivamente alle preoccupazioni di una moltitudine di persone, fra le quali non vi sono solo coloro che non votano e che ancora non vorranno votare ma anche, purtroppo, chi pur avendo votato in passato non saprebbe a chi dare ora il voto rebus sic stantibus se si considera pure che le tre liste ultimamente più votate hanno dimostrato, per un verso o per altro, di non essere in grado di assicurare soprattutto governabilità, oltre a non fornire stabilità se non di esclusivo potere dei massimi partiti, i quali – come giustamente ha fatto rilevare la costituzionalista – non rappresentano né rispecchiano, sia ideologicamente che di fatto, quanto caratterizza, invece, la politica di altre nazioni.
27 gennaio 2014
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Questo quindi è quello che popone la nostra esimia costituzionalista: «Non c’è un sistema migliore in senso assoluto. Io sono per un sistema più proporzionale e in tal senso spero che non riescano a far nulla, così funzionerebbe quel proporzionale venuto fuori dalla sentenza della Consulta sul Porcellum. In tutti gli anni della nostra Repubblica – che non erano peggiori ma molto migliori di questi, almeno fino al ventennio berlusconiano – noi abbiamo camminato con un proporzionale. Ora, non voglio fare l’elogio assoluto del proporzionale, che si può però fare corretto, magari con la soglia di sbarramento che c’è ora. Il fatto che esistano più partiti e più possibilità di scelta per i cittadini intanto fa rappresentare molte più voci e molti più interessi.». Ricapitolando: non esitono sistemi migliori in assoluto, a parole; ma uno invece sì, nei fatti. E perché? Perché era quello che avevamo quando si stava meglio, ovvero, fino a quando all’improvviso è arrivato un temporale chissà da dove e come mai che ha rovinato tutto. Il 1993 evidentemente è un anno che la nostra costituzionalista ha rimosso, con Tangentopoli e i referendum sul sistema elettroale. Proporzionale con piccolo sbarramento, quindi? Va bene. Proviamo a immaginare anche solo per un istante che cosa produrrebbe. Immaginato? Ora ditemi voi se il valore della governabilità, sulla quale s’incardina quello della responsabilità di fronte agli elettori, puè essere liquidata come una scusa in questo modo.
Il valore della governabilità? Ma la professoressa Carlassare ha detto quanto segue:
“La governabilità è una sciocchezza, perché per come viene proposta sembra mirare solo alla stabilità. Eppure la Corte Costituzionale è stata molto chiara nel dire che ciò che va ristabilita è il valore della rappresentanza. La governabilità come la intendono loro è solo il fatto che il governo non deve cadere: qualunque artificio è buono per garantire la conservazione degli esecutivi. E’ un’idea balorda perché questo non significa efficacia o efficienza dell’azione governativa. Basti pensare a come si è trascinato penosamente l’ultimo governo Berlusconi fino alla soluzione del governo tecnico di Monti: se ne andavano persone e lui ne raccattava altre, ma nel frattempo non faceva più niente, non decideva più niente, eppure rimaneva lì. Cosa vuol dire la stabilità così?”
E poi vogliamo dirla tutta: ora, purtroppo, siamo al paradosso, perché abbiamo constatato da qualche tempo che c’è stata un’inversione: non sono i piccoli partiti a bloccare tutto ma i grossi partiti!
Sempre sommessamente, vorrei far notare la circostanza per cui nel 1993 esplose Tangentopoli, detonatore del fenomeno leghista e inizio dell’insidioso cortocircuito tra media e magistratura. E che nello stesso anno gli italiani, dopo essersi espressi nel 1991 contro le criminogene preferenze, si espressero in favore di un sistema maggioritario, che vincolasse finalmente al mandato degli elettori gli eletti sottraendo la decisione politica alla estenuante, fragile e criminogena mediazione delle segreterie dei partiti. E fu l’introduzione di questo sistema alle elezioni amministrative, con la vittoria dei sindaci di centro sinistra, uno dei motivi della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Fu la governabilità, quindi, non solo, ma anche “da sinistra” del Paese, ovvero, la possibilità di reale rappresentatività del sistema, una delle molle dell’irruzione di Berlusconi nel quadro. Il famoso Mattarella (volgarmente detto Mattarellum), che prevedeva uno sbarramento al 4% per la Camera, nacque per mitigare il maggioritario con il venticinque per cento di quota proporzionale con cui si ripartivano i resti, in barba agli elettori. Visto che è il giorno della memoria, sarebbe bene ce la rinfrescassimo, perché questo discorsi sul proporzionale sono vecchi di vent’anni.
Ancora più sommessamente diciamo che è inutile menar il can per l’aia: i motivi della “discesa in campo” e via non dicendo … Penso, invero, sia il caso di aver buona memoria … Insomma lo ripeto: sto parlando dei “grossi” partiti, non di un partito, né di altro ancora.
L’avverbio “sommessamente” mal si concilia con espressioni come “menare il can per l’aia”. Su questo blog ad argomenti si replica con argomenti. Preferiremmo non si perdesse questa abitudine. Il problema politico oggi è che abbiamo un terzo del Parlamento occupato da una forza che non negozia a prescindere. Un terzo in mano a una forza che in vari modi si riconosce in un personaggio a dir poco discutibile, ma nel diritto (legale) di guidare un partito. Quanto ai “piccoli”, basta scorrere le crisi di governo di 20 anni: da Bertinotti, a Dini, a Mastella, a Di Pietro, a Casini ecc sono stati per lo più fattori d’ingovernabilità e compromesso al ribasso, e quasi sempre per motivi tutt’altro che nobili. Personalmente, sarei per uno sbarramento al 4%, che vincoli le forze politiche a fare sistema e ad assumersi la responsabilità collettiva delle decisioni. Lo puoi avere con il maggioritario o con il proporzionale. Il maggioritario, allo stato attuale, offre la possibilità di governare. Il proporzionale la esclude senza ombra di dubbio. Se si hanno argomenti per contestarlo, li si esprima. È la povertà e genericità di argomenti e controproposte se non percorribili almeno credibili, che suscita il sospetto di un’opposizione pregiudiziale e non costruttiva.
Intanto è il caso di chiarire che “menar il can per l’aia vuol dire “non venire al dunque ” o “tergiversare, temporeggiare, perdere tempo in chiacchiere o azioni diversive senza arrivare a una conclusione, o per rimandare e possibilmente evitare l’adempimento di un impegno. Riferito in particolare a un discorso, prolungarlo con argomenti inutili senza giungere alla sostanza di ciò di cui si parla (modi di dire v. Enciclopedia dell’Italiano in Treccani – o in Dizionario Corriere), per cui non si è venuto meno alla correttezza del linguaggio. Per quanto concerne la trattazione di argomenti è pleonastico che in argomento ci si entra e ci si esce: portare il discorso altrove vuol dire uscire dall’argomento posto in particolare, tanto più quanto si vuol abbondare di argomenti altri da parte di chi è convinto o vuol convincersi o vuol convincere il prossimo a pensare diversamente da come e da cosa i fatti (cioè le ragioni o le prove che si adducono proprio a sostegno degli argomenti di cui si parla (adde dizionario italiano di Aldo Gabrielli) hanno dimostrato nella realtà. Per finire, mentre c’è chi ammette che possono sbagliare in misura diversa più parti e c’è chi, diversamente, invocando un altrui pregiudizio, sembra manifestare il proprio. La prego però, ora, di non volersi ritenere offeso dai riferimenti da me utilizzati semplicemente per una “difesa” linguistica. Per gli esempi da lei menzionati la risposta era già nell’aver specificato e ribadito che tuti e dico tutti hanno in diversa misura abusato di ciò che le leggi consentono loro proprio quando non sono bene studiate prima o sono esattamente fatte per farne trarre specifici vantaggi; e che purtroppo ora sono t-u-t-t-i i partiti più votati ad essere sotto osservazione e non alcuni sì ed un altro no! Concludo: per tutto il resto vale per me quanto ha detto la costituzionalista Carlassare.
Credo sia nella possibilità di chiunque, allora, valutare chi, nel dibattito presente, a partire dall’esimia costituzionalista, «tergiversa, temporeggia, perde tempo in chiacchiere o azioni diversive senza arrivare a una conclusione, o per rimandare e possibilmente evitare l’adempimento di un impegno». E chi invece porta argomenti, magari discutibili, ma molto realistici, basati su precise serie storiche e sulla constatazione di fatti parlamentari incontestabili, dei quali non mi pare sia stata offerta prova contraria.
Caro Stefano, vorrei ritornare a quanto scritto da te, nel tuo testo iniziale, quello con l’ex aergo di Etty Hillesum: «Questa nostra barbarie dobbiamo rifiutarla dentro di noi».
Io sono molto d’accordo con Roberta sul fatto che Renzi non doveva cercare e trovare alcun accordo con Berlusconi sulla legge elettorale.
Il mio argomento è semplice: credo che Renzi non dovesse né incontrare né trattare con Berlusconi non perché io sia prigioniera di chissà quale rabbia e paura nei confronti del personaggio Berlusconi (come del resto nemmeno Roberta penso che lo sia), ti assicuro che a Berlusconi non penso mai, ho ben altro a cui pensare, e tanto meno credo si possa trattare di rabbia e paura inconsce :-); ma banalmente perché vi è una sentenza che interdisce a Berlusconi di stare in Parlamento e in generale interdisce a Berlusconi di occuparsi della “cosa pubblica”.
Tu dici: la sentenza gli impedisce di stare in parlamento non di essere a capo di un partito, d’accordo, come del resto non gli impedisce di essere il presidente del Milan, cioè la sentenza non entra nel merito delle attività, anche pubbliche e sociali, da privato cittadino di Berlusconi.
Ma andare a parlare con Berlusconi per trovare con lui un accordo sulla legge elettorale e altre urgenti questioni che il governo dovrebbe affrontare (e non sta affrontando), considerarlo ancora un interlocutore politico, l’interlocutore par excellence del PD, l’unico con il quale si possa e si debba trovare un accordo, non significa trattare Berlusconi da privato cittadino (ancorché a capo di un partito), significa trattarlo come se fosse ancora in parlamento: lui non è più in parlamento, ma in realtà è lui che decide per quelli del suo partito che ancora sono in parlamento.
La mossa di Renzi è quindi sbagliata perché toglie legittimità a quanto sancito dal sistema giudiziario italiano nei confronti di Berlusconi. Ed è inoltre politicamente sbagliata (intendo, dal punto di vista dell’efficacia della politica) perché continua a dare autorità a Berlusconi, e così facendo a rafforzarlo, a dargli nuova vita sul piano del simbolico collettivo. Francamente non credo sia un buon argomento il fatto (è poi un fatto? sarà cioè vero?) che il terzo dell’elettorato sia ancora con Berlusconi. Questo è di nuovo un argomento fallacie straabusato da Berlusconi in questi anni: un argomento che si basa sulla confusione del mero consenso popolare con ciò che è giusto e legittimo (secondo la legge).
Ieri Berlusconi affermava che questa riforma elettorale è “la sua riforma elettorale”. Si è già mangiato in un boccone tutta la buona volontà (o meglio dire la grande Realpolitik?) del povero Renzi (come 20 anni fa, si era mangiato in un boccone quella gran volpe di D’Alema durante l’affaire bicamerale!). Ormai, non si parla di nuovo che di Berlusconi, Renzi è già in ombra, è soltanto il protagonista delle schermaglie con Letta: governo sì, governo no. Ora sì che magari un terzo dell’elettorato italiano è di nuovo con Berlusconi.
Cara Francesca, questa posizione è legittima, come ho scritto. Ma a patto che ci si assuma dichiaratamente e fino in fondo la responsabilità:
1) di riconoscere che nessuna legge impedisce e mai potrà impedire in uno stato liberale moderno a Berlusconi di organizzare una forza politica (dal fatto che vi sia “una sentenza che interdisce a Berlusconi di stare in Parlamento” fai infatti discendere un po’ troppo frettolosamente che “in generale” egli sia “interdetto” dall'”occuparsi della “cosa pubblica””, dato che significherebbe sostenere possa valere universalmente che chiunque e in tutti i casi, se condannato per un qualche reato, debba essere privato del diritto legale o anche solo morale di partecipare all’organizzazione di una forza politica; ma non è difficile immaginarsi controesempi che farebbero apparire una cosa del genere il ripristino della lettera scarlatta, l’antico marchio d’infamia, che contraddice non solo i principi di un pensiero liberale dignitoso ma le basi della nostra legge penale. Anche alla luce della sentenza che ha condannato Berlusconi, purtroppo, non è così facile sbarazzarsi né sotto il profilo legale né sotto il profilo morale dell’art. 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Certo, potresti dirmi: ma Berlusconi non è un cittadino qualunque! È vero: ma questo, per l’appunto, è un fatto, da cui di per sé non può discendere alcuna norma);
2) che anche se noi decidiamo di non sederci al tavolo con lui, lui continuerà comunque a organizzare il suo campo, coltivando con o senza NCD (ma direi con) una quota di circa un 25/30% dell’elettorato;
3) che l’unico sistema elettorale attualmente utilizzabile paralizza il Paese;
4) che nessun altro in Parlamento s’è reso disponibile a una riforma elettorale salvo Berlusconi, e che questa costituisce una responsabilità morale e politica di enorme gravità, sulla quale invece, presi da incantamento “antiberlusconiano”, si sorvola, quasi che fosse cosa eticamente accettabile;
5) che i rischi insiti in un accordo sulla legge elettorale con Berlusconi siano pari o inferiori a quelli determinati dalla paralisi istituzionale e politica del Paese, che comunque non ci sbarazzerebbe di Berlusconi;
6) che nulla impedirebbe di rendere migliore questo schema di legge con il contributo della altre forze politiche, possibilità però che viene meno via via che il fronte antiberlusconiano anziché rafforzare Renzi lo indebolisce, offrendo a Berlusconi l’opportunità di rivendicare come “propria” la riforma e di alzare la posta in gioco (vedere dichiarazione di Deborah Bergamini sotto), il che sta puntualmente accadendo;
7) che nulla impedirebbe, se qualcuno tra i Soloni italiani almeno lo richiedesse, o meglio, lo pretendesse moralmente dalle copiose forze congelate nel loro narcisismo in Parlamento, di sparigliare le carte con una vera e seria proposta alternativa che attinga a uno degli altri schemi proposti da Renzi, anche solo per costringerlo a venire allo scoperto, invece di fare controproposte elettoralistiche come le “democratiche” preferenze o semplicemente deleterie come il proporzionale puro con sbarramento al 4%…
Nella mia lettera non sottovaluto i rischi che tu paventi. Dico che le obiezioni che circolano non sono per lo più all’altezza del bivio di fronte al quale l’Italia si trova. E mi meraviglio del fatto che non ce ne si renda conto. Sarebbe bello, per esempio, se, anziché avventurarsi in niet “tecnici” strumentali o irrealistici, o limitarsi a rimproverare a Berlusconi di fare politica senza offrire uno straccio d’idea su come ostacolarlo senza condannare il Paese al nulla decisionale o lasciare all’Italia soltanto la prospettiva della paralisi istituzionale e politica di un incredibilmente riabilitato proporzionale, si chiedesse a Renzi e al Pd, e magari li si aiutasse, a rispondere con fermezza a queste dichiarazioni di Deborah Bergamini, responsabile comunicazione di Forza Italia:
«La portata dell’intesa tra Berlusconi e Renzi trascende la legge elettorale e le riforme per coinvolgere, più in generale, la dinamica del dibattito politico e le nuove prospettive di confronto, in un’ottica sì dialettica ma priva delle sue derive brutalmente muscolari. Se dovessero prevalere i piccoli ricatti, interni ai partiti o tra i partiti, non verrebbe meno solo un accordo che va rispettato, verrebbe meno una prospettiva di normalizzazione politica che, se pure fa paura a qualcuno, gli italiani attendono da tempo». Queste dichiarazioni, prevedibili, sono anche il frutto della ritirata dalla responsabilità politica di chi sa dire “no”, ma si esime dal dire non dico qualche sì ma almeno “no, però…”.
Una riforma elettorale è una riforma elettorale, ritengo inaggirabile. Ma non è, non può e non deve diventare materia di scambio su questioni, a partire dal conflitto d’interessi e dall’ineleggibilità per i condannati per gravi reati contro il corpo dello Stato. Era prevedibile che Forza Italia avrebbe cercato di tirare l’acqua a questo mulino. E naturalmente, ancora una volta, il fronte avversario ha sciolto le righe ancor prima che l’attacco partisse. Anche questo era prevedibile, l’ho sempre pensato. È la sola obiezione che mi sento di fare a Renzi.
P.s. Singolare per una scheleriana quest’ironia sulla “paura e rabbia inconsce”. Personalmente prendo molto sul serio le questioni emotive profonde, che si agitano sullo sfondo spirituale del nostro agire, e che sempre sono alla radice e influenzano le nostre scelte. Non mi pronuncio sugli esiti dell’altrui personale introspezione, come sai altamente problematica. Mi limito a cercare di offrire una spiegazione, in scarsità di ragioni, dei motivi per cui così tante persone culturalmente attrezzate sembrano ormai impermeabili alla logica o quantomeno alla ragionevolezza pratica. E a registrare la tonalità emotiva sulla quale galleggia ormai da anni l’alfa e l’omega del nostro dibattito politico. Ma magari mi sbaglio.
È normale dialettica.
Io non mi interesso di filosofia in modo professionale, Non sono un’intellettuale. E ascolto allibita, da cittadina concreta che vive la politica in prima linea, da persona che la politica la pratica da più di trent’anni, il modo in cui i filosofi e i detentori di verità con la V maiuscola, i portatori sani di un’etica acefala e astratta, stanno cercando di fare a pezzi l’ultimo e l’unico tentativo coraggioso e responsabile che la politica del centrosinistra ha avuto occasione di intraprendere per garantire al paese una legge elettorale equilibrata e i suoi corollari. Una sequenza di argomenti “contro” che non tengono conto neanche per un attimo delle alternative oggettivamente praticabili, delle prospettive che aprirebbe un fallimento di questa iniziativa, delle contraddizioni politiche e storiche in cui cadono, della supponenza che manifestano davanti ad un paese in ginocchio.
La democrazia diventa feticcio astratto e un utile argomento per discettare sui massimi principi.
Ho letto l’intervento di Nadia Urbinati: si tagliano gli sprechi e non la democrazia… ma di che parla? e che fa? gioca a far finta di non capire? Dove era quando in nome della democrazia i partiti bruciavano milioni in euro dando alimento a una spesa pubblica che ora dobbiamo affrontare mandando all’aria il sistema del welfare? E poi, questa Urbinati mi perdoni: qualcuno si è accorto che tutti i sistemi democratici sono in crisi e che il concetto stesso di democrazia si sta rivelando non meno ideologico di quello di comunismo, o di liberalismo? A nessuno serve una democrazia in preda a inefficienze, demagogie, procedure pletoriche e inutilmente costose. Se abolendo le province e sostituendo il senato con una assemblea che rappresenti le autonomie a costo zero, se modificando l’articolo quinto si migliora l’efficienza e si tagliano i costi qual è il problema? le preferenze? ma ci stiamo prendendo in giro? Ma potrei andare avanti per ore. Non interessa a nessuno l’aspetto concreto del problema. Non interessa che qualcuno abbia deciso di metterci la faccia e abbia individuato una strategia nuova e rischiosa per far uscire “le anime belle” dal loro buco super garantito e una volta tanto giocare d’anticipo con l’avversario. Ora quelle anime belle (parliamone…) stanno cercando di regalare ancora una volta il paese alla destra e magari a quegli sfascisti da comitato di salute pubblica che sarebbero i seguaci di Grillo. E noi poi sapremo chi ringraziare… ma la sinistra si sarà suicidata…
PS: Berlusconi è fuori dal parlamento perché la magistratura ha fatto il suo lavoro. Mentre i “buoni” stavano a chiacchierare e l’opposizione predicava bene e razzolava piuttosto male. Ma finché Berlusconi avrà milioni di elettori e sarà il più grosso partito di opposizione non c’è niente che si può fare per negargli un ruolo come interlocutore. Pensate un po’: è un problema di democrazia.
Purtroppo mi sono perso le fasi iniziali di questa discussione che trovo interessantissima. Mi permetto solo una considerazione marginale.
In questi giorni ci sono state polemiche accese intorno all’opportunità o meno che il PD, ed in particolare il suo Segretario Matteo Renzi, si accordassero per una riforma della legge elettorale con Berlusconi e NFI.
Ascoltando, in parte divertito, in parte allibito, queste polemiche non ho potuto fare a meno di pensare a Niccolò Machiavelli. In effetti, ho pensato, pochi paesi hanno recepito la lezione di Machiavelli così poco come in Italia. Non è un caso che in Italia “machiavellico” significhi più o meno infido, torbido, astuto e immorale. Il Machiavelli che abbiamo recepito è il Machiavelli della Chiesa e del Neoidealismo.
Si dirà, cosa c’entra Machiavelli con la discussione in corso? Beh, c’entra un bel po’, perché Machiavelli, che è universalmente noto come fondatore della scienza politica in quanto disciplina dotata di un’identità autonoma, era motivato nelle sue considerazioni da qualcosa che aveva davanti agli occhi e che caratterizza ricorrentemente ed in profondità il popolo italiano: egli notava come il credito o discredito dei capi o leader veniva attribuito sulla scorta di valutazioni di ordine personale, legate a ciò che si riteneva fossero le personali virtù di ordine teologico, morale, ideologico. Su questo ordine di valutazioni si giocavano fortune e sfortune, lasciando così la gestione della cosa pubblica perennemente all’accidentalità di tali sorti e dunque al caos.
Ciò che Machiavelli rivendica è una specifica entelechia del politico, e con ciò una specifica virtù e moralità. In termini un po’ aggiornati potremmo tradurre come segue: l’immoralità del politico sta nella sua inefficacia, nella sua incapacità di risolvere i problemi, nell’esizialità della catena di effetti che i suoi atti portano seco, non nelle sue eventuali scarse virtù private, nella sua lontananza dal dettato delle Scritture, nell’impurezza del suo cuore. Discettare di queste istanze e metterle in primo piano è politicamente una sciagura, perché in effetti ciò con cui abbiamo a che fare è sempre solo una catena di effetti, gli atti del politico, e non una conoscenza dell’animo del politico, che è questione di suggestioni, ipotesi e pettegolezzi, comodi da ottenere quanto sterili.
Machiavelli è passato alla vulgata nazionale come il fautore dell’apparenza del politico CONTRO la sua realtà. Ma non è così. Ciò che Machiavelli sottolinea è che del politico contano solo le operazioni di dimensione pubblica, gli atti, naturalmente inclusi gli esempi di buona condotta e dunque le buone apparenze, e che solo questo è l’oggetto vero con cui può e deve confrontarsi l’analisi politica, non l’anima, non i massimi sistemi, non la vicinanza a Dio. Le apparenze non sono da giocare contro la realtà: le apparenze sono la realtà in quanto pubblicamente efficace.
Curiosamente in Italia, dai Guelfi e Ghibellini, passando per Peppone e Don Camillo, per arrivare a Berlusconi e gli Antiberlusconiani, i giudizi politici si sono invece sempre giocati sul livello della valutazione personale (religiosa, morale, ideologica) lasciando l’esame di ciò che è fatto o non fatto sullo sfondo, come una variabile incidentale, qualcosa da richiamare strumentalmente solo se fa gioco alla nostra valutazione della/e persona/e.
Per venire alle vicende di questi giorni, ciò che mi ha colpito è stato il fuoco di sbarramento che una parte consistente dell’intellighenzia italiana, per di più quella parte cui mi sento tradizionalmente più vicino, ha messo in piedi contro il tentativo di accordo elettorale che Renzi ha proposto a Berlusconi. Questo fuoco di sbarramento ha assunto accenti retorici inusitati, con un uso costante della distorsione iperbolica, delle teorie del “slippery slope” (chissà dove andremo a finire lungo questa china), finanche con un uso francamente ripugnante della calunnia o dello sfottò.
Ora, per quel che conta, io tengo Renzi sotto stretta sorveglianza, essendo diffidente verso il suo stile, le sue frequentazioni e alcuni suoi giudizi approssimativi. Tuttavia credo che sia nell’interesse della salute politica del paese che le valutazioni vengano fatte sempre sulla scorta degli atti reali e delle alternative reali, non di vaghi desiderata e non di simpatie o sospetti personali. Ecco, quello che trovo francamente indigeribile è che il fuoco di critiche nei confronti di Renzi sia avvenuto tutto, sostanzialmente senza eccezioni, su di un piano propriamente pre-politico, senza prendersi la briga di esaminare precisamente cosa poteva essere fatto e quali potessero essere le alternative reali. Premesso che non riesco ad immaginare come la mia opinione dell’Innominato di Arcore possa essere peggiore, e che quindi non mi piaccia affatto l’idea di fare la legge elettorale con lui, resta il fatto che aspetto ancora dagli amici che hanno levato alti lai nei confronti dell’iniziativa di Renzi un suggerimento fattivo intorno a quale alternativa fosse più desiderabile.
Non fare alcuna legge elettorale e andare a votare col proporzionale?
Non invitare Berlusconi al Nazareno, ma parlare con Verdini e Gianni Letta con Berlusconi via Skype?
Aspettare che Grillo finisca il concorso di X-Factor per la legge elettorale preferita dai suoi ventimila iscritti?
Ecco, io posso nutrire pregiudizi positivi e negativi nei confronti di questo o quel politico, ma, nello spirito del vero Machiavelli (non di quello trinariciuto di comodo) penso che l’unica cosa che abbia cittadinanza in una valutazione politica siano gli atti, naturalmente inclusi gli atti di valore simbolico, nella giusta proporzione, ma comunque solo gli atti e sempre in rapporto ad altri atti possibili (non in un assoluto astorico). Se mi si convince che una certa strategia reale fosse disponibile e migliore di quella attuata, sono disponibilissimo a cambiare idea e stigmatizzare quanto successo, ma di giudizi più o meno dietrologici e sprezzanti, di tessiture di sospetti e processi alle intenzioni, di concorsi di bellezza su quale sia il politico più serioso, spiritoso o acqua e sapone, di tutto ciò proprio non so che farmene.
Per capirci sull’imprescindibilità etica del pragmatismo in politica, vorrei segnalare questa presa di posizione di Giuseppe Civati, che personalmente ho votato alle primarie e apprezzo. Ma che non mi convince su un piano non solo politico ma etico, quando scrive: “se salta l’accordo, salta solo l’accordo”.
http://www.ciwati.it/2014/01/28/se-salta-laccordo-salta-laccordo-non-salta-tutto/
Qui si finge di ignorare non soltanto che in generale, all’interno della maggioranza, sia dal lato destro sia dal lato sinistro, le defezioni e i tradimenti modello 101 sono altamente probabili, ma che al Senato le forze di maggioranza sono risicatissime e si sono rivelate nei fatti ostili a qualunque riforma elettorale. Mentre i 5S praticano il consueto onanismo telematico a scoppio ritardato per poter dire che loro una riforma bellissima ce l’avevano, “votata dai cittadini” (sic!), ma nessuno li ha voluti aspettare (come se si fosseto dimostrati anche solo vagamente affidabili e come se non ci fosse un problema di tempistica per approvare una legge che possa entrare in vigore alle prossime elezioni). Se così non fosse, sarebbe tutto facile. La debolezza di Renzi, di cui spero bene sia consapevole, è che purtroppo a Berlusconi il Pd può solo opporre il caos politico e istituzionale, non un accordo parlamentare che lo escluda. Anche Civati dovrebbe ammetterlo questo. O dimostrare nei fatti! che le cose non stanno così. Altrimenti significa che questi suoi distinguo servono solo a cercare di non compromettersi troppo con l’unico accordo possibile. Il che è legittimo, ma meno nobile di quel che si voglia far credere. Ma affettare nobiltà d’intenti è purtroppo il vizio nazionale. Che è cosa completamente diversa, anzi sovente opposta, dal rispondere dei propri atti pubblici, come ha fatto notare Andrea. Questo significa però anche un’altra cosa, che chi è onesto deve riconoscere. Per quanto si sia (come lo sono io, per esempio) maggioritaristi, senza un cambio di passo nella cultura politica di questo Paese, che una legge elettorale può non ostacolare, certamente favorire, ma non determinare, nessun premio di maggioraanza potrà bastare a convertire la paralizzante e degradante alternativa tra comitato di salute pubblica “grillino” e stabilità da larghe intese in autentica governabilità, che in realtà, vorrei dire a parecchi costituzionalisti, significa anzitutto responsabilità, ovvero: rappresentatività e trasparenza, contro ogni retorica proporzionalista. Perché dietro la formale rappresentativitò del proporzionale in Italia si sono sempre nascosti le proprie responsabilità. La colpa è sempre degli altri. Nessuno ha mai deciso nulla. In Italia, la politica (e non solo) è abituata a non lasciare le impronte digitali su quello che fa. Questo è il problema etico numero uno.
Liberazione.it 29 gennaio 2014
Renzi e Berlusconi. Il fine giustifica i mezzi?
Pur di fare le riforme è lecito parlare anche col diavolo, figuriamoci se Matteo Renzi non avrebbe dovuto parlare con Silvio Berlusconi che diavolo non è. Questo, a un di presso, il pensiero di molti, riguardo all’incontro del sindaco con Berlusconi. È vero, per raggiungere un fine buono e assolutamente necessario, è lecito ricorrere ad un mezzo cattivo, purché non esistano altre vie percorribili. Così, nel caso, ad esempio, della legittima difesa, per salvare una vita umana (fine buono e necessario) è lecito uccidere (mezzo cattivo) l’ingiusto aggressore, purché per renderlo inoffensivo non esistano altre possibilità. Ora, nel caso del colloquio di Renzi con Berlusconi, occorre dimostrare non solo che il fine (le riforme) è assolutamente necessario, ma anche che non esisteva nessuna altra via percorribile per raggiungerlo, se non quella di parlare con Berlusconi.
Cara Elisa, io credo che gli argomenti a favore tanto della necessità di una decente riforma quanto della mancanza di alternative siano stati ampiamente esposti nel presente dibattito. E qui sopra ne trovi un certo numero. Sono i controargomenti circostanziati, e che non si rivelino pure e semplici petizioni di principio, a scarseggiare, purtroppo. È questo che ho lamentato. E non perché ritenga che il fine giusitifichi sempre i mezzi. Non nel senso cinico, almeno, in cui generalmente questa espressione viene impiegata. Io, infatti, intendo sostenere che il fine deve tenere conto dei mezzi. Perché il tempo non passa invano. E spesso non fare oggi una cosa spiacevole è la premessa per trovarsi a deciderne la volta dopo una ancora più spiacevole.
Solo un brevissimo “rientro” per rendere noto che anch’io – come ho già scritto sul mio sito – apprezzo Pippo Civati (ma non ho votato per le primarie del Pd), mentre le repliche a quanto ho quassù espresso mi erano invece sembrate andare piuttosto in altra direzione.
Per quanto riguarda l’accordo sulla legge elettorale, testé comunicato dai media, temo che vada sempre più a favore di Fi & Co. Per carità, è solo una mia previsione; non sono in grado neppure di fare immediatamente i calcoli sulla base di sondaggi: e, in quanto solo previsione, penso non mi si possa opporre una confutazione. Se dovesse essere approvata tal quale, credo si potrebbe riparlarne, purtroppo, soltanto ad avvenute elezioni (ovviamente, se dovessero effettuarsi a breve scadenza, perché il tempo dovrebbe essere galantuomo).
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Neanche in Machiavelli il fine giustifica i mezzi, quantomeno non se i mezzi sono anch’essi dei fatti di rilevanza pubblica, giacché mezzi malvagi producono ripercussioni (simboliche, morali, ecc.) malvagie. (Per gli appassionati di filosofia morale, Machiavelli come macrocategoria rientra non negli act-utilitarians, ma tra i rule-utilitarians.) – Peraltro, quanto alla sostanza di legge che sta emergendo in queste ore (tema toto coelo diverso dall’opportunità di farla con B.), sembra ne verrà fuori una legge elettorale parecchio mediocre, con cedimenti gravi alle posizioni di Forza Italia (salvaLega) e del NCD (multicandidature). Francamente una schifezza.
E qui va ribadito una volta di più che i comportamenti penosamente irresponsabili dei Grillini, che si esibiscono in berciamenti folclorici come fossero un partito dell’1%, mentre tengono in ostaggio un terzo del parlamento, portano la principale responsabilità politica di questa pessima situazione. Neanche nelle mie visioni più pessimistiche avrei potuto immaginare una prova di sé più deludente e vergognosa.
Aver ceduto sulla clausola salva-Lega è molto grave, perché anche se è comprensibile che ognuno tiri un po’ l’acqua al proprio mulino, nell’ottica di dar vita a un Senato delle autonomie, non ha davvero più senso premiare la concentrazione territoriale di un partito. Inoltre, distorce la competizione, perché si arriva al paradosso per cui un partito uniformemente distribuito sul territorio nazionale che arriva appena sotto l’8% non entrerebbe in Parlamento, mentre un partito concentrato in tre regioni ci entrerebbe. Purtroppo questo è il risultato della necessità, a causa in particolare della mancanza di voti al Senato, di non avere contro i leghisti. Non meno grave, però, è la possibilità di candidare la stessa persona in più collegi, penale pagata a Ncd, che verticizza e mediatizza ulteriormente i partiti e soprattutto scollega ulteriormente l’eletto dal collegio: inutile avere collegi più piccoli se poi lo stesso candidato si può candidare in più collegi, anche perché già prima, in questo sistema, chi vince nel proprio collegio non viene automaticamente eletto (come sarebbe con l’uninominale anglosassone) ma viene ripartito sulla base dei voti proporzionalmente presi dal suo partito. Il che significa che vi saranno teste di serie dei partiti che svolgeranno un ruolo traino tagliando fuori dalla ripartizione finale candidati che a livello di collegio potrebbero addirittura aver vinto. Questi due aspetti distorsivi mi sembrano non compensati dalla buona soglia al 37% (max 15% di premio) e dallo sbarramento al 4,5 per i piccoli in coalizione, troppo alta per non risultare odiosa per chi è chiamato a partecipare con la quasi certezza di non poter vincere. Così, rischia di essere un moltiplicatore di accozzaglie che rischiano di reggersi con recuperi di sottogoverno: appoggiami, male che vada ti do un incarico. Il risultato della mediazione, quindi, è deludente. Si può sperare nel percorso parlamentare. Ma numeri alla mano, con il M5S in preda al consueto autoincantamento, sarà ben difficile migliorare di molto le cose. Anche ammesso trovino un accordo Pd, Sel, Sc su questi temi, cosa tutt’altro che impossibile, non sarebbe ancora sufficiente. La differenza la fanno, purtroppo, gli Uruk-hai grillini. Ma hanno di meglio da fare, come sempre: dopo aver letto un libro di Travaglio, devono imbastire l’impeachement a Napolitano. E sarebbero guai anche per Gambadilegno, dovesse capitare loro tra le mani anche un Albo di Topolino. L’unica cosa in cui mi verrebbe da sperare è una qualche moral suasion da parte di Napolitano, sulla scorta di un qualche profilo d’inconstituzionalità, che purtroppo – tuttavia – non mi sembra sufficientemente manifesto.
Ecco, caro Stefano. Come sta andando.
Magari la prossima volta lasceremo a una disputa più grave le parole di Etty Hillesum con cui hai esordito?
«Questa nostra barbarie dobbiamo
rifiutarla dentro di noi»
(Etty Hillesum, 15 marzo 1941)
Cara Roberta. Quelle parole le ribadisco con ancora più forza, se possibile. La discussione sul dovere etico e politico di trattare, in assenza della capacità di costruire prospettive credibili, con l’avversario che tendenzialmente non ci si è scelti, nulla ha a che fare con il merito del risultato, peraltro provvisorio, che fin dall’inizio mi sono reso disponibile a discutere. Da persona libera, infatti, serenamente lo critico. La legge aveva uno schema migliorabile, ma non è stato migliorato abbastanza, anzitutto per la purtroppo prevedibile scarsa compatezza dimostrata dal fronte che avrebbe dovuto sostenere il miglioramento. Io mi prendo la responsabilità di dire meglio questa legge che nessuna legge, comunque. Altri, se credono, possono naturalmente consolarsi dicendo, come tante volte è accaduto, “l’avevamo detto”, fingendo di ignorare d’essersi relegati nel mai responsabile ruolo di eterni profeti della propria sventura. È il classico rovesciamento dell’anticonsequenzialismo puro nel puro consequenzialismo, di cui ho già parlato. Sempre Etty: «noi portiamo tutto dentro di noi e le circostanze non sono mai così decisive, in quanto ci potranno sempre essere delle circostanze, buone e cattive, e questa realtà delle circostanze, buone e cattive, deve essere accettata, e questo non impedisce che ci si dedichi a migliorare quelle cattive. Si deve sapere, però, per quali ragioni si lotta, e si deve cominciare da se stessi, ogni giorno ancora da se stessi». Buon lavoro a tutti noi.