Riceviamo da Roberta De Monticelli e volentieri pubblichiamo uno stralcio dalla Presentazione del volume La repubblica siamo noi. A scuola di Costituzione con i ragazzi di libertà e giustizia, a cura di Gherardo Colombo e Roberta De Monticelli.
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2. La meglio gioventù?
La nostra iniziazione alla vita della Polis fu… svagatamente, ma sinceramente “internazionalistica”. In tutti i sensi, compresi quelli più patetici e grotteschi di tornare al linguaggio degli anni Venti o Trenta, dimenticando tutto quello che nel frattempo era successo, in Europa e nel mondo: ma questo, in fondo, non era che folklore. Erano gli anni delle prime scoperte “intellettuali”, delle prime grandi vacanze girovaghe per le città del mondo – leggevamo gli stessi libri che i ragazzi leggevano a Parigi, a Francoforte, a Berkeley, attraversavamo i saloni del Louvre e della National Gallery ed eravamo tanti, ormai, molti di più di quanto fosse stato possibile ai nostri fratelli maggiori – per non parlare dei nostri padri. Lo stile di vita ideale era lo stesso dovunque – c’erano le comuni e le assemblee, “otto ore bastano per dormire, tre per fare l’amore, il resto per la Rivoluzione”. Ma intanto, senza accorgercene e illudendoci di fare il contrario, entravamo in politica dal lato sbagliato: quello della forza, e non quello della ragione. Quello dei rapporti di forza della politica internazionale e dei suoi “blocchi”. Senza saperlo, ci muovevamo fra le visioni del mondo che bene o male un nesso con questi grandi blocchi ce l’avevano: così il Sessantotto in Italia fu all’inizio, almeno in parte, un risveglio giovanile in seno alle università cattoliche, certamente legato al vento nuovo del Concilio Vaticano Secondo: ma che, come il resto della cultura cattolica italiana, restò abbastanza indifferente a quell’aspetto della vita personale sempre così fragile, così minacciato da noi, che è l’assunzione di responsabilità individuale delle proprie scelte, la conquista dell’indipendenza dalla comunità d’origine o di base, l’autonomia morale, ovvero la capacità auto-normativa dell’età adulta. Da un comunitarismo reazionario e anti-modernista si passava, nel migliore dei casi, a un comunitarismo modernista da teologia della liberazione, abbastanza ignaro, però, dei tormenti e della fatica di pensare con la propria testa e di scegliere con il proprio cuore, e soprattutto di riconoscersi responsabili delle proprie azioni. In altri casi da un marxismo ottusamente diamat, peraltro da noi solo debolmente agganciato alla politica più che pragmatica del più grande partito comunista europeo, si passava a un vasto mercato di storicismi, strutturalismi, teorie critiche e dialettiche negative, che però in definitiva con la matrice di partenza avevano in comune la sola cosa che sarebbe stato salutare contestare: che non ci sia altra ragione che quelle sostenute dalla storia, qualunque cosa fosse questa divinità dubbia e feroce. L’idea stessa di una ragione pratica e quella di un’irriducibilità del diritto al potere, della norma alla forza, del dovere al fatto non aveva alcuna cittadinanza nelle menti dei più fra noi, a quell’epoca. E così fummo iniziati alla “politica” ignorando nel modo più radicale proprio quelle ragioni che avevano spinto i nostri padri a segnare alla politica un limite preciso e invalicabile di compatibilità etica, una norma fondamentale di tutela della pari dignità e dei diritti di ognuno, e anche di elementare istituzione dei doveri di cittadinanza. Fummo iniziati alla politica senza esserlo a quella conoscenza morale che aveva espresso, dopo le catastrofi della prima metà del Novecento, il costituzionalismo moderno e la sua idea di fondo: una politica che non abbia fuori di sé il suo limite e il suo fondamento si distrugge come governo degli stati secondo ragione e giustizia, e diventa soltanto arte di acquistare e mantenere il potere.
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