Potrebbe contribuire a diradare un po’ di fumo inevitabilmente sollevatosi nella complessa discussione scaturita dal botta e risposta tra Roberta De Monticelli e Diego Fusaro, questo breve scambio informale che qualche tempo fa Giacomo Costa e Fabio Ranchetti, entrambi economisti, ebbero attorno a una citazione riguardante i matematici e premi Nobel per l’economia del 2012 Lloyd Stowell Shapley e Alvin E. Roth, citazione contenuta in un articolo che ne ripercorreva l’importante opera. Tratta di efficienza e giustizia, scienza economica e scienza morale. Nello scambio intervenni un po’ avventurosamente anche io. Ma entrambi i professori furono indulgenti e soprattutto istruttivi.
Questa è la citazione da cui la discussione prese le mosse: «Se, per esempio, l’accesso a una risorsa limitata come l’istruzione universitaria viene riservato a chi offre più denaro, non c’è più bisogno di dire che la cosa è ingiusta dopo che Shapley e Roth ci hanno insegnato che è stupida». Quanto segue, invece, è come Costa cercò di formalizzare la questione in modo comprensibile anche ai non addetti ai lavori, aiutandoci a mettere in luce aspetti del rapporto tra efficienza (economica) e giustizia (etica) a mio parere piuttosto interessanti. “Stupido” nel senso che qui interessa, significa “inefficiente” in termini economici.
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COSTA Supponiamo che ci siano un risparmiatore, R, e un imprenditore, I. R ha 100, I ha 0. Ma I sarebbe in grado di investire quei 100, e di ottenerne 200. Se non si accordano, la loro allocazione è (100, 0). Se si accordano (che R trasferisca a I i 100 milioni, per ottenerne 100 + x tra un anno) sarà (100 + x, 100 – x), 0 < x < 100. I, però, potrebbe non osservare l’accordo. Allora la loro allocazione sarebbe (0, 200). Ma perché I dovrebbe osservare l’accordo? Non lo osserverà. E R, sapendo questo, non gli presterà nulla. Sicchè nessuno degli esiti efficienti si realizzerà. L’allocazione (100, 0) è giusta? L’allocazione (0, 200) è giusta? Se la dotazione iniziale fosse (100, 0), dove R ha 100 (perché questi 100 li ha ereditati dal padre) e I ha 0 (perché il padre, o chi vogliamo, non gli ha lasciato nulla in eredità), allora, sulla base della nozione rawlsiana di equità, (100, 0) non sarebbe un’allocazione equa (“sotto il velo di ignoranza”, infatti, nessuno dei due desiderebbe essere in tale situazione). Più o meno lo stesso con la nozione di Varian. L’allocazione (100, 0) è paretianamente dominata da (100+x, 100-x) per ogni x in (0, 100). Ossia, giusta o meno che sia l’allocazione (100, 0), sia R che I ottengono di più se R trasferisce i fondi a I, I li investe, e I rimborsa R con un interesse positivo inferiore a 100. La giustizia avrà forse qualche suggerimento da dare sulla determinazione di x entro questi limiti. Ma almeno a me appare una questione del tutto secondaria. Il problema vero, per l’economista, è trovare il modo di avviare questa economia. E non si avvierà, per la ragione evidente che non vi sono gli incentivi per farlo. L’unico equilibrio di questo gioco è quello in cui R non trasferisce i fondi a I, e I se li ricevesse li investirebbe e non rimborserebbe R. Ossia, l’unico equilibrio è inefficiente, proprio come nel dilemma del prigioniero! L’umanista, o almeno quelli che incontro e conosco io, non conosce il concetto di dominanza paretiana e non è consapevole del problema degli incentivi. O forse non vuole. E insiste ciecamente sulla giustizia.
RANCHETTI Quanto dici è inoppugnabile. Tuttavia, questa è solo una metà del discorso – quella che riguarda, appunto l’efficienza. Come Hahn e Sen (ma anche moltissimi altri) ci hanno insegnato, esiste anche l’altra metà del discorso – quella che riguarda l’equità (cioé esiste anche il secondo teorema fondamentale dell’economia del benessere). Personalmente, ritengo che esso sia altrettanto importante. D’altronde, e significativamente, nel modello di riferimento classico, cioè quello di Arrow-Debreu, si suppone che ogni agente (each and every) abbia una dotazione iniziale “di sopravvivenza” (non 0, dunque), che gli permette, appunto, di sopravvivere senza dover effettuare alcuno scambio (lo scambio, come nel tuo esempio, potrebbe migliorare la posizione di almeno uno dei due). Però sono pochissimi gli economisti che si occupano di definire quali effettivamente siano queste dotazioni “minime” accettabili – il che implica necessariamente una qualche nozione di equità e affrontare il problema della distribuzione ex ante e non soltanto ex post – demandando il compito ad altri (generalmente ai filosofi, come appunto il nostro Rawls o il nostro Sen). Stiglitz, Zamagni, Kolm (e altri economisti), in realtà, se ne sono molto occupati, tuttavia. Peccato che, soprattutto qui in Italia, se ne parli troppo poco. Io, infatti, non meno di loro, ritengo che le questioni di giustizia sociale appartengano di pieno diritto all’economia politica.
CARDINI Anche a me, leggendo, era venuto in mente il dilemma del prigioniero. Certamente: (100 + x, 100 – x), 0 < x < 100 è l’allocazione più efficiente, ma non un punto di equilibrio. Identificare equilibrio con efficienza è un errore. Altrimenti nel dilemma del prigioniero la coppia “non confessare, non confessare”, in quanto massimizza i premi del sistema, sarebbe per ciò stesso un equilibrio. Invece, come è noto, non è così. Ed è proprio quello che rende il dilemma interessante. La questione, però, del rapporto tra efficienza e giustizia mi pare resti non del tutto chiarito. L’economista, di norma, non si limita a svolgere descrittivamente il gioco di R e di I. Il gioco, infatti, gli serve per scoprire l’origine della ricchezza delle nazioni e insieme per prescrivere i requisiti che il sistema deve avere per accrescerla. Questo doppio ruolo, descrittivo e normativo, si evince dalle ipotesi prioritariamente formulate attorno all’agente “impresa”, che sottendono un giudizio di valore attorno a che cosa sia una “buona” impresa e un “buon” mercato per saggiarne le condizioni di possibilità: « (…) l’economista non fa l’ipotesi che l’impresa cerchi di massimizzare i profitti correnti o di breve periodo di cui si occupa invece l’esperto di contabilità. Egli suppone infatti che l’impresa cerchi di massimizzare la somma dei profitti relativi a un lungo arco di tempo, attualizzati in modo opportuno. (…) » (Microeconomia, Edwin Mansfield, p. 115). Ritornando al gioco da cui siamo partiti, esso ci dice che se nel sistema non s’introducono altri vincoli (al rispetto dei patti, al giusto interesse ecc), l’ottimo paretiano non può essere un equilibrio, il che significa che l’economia non prospera, non è cioè una “buona” economia (efficiente). Ma allora: l’ottimo paretiano non è stato fin dall’inizio già assunto come l’equilibrio “giusto”? Non è forse in questo senso che si parla di “giusto” prezzo di mercato, “giusto” salario ecc? O sono solo modi di dire?
COSTA @Stefano: attento, però: ricorda che non vi è un solo ottimo paretiano nel nostro gioco. Ogni x nell’intervallo aperto di estremi 0 e 100 è un ottimo paretiano. Considerazioni di giustizia potrebbero portare a preferire un certo x, naturalmente. Ad esempio, si potrebbe stabilire che il tasso d’interesse “equo” sia il 5%, o il 50%. Ma non sarà così che si sbloccherà l’economia, problema chiave per l’economista. Bisognerà quindi trovare un modo per garantire a R che rivedrà i suoi soldi. @Fabio: nel piccolo esempio presentato, il ruolo della giustizia è alquanto ridotto. Può darsi che in altre situazioni risulti più importante. È vero che alcuni economisti stanno sviluppando una teoria della giustizia, come ricordi. Però, finora, il contributo fondamentale degli economisti è stato di aver sviluppato la nozione di efficenza e di aver studiato il problema degli incentivi. Stop.
RANCHETTI @Giacomo: tu saresti dunque dell’idea che gente come Arrow, d’Aspremont, Hammond, Kolm, Meade, Moulin, Pattanaik, Roemer (John E.), Rothschild (M.), Sen, Stiglitz, Varian et alii (e ho citato solo i primi economisti che mi sono venuti in mente) non abbiano dato un contributo fondamentale alla teoria delle scelte sociali & della giustizia? Se ne sono occupati tutta la vita: si tratta di vite scientifiche sprecate? Oppure pensi che queste questioni siano fuori dell’ambito dell’economia? Perché non pensi che l’economia sia “essenzialmente” una scienza morale?
CARDINI Questa mi sembra la domanda fondamentale. È certo che Smith la intendesse come una scienza morale, ovvero, una scienza che attraverso lo studio delle regole della prosperità consentisse di sapere se e quando ciascuno avesse il suo (che include, pur non esaurendosi in esso, il problema di garantire che R abbia indietro i suoi soldi) così da garantire prosperità nella giustizia e giustizia nella prosperità. Basti pensare alla teoria dei sentimenti morali come base dell’economia: all’elogio della lungimiranza (superior prudence) e alla stigmatizzazione della voracità (rapacity), e alla sua attenzione all’articolazione, in merito all’attività di legislazione, tra Justice e Police. Il dilemma del detenuto ci dice che quei due non raggiungono l’ottimo paretiano perché non fanno squadra, ovvero, perché sono una pessima banda di criminali. Anche R e I non fanno squadra e si dimostrano pessimi risparmiatori e imprenditori. Ma siamo noi che li definiamo così nel modello. E loro non fanno che agire di conseguenza. Perché, allora, li definiamo così? C’è qualcosa di più naturale, oggettivo o scientifico in una pessima banda di criminali rispetto a una buona banda? Il modello ci dice, è vero, che senza incentivi non si raggiunge alcun ottimo paretiano. Ma moralità, giustizia e prosperità sociale, non possono rientrare tra questi incentivi? O esiste solo la sanzione legale?
COSTA Cari Fabio e Stefano, sarebbe bello parlare di che cosa sia una “scienza morale”. Non vedo, per esempio, perché la nozione di giustizia dovebbe far parte di una scienza morale, e quella di efficienza no. Tuttavia, permettetemi di ricordarvi che con la mia proposta di un semplice gioco in forma estesa, volevo solo spiegare un’affermazione di Roth (o di Shapley) contenuta nell’articolo su di loro, che pertanto di seguito ripropongo: «Se, per esempio, l’accesso a una risorsa limitata come l’istruzione universitaria viene riservato a chi offre più denaro, non c’è più bisogno di dire che la cosa è ingiusta dopo che Shapley e Roth ci hanno insegnato che è stupida». Ci sono riuscito? Forse no…
RANCHETTI Caro Giacomo, grazie per avere suscitato e ospitato questa interessante discussione. Comunque, io non ho mai affermato che la nozione di Pareto-efficienza non sia fondamentale e/o non appartenga alla scienza morale. Mi sono limitato a ricordare che vi sono economisti (e, come non ti sarà sfuggito, ho citato solo economisti matematici) per i quali la questione delle dotazioni iniziali, dell’equità e della giustizia (e della modellizzazione di tale questione) è altrettanto fondamentale della questione dell’efficienza e degli incentivi (e della modellizzazione di questa questione). Aggiungo, non per aprire una nuova discussione, ma solo per chiarire a Stefano, che forse non aveva colto il mio riferimento implicito, che la definizione di economia come scienza essenzialmente morale non è certo mia, ma di Keynes, in polemica con Robbins (il quale, guarda caso , voleva tenere ben separate le nozioni di efficienza e quella di equità): « (…) economics is essentially a moral science and not a natural science. That is to say, it employs introspection and judgements of value. (…) it deals with motives, expectations, psychological uncertainties. (…) The pseudo-analogy with the physical sciences leads directly counter to the habit of mind which is most important for an economist proper to acquire». E Keynes era un first wrangler, cioè uno che conosceva perfettamente la matematica – oltre al greco antico, proprio come Edgeworth e Pareto.
CARDINI @Giacomo: il gioco per quanto semplice (alla fine ci sono arrivato persino io) è molto istruttivo e interessante. Io credo, come Smith, non solo che le norme di giustizia siano oggetto di scienza morale, ma che lo siano anche quelle di efficienza, tanto da ritenere, come Smith, che l’economia sia per essenza una scienza morale o che sulla scienza morale e giuridica poggino i suoi concetti primitivi. Le spie linguistiche sono talmente tante: bene, valore, ordine, preferenza, decisione. Non è credibile liquidarle come retaggi e disfarsi degli economisti classici come semplici pionieri. La mia opinione è che il dilemma del prigioniero dimostri non tanto la stupidità di chi tenesse duro senza garanzie che l’altro facesse altrettanto, ma la necessità, e per ragioni di efficienza!, di introdurre vincoli ulteriori agli agenti, sulla cui natura (morale, legale ecc) l’economia deve interrogarsi… e s’interroga, per esempio formulando ipotesi preferenziali sugli agenti che fa entrare nei propri modelli… Analogamente concludo rispetto al tuo gioco, nel quale è la possibilità stessa dello scambio economico in questione (quello scambio che per Smith, e ne deduco, Keynes, era figlio del self-love e nemico della selfishness). Smith scrisse La ricchezza delle nazioni dopo e come sviluppo della terza e ultima parte della sua Teoria dei sentimenti morali.
RANCHETTI Un’ultima annotazione, relativa allo sviluppo del pensiero di Adam Smith. È vero che la prima edizione della Wealth of Nations è successiva alla Theory of Moral Sentiments; tuttavia, l’ultima edizione della TMS (la sesta, del 1790, molto rivista e ampliata proprio per tener conto anche dei “risultati” cui era giunto sul terreno della teoria economica) è successiva all’ultima della WN (la quinta, del 1789). Il circolo si chiude: dall’etica all’economia e dall’economia all’etica.
«Our economy is a historical and not a mechanical system. In order to understand our economy we have to leave the easy world of econometrics, simulations, and computer printouts and enter the tough world in which institutions, usages, and policy affect what happens». (Hyman P. Minsky, A Theory of Systemic Fragility, 1977)
Segnalo anche, a proposito di equità ed efficienza, il contributo di Rustichini e Reichlin – con allegato dibattito, contenuto in “Pensare la Sinistra” tra equità e libertà (Laterza).