La mente estesa può far paura. Perché lo studio del cervello non basta alle neuroscienze (di Michele Di Francesco)

domenica, 26 Maggio, 2013
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Lo studio del cervello è necessario per capire la mente. Questo è un dato inconfutabile per chiunque prenda sul serio gli straordinari successi della neuroscienza contemporanea. Ma è anche sufficiente? Oppure per spiegare l’intelligenza umana – percezione, ragionamento, coscienza, azione – sarebbe più produttivo studiare l’interazione tra mente e mondo in modo più radicale di quanto non faccia la neuroscienza tradizionale? Un’interazione che in alcuni casi è così intensa, bidirezionale, fluida e integrata da produrre un sistema abbinato comprensibile solo se indagato unitariamente? Arnaldo Benini in un articolo pubblicato sull’ultimo numero del Domenicale (19 maggio 2013), in cui recensisce il volume che Giulia Piredda e io abbiamo dedicato al modello della mente estesa (MME) opta senza esitazioni per il primo corno del dilemma: dallo studio dei meccanismi intra-cerebrali e solo da questi giungerà la spiegazione della mente umana. La posizione di Benini è ragionevole ed esprime probabilmente il sentire ortodosso di molti neuroscienziati, e personalmente ho per essa il massimo rispetto. Mi sembra però che la questione sia più articolata di come lui la presenta descrivendo (mi si consenta la semplificazione) i due partiti in lotta come composti rispettivamente da seri e rigorosi scienziati e da eloquenti ma superficiali filosofi – del tutto ignari di duecento anni di sviluppi delle scienze del cervello. Le cose non stanno così.

(continua la lettura dell’articolo di Michele Di Francesco su Il Sole 24 Ore).

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