Caro Beppe, l’autosegregazione in politica non fa mai bene. In uno Stato di diritto, pur corrotto e macchinoso come il nostro, dove sovrano non è il popolo ma la legge, non si riempiono solo piazze ma si discute, si ascolta. È vero, i nostri politici non hanno ascoltato per anni e la rabbia, il dispiacere, la rassegnazione, la disperazione fanno da padroni. Ma contare solo su queste emozioni per far valere un’idea, un programma, in una democrazia, non è cosa buona. La democrazia è il regime del dialogo incessante fra le parti, dell’uso della ragione critica e del semplice buon senso. E’ pure necessario, quando è il caso, resistere alle ”lusinghe del potere” e di marciare all’unisono con gli altri ma la denuncia della politica degenerata è valida se è fatta con intrasigenza ma anche con carità, con la consapevolezza che, anche chi pretende di rimanerne fuori, può incappare negli stessi meccanismi del male e dell’errore.
E visto che hai citato Gaber, per dipingere un certo ruolo che gli intellettuali avrebbero (com’è facile costruirsi il ”nemico” ad arte per abbatterlo con più facilità), io cito un nostro grande pensatore, intellettuale onesto e maestro di laicità: Norberto Bobbio. Ecco, lui, per me, incarna perfettamente la figura dell’intellettuale, come semplice uomo dotato di attitudine critica ad articolare le proprie idee secondo principi logici non condizionati da alcuna fede, di capacità di distinguere il pensiero e l’autentico sentimento dal fanatismo ideologico e dalle oscure reazioni emotive, ancor più dannose del dogmatismo di ogni genere. In un suo bellissimo saggio, ”Intellettuali e vita politica in Italia”, dove mette a fuoco luci e ombre dell’uomo di cultura, enuncia con chiarezza quali sono i diritti della cultura, diritti che possono esser fatti valere da chiunque, dato che la ragione critica e il ”comune sentire” non sono monopolio di nessuno (”Il cantico del pastore errante dell’Asia”!) e quelli della politica, che il più delle volte rispondono ad un interesse ”particulare” (sento il fantasma del Guicciardini che bussa alla porta!), quando essa stessa non viene nutrita da quella forza critica e autocritica che solo la cultura può darle (chiarisco, ancora, che qui cultura non vuol dire nozionismo, sapere in senso aulico, ma capacità ad assaporare un qualcosa e di giudicarla insipida o meno).
”La politica è radicata al suolo racchiuso nei confini geografici, è nazionale e nazionalistica; la cultura è cosmopolita. Di fronte alla cultura non vi sono barriere né politiche né geografiche. La patria dell’uomo di cultura è il mondo.
La politica traffica in cose contingenti e particolari; la cultura maneggia soltanto valori assoluti ed universali. L’uomo politico conosce solo le occasioni e le opportunità; l’uomo di cultura afferma contro le mobili occasioni i fermi ideali, contro la mutevole opportunità l’eterna giustizia.
La politica si regge sopra una certa dose di conformismo; la cultura non respira se non in un’atmosfera di libera ricerca. Nella vita politica il dogma sembra altrettanto necessario del dubbio critico nella vita di pensiero.
Nella politica c’è bisogno di spirito gregario, mentre la cultura è per eccellenza la più alta espressione della individualità. L’uomo di cultura che cede alla politica finisce per rinunciare a una parte di esso, a ciò che lo caratterizza come uomo di cultura.
La politica è parziale, mentre la scienza è imparziale. Chi fa il politico non può essere nello stesso tempo uomo di cultura, perché le passioni che si convengono al primo turbano e deviano il secondo.
La politica appartiene alla sfera dell’economico, della vitalità, rappresenta il momento della forza. La cultura ha il compito far valere di fronte alla forza le esigenze della vita morale. Contro il politico che obbedisce alla ragion di stato, l’uomo di cultura è il devoto interprete della coscienza morale.”
Spero venga presa la decisione migliore per il nostro Paese.
Luca Fabrizio
studente universitario
Lasciatemi provare a dire perché trovo molto bella questa lettera. Io non condivido affatto l’opposizione fra politica e cultura che la citazione da Bobbio disegna – anzi in questo momento, a una seconda riflessione, potrebbe essere fraintesa come un’orgogliosa rivendicazione di una diversità da parte di alcuni individui, che fanno un mestiere, rispetto ad altri, che per interesse o per idealità “si mettono in politica”. Al contrario, io credo che una fortissima iniezione di etica, il che significa fondamentalmente di ragione pratica, dunque di pensiero e sentire ordinato, soggetto alla disciplina di libertà, ricerca e critica, indipendenza e relativo disinteresse per la questione “cui iuvat” quello che si dice, sia precisamente ciò che rende la politica un’attività nobilissima. E credo che tutta la questione dei partiti e della democrazia con o senza andrebbe ripensata a partire di qui (e se qualche buon grillino ci legge, vorrei ricordargli che Simone Weil tanto citata da Grillo parla anche nel saggio sui partiti con orrore di “un partito al potere e tutti gli altri in prigione”: invito Maria Giovanna Ziccardi che mi ha mandato questa citazione a intervenire!). Ma appunto, quello che la lettera mi sembra essenzialmente voler dire è che così, come Bobbio con amarezza la descrive, come Machiavelli con tranquilla scienza la presuppone, la politica diventa “quando essa stessa non viene nutrita da quella forza critica e autocritica che solo la cultura può darle”. Precisamente. E qui c’è il grande, profondo mistero che l’ontologia sociale deve ancora affrontare, prima di poter risolvere. È l’amarissima esperienza vissuta da Simone Weil rivoluzionaria, e che ogni persona rivive se un giorno scopre che non è più lecito essere indifferenti alla prepotenza e all’ingiustizia, e porta i suoi ideali e i suoi valori al confronto nell’arena politica. È il senso stesso del mito platonico della caverna – è l’amara verità che ad ogni svolta possibile si ritrova. L’immensa potenzialità positiva di certi movimenti che nascono precisamente dallo sdegno di fronte all’ingiustizia in qualcuna delle sue forme, questa immensa potenzialità positiva che è potere virtuale – vira in qualcosa di cieco, informe, simile al caso e come tale capace di abbattersi violentemente sugli uomini – come la guerra, come la peste – quando avviene che le singole persone in cui lo sdegno e l’azione è nata rinunciano a se stesse: critica, libertà, ricerca, RESPONSABILITA’ PERSONALE, pensiero autonomo, in una parola: “cultura” (o ragione-sentire ordinati). E si affidano al capo. A chi – difficilissimo compito – può, come Simone scongiurava i “capi” di allora di fare – RIFIUTARE questo sacrificio dell’intelletto e richiamare ciascuno alla sua libertà e sovranità. Oppure diventare un demagogo. La lettera di Luca Fabrizio si rivolge a un uomo che è davanti a questo bivio, e lo prega di prendere la via giusta. E lo fa difendendo, non quattro “intellettuali” sostituibilissimi (non siamo forse tutti cittadini? E cos’è questa trovata da Vandea, borbonica prima che goebbelsiana, i dotti vacui e gli ignoranti buoni?) ma precisamente il ruolo insostituibile della cultura. Cioè del dubbio, della critica della ricerca, senza la quale c’è solo o cinismo o fanatismo. Ecco perché mi è piaciuta la lettera di Luca Fabrizio, e spero che qualche simpatizzante o militante o parlamentare M5S la legga. Anzi, spero che la legga il suo destinatario!
Caro Luca,
è bella e vera la tua lettera. A me, riapre il cielo della speranza e conferma l’indistruttibile dato di fatto che ovunque ci sia un uomo c’è la possibilità di un nuovo inizio, proprio quello che in questi giorni non riesco a vedere.
Ho quindi ben poco da risponderti, se non sottoscrivendo quello che dici. Mi rivolgo al destinatario della tua lettera. Come piace a lui, è da cittadina – non da filosofa, né da militante, né tanto meno da intellettuale – che prendo parola, e la prendo soltanto per darla a Simone Weil, chiamata in causa a difendere un’abolizione dei partiti non meglio definita che con un “mandiamoli a casa tutti”. Nel sentire che lo slogan si è trasformato, qualche giorno fa, in un ancora più inquietante “vogliamo il 100%”, sono proprio le parole di Simone che mi tornano in mente: la logica partitica, scrive la Weil, si riassume tutta nel “un partito al potere e tutti gli altri in prigione”. Una svista, signor Grillo?
Sono tornata a leggere bene quel testo.
Tenuto conto che è scritto nel 1943, davanti a esiti e scenari tutto sommato ben peggiori dei nostri ultimi, quello che Simone vede di male nei partiti non è tanto il meccanismo di delegazione o di mediazione, ma il germe totalitario che in essi si annida in tre modi: nell’alimentare le passioni collettive, nel ricercare consenso e così potere, che per definizione segue una logica di accrescimento fine a se stessa, e nel sostituirsi al singolo nella ricerca del bene, cioè in qualcosa che può passare solo per la libertà di pensiero. Le collettività non pensano, dice l’Autrice. (Un’altra svista, a questo punto, invocare Simone e, insieme, la reintroduzione del vincolo di mandato?)
Allora, almeno finché vi appellate a Simone, che vogliate chiamarvi partito o movimento, che vogliate chiamarvi onorevoli o no, cari neoeletti, è su di voi l’onere della prova: dopo che le passioni collettive hanno riempito le vostre piazze, ora che il potere, che vi piaccia o no, ve lo hanno dato, e mentre vi professate depositari di un’idea di giustizia da confrontare “legge per legge”, tocca a voi dimostrare di essere estranei a tutti e tre questi pericoli.
Infatti, per quanto è sacro e insopprimibile nel cuore umano – nel mio e nel vostro, quindi – il bisogno di bene, Simone Weil ci ricorda anche che il bene non è una cosa che si può conquistare. Non lo risolvi in un 100%. Si manifesta in modo sempre provvisorio, sempre differente, sempre problematico. Nella misura in cui la politica si fa carico dell’insufficienza attiva di questa ricerca, la politica non è inciucio, ma è chiara bella e vera come la lettera di Luca. Non ha bisogno di nascondersi dietro a un cappuccio. Non ‘cinguetta’ dietro a una rete che non ha nulla di meno falsamente interlocutorio del salotto di Porta a Porta o degli allitteranti intellettuali di Gaber. Incontra il mondo e le cose, e con fatica ricerca una composizione tra i tanti livelli della realtà, come farebbe un artista, dice Simone, un compositore musicale o un poeta; non le sarebbe venuta in mente la parola ‘cittadino’. Attenzione: non un poeta al posto di un politico, ma un politico che agisce e che lo fa con la stessa arte che guida un poeta.
Voi dite che la politica è un servizio. C’è molto di bello anche in questo, per me. Ma è di nuovo Simone, che tutto era meno che un’intellettuale, a dirci di fare attenzione alle parole che usiamo: la politica era per lei un’azione di cura, e c’è una differenza sottile ma profonda tra il concetto di ‘servizio’ e quello di ‘cura’. A separarli è quell’afflato impercettibilmente sbilanciato sulla responsabilità di chi presta cura anziché servizio. Di nuovo, mentre il servizio deve restare cieco a tutto ciò che non è la manifesta espressione (se non l’ordine) del suo beneficiario, la cura apre gli occhi all’altro e, responsabile innanzitutto davanti alla sua fiducia, decide con e per lui. Di nuovo, è la responsabilità che segna la politica come cura: il RISPONDERE in tutte le sue accezioni e dimensioni, che non si intrappolano in un vincolo di mandato, non si esauriscono davanti alla legge, ma richiedono di vedere e vedere anche, sempre, un po’ più lontano. Senza la pretesa di superare un passato dato come “morto che cammina” e senza rischiare di dimenticare mai questo passato, ma solo per far accadere il nuovo davvero.
Buon lavoro.
Maria Giovanna
Ringrazio per i Vostri interventi. Avete spiegato molto meglio di me, semplice studente, l’intero senso della questione che ho voluto porre. Per concludere e togliere il disturbo vorrei ancora citare Bobbio che dice: ” Il compito dell’uomo di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccoglier certezze. Di certezze-rivestite della faziosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma-sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati. CULTURA significa MISURA, PONDERATEZZA, CIRCOSPEZIONE: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e NON PRONUNCIARSI A ORACOLO DAL QUALE DIPENDA, IN MODO IRREVOCABILE, UNA SCELTA PERENTORIA E DEFINITIVA” Era la sua filosofia militante, quella in perenne lotta contro gli attacchi, da qualsiasi parte provenissero, tradizionalisti o conservatori, alla libertà della ragione rischiaratrice. Da ”Invito al colloquio”, mai titolo fu più profetico oserei dire.
Se Grillo assumesse il siero della verità, la sua risposta sarebbe:
“Bobbio chi? Il centravanti della Sampdoria? E comunque sì, tutto bello, ma se io smetto di rilanciare a colpi di slogan e mi metto a fare ragionamenti politici, semplicemente sparisco, cari miei, quindi di avermi in versione costruttiva ve lo potete scordare. Aloha.”