C’è forse il tempo, in questa sosta berlinese, di indugiare su qualche lettura, non necessariamente legata a un ferreo programma di ricerca: magari semplicemente a lungo rimandata… e di scriverne a qualche amico, come si faceva un tempo. Si possono considerare questi appunti come lettere da Berlino, in cui si sfiorano piste che alcuni dei miei studenti o ex studenti stanno seguendo o potrebbero seguire, e forse non sono prive di interesse per gli altri frequentatori della nostra piccola comunità. Senza promettere un vero impegno per il seguito, perché è dolce godere un po’ di libertà.
Sono tornata su quel libro per molti versi straordinario che è Steppingstones toward an Ethic for Fellow Existers – Essays 1944-1983 di Herbert Spiegelberg (1986 Martinus Nijhoff Publishers. Herbert Spiegelberg, allievo di Husserl e di Pfaender, era nato a Strasburgo nel 1904, ed è morto a St Louis nel Missouri nel 1990). E comincio a intuirne il disegno, assai modestamente nascosto dal suo autore dietro un supposto tentativo di riunire pezzi sparsi di una lunga vita di studio che non riuscì a trovare il tempo (o l’ascolto?) per i temi fenomenologici che gli stavano a cuore (eppure dedicò al metodo e ad alcuni brillanti esempi della sua applicazione uno dei migliori testi introduttivi che ci siano in inglese: Doing Phenomenology: Essays On And In Phenomenology. The Hague: Nijhoff. 1975). Spiegelberg in effetti dall’emigrazione in poi si guadagnò un posto nell’accademia americana come semplice storico del movimento fenomenologico (tutti conoscono il suo The phenomenological movement. A historical Introduction, che nella sua terza edizione, in collaborazione con Karl Schumann, raggiunge la temibile stazza di 768 pagine). Ma aveva una Sache selbst a lui propria – e raramente si attaglia tanto bene quanto a lui il detto di Jeanne Hersch sul carattere estremamente personale dello stupore da cui nasce un pensiero. L’oggetto dello stupore di Herbert, bambino di forse cinque anni – come lui stesso racconta – è l’improvvisa “I am me experience”: la subitanea, conturbante evidenza della contingenza o del caso di essere io proprio questo e proprio qui, inevitabilmente e fatalmente incarnato in questo modo, in questo tempo, con questo passato. Questa esperienza diventa il nodo di tutti i fili del suo pensiero. È la questione della contingenza di circostanze di cui siamo costituiti: compresa l’enorme parte che nelle cose umane ha la fortuna morale – come ogni altra specie di caso o di fortuna. L’ Accident of Birth – l’insieme delle circostanze di un’esistenza umana – costituisce metà del fenomeno dell’identità personale, l’altra metà rinviando a ciò che per tutta la vita noi di queste circostanze facciamo – ogni giornata iniziando, perfino nella routine, un corso d’azione (il saggio On Intitiating avrei dovuto leggerlo prima di introdurre ne La novità di ognuno il concetto di inizialità, con il quale mi riferisco alla nostra capacità di iniziativa o di iniziare un nuovo corso d’azione, fenomeno che sempre più vedo come la caratteristica essenziale della vita personale).
Uno degli aspetti più interessanti del pensiero di Spiegelberg è proprio quello di indicare, sia pur sommariamente, le linee di un ponte che dall’interesse suo primo di giurista e filosofo del diritto, oltre che diretto allievo di Alexander Pfaender – quello per la natura delle norme giuridiche e morali e dei loro rapporti, conduce a una vera e propria possibile teoria dell’identità personale – e più in generale ai lineamenti di un’antropologia filosofica. E in questa direzione vorrei segnalare ai nostri amici rappresentanti dell’Embodied Mind Approach alla filosofia della mente, e a tutti coloro che hanno frequentato la nostra Winter School Sense and Sensibility un saggio compreso in questa raccolta, On the motility of the ego (65-86), che prende avvio da Erwin Straus (1930), Die Formen des Räumlichen. Ihre Bedeutung für die Motorik und die Wahrnehmung, tradotto da E. Eng in Straus (1966), Phenomenological Psychology, Basic Books 1966 (del resto Spiegelberg dedica a Erwin Straus pagine rilevanti nel suo The Phenomenological Movement). Il saggio sulla motilità dell’ego – termine con il quale Spiegelberg si riferisce all’ich-Leib, o al soggetto-personale-in-quanto-si-ritrova-incarnato-qui-e-ora, ovvero al soggetto dell’ “I am me experience” – fa parte di una trilogia fenomenologico-sperimentale che comincia con uno studio, parte autobiografico, parte basato su materiali letterari, e parte basato su un’inchiesta psicologico-empirica su questo vissuto nell’infanzia-adolescenza, attraverso un questionario più volte rivolto a nutriti campioni con l’aiuto dei colleghi psicologi (metodo che Spiegelberg adotta anche per raccogliere informazione di prima mano sul vissuto di varie specie di vittime dell’accident of birth, persone più o meno severamente disabili). La motilità dell’ego è il fenomeno che Husserl descrive come vissuto dell’Ich kann, dunque l’embodiement come esperienza di azione e azione virtuale – dove – anche attraverso un excursus strausiano sulla motilità dell’ego nell’esperienza musicale – si sottolinea come il fenomeno dell’embodiement (termine che Spiegelberg preferisce a “incarnation” per i sottotoni metafisici di quest’ultimo) sia un fenomeno non di identificazione, ma al contrario di trascendenza vissuta di “me” rispetto al “mio corpo”: trascendenza vincolata (“imprigionata” per Platone e i greci), ovviamente. Ma nello stato di ordinaria salute noi siamo piuttosto ignari del corpo, vi “passiamo attraverso” “in order to roam beyond in space and time, in the social and even in the intellectual and cultural world” (78). Prova ne sia che anche gli atleti (notizie raccolte sul campo, attraverso riferimenti a memorie di campioni) “with all their ‘body culture’ are oblivious of their body when they perform” (79). Né vivono necessariamente i confini fisici del loro corpo organico come limiti al proprio ego. Come i fasti di Oskar Pistorius, recentemente tornato alla cronaca sotto una luce tragica, ci aiutano a ricordare.
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