La fenomenologia della religione è un po’ la cenerentola dei nostri studi – e intendo “nostri” nel senso lato, simpatetico e vago della piccola comunità filosofica che frequenta questo Lab. Eppure di tanto in tanto sarebbe il caso di santificare le feste, o celebrare le domeniche, il cui ricordo resta iscritto nella cerimonia di apertura di ogni meditazione fenomenologica – l’epochè, la sospensione di ogni impegno attivo o proposizionale, di ogni opera e di ogni guerra, la vacanza della mente o il far posto e spazio in lei all’azzurra trasparenza in cui si stagliano le cose stesse, alla pace profonda della contemplazione. Colgo l’occasione dell’uscita nuova di un libro antichissimo e lontanissimo da ogni “nostra” (fenomenologica) tradizione, per santificare questa domenica segnalandovelo, come libro di esercizi eidetici occasionali. Da alternare, se si vuole, a qualche versetto satanico, perché sia chiaro cosa non è in questione. Vi consiglio questo Corano, libro di pace – in uscita nella collana Urra di Apogeo (Giangiacomo Feltrinelli Editore), ossia un’antologia, a cura di Massimo Jevolella, il più raffinato degli studiosi italiani di filosofia, mistica e poesia araba classica, dei “brani più belli tradotti e commentati con uno sguardo interculturale”, come recita il sottotitolo del libro. Come fa a prestarsi un testo come il Corano a un esercizio di fenomenologia? Non è difficile rispondere se pensiamo a cos’è la fenomenologia della religione (così ne approfitto per ricordarvi alcuni suoi classici recentemente resi disponibili in italiano, come L’eterno nell’uomo di Max Scheler (1921), Fenomenologia e religione di Jean Héring (1925)[6], e Vie della conoscenza di Dio di Edith Stein (1942)[7]). È l’atto di nascita di una possibilità nuova nella storia dei rapporti fra fede e ragione, fra religione e filosofia, fra teologia e metafisica (non intendo affermare che queste tre opposizioni si riducano a una). Una possibilità nuova, capace di rendere ragione all’uomo adulto, ai Lumi intellettuali e morali della modernità, ai principi di autonomia etica e di eguale dignità che stanno alla base degli ordinamenti civili moderni. E insieme di rendere dignità e nobiltà – diremmo, la nobiltà dell’età matura – alla vita spirituale, compresa quella delle persone che aderiscono a qualche fede confessionale, oltre ovviamente a quella delle persone che non aderiscono a nessuna di esse. Una possibilità di dare al secolo quel che è del secolo, e a Dio quel che è di Dio, e ad entrambi di dare a piene mani, senza nulla togliere. Ma chi conosce le splendide pagine di questi autori su questi argomenti? Non è un caso che ricompaiano così tardivamente in traduzioni italiane complete e affidabili. Oggi assistiamo da un lato al processo di “secolarizzazione”, il progressivo crescere della nostra ignoranza della trama simbolica e iconologica in altri tempi sottesa ai gesti e ai riti quotidiani, dall’altro ad una “ripoliticizzazione del religioso”. In che modo possono venire utili, alla nostra intelligenza di questo stato di cose, i nostri fenomenologi?
La risposta che suggerisco è: in quanto ci portano ciò che ci manca, ovvero, una consapevolezza dell’essenziale, senza la quale siamo relativamente incapaci di leggere e afferrare i mutamenti in atto. Con questa espressione intendo una capacità di cogliere in un fenomeno ciò che gli conferisce definitezza e identità, profondità e ricchezza: la sua essenza reale, il pezzo di realtà che manifesta. Torno allora, finalmente, a questa preziosa nuova traduzione del Corano. Un fenomenologo può lasciarsene attraversare con un muto interrogativo in testa: la religione (ogni religione) è un fenomeno, o mille e diversi? Manifesta forse una regione del mondo della vita, che non varia in alcuni suoi tratti definitori, anche se l’esperienza che possiamo farne e la coscienza che possiamo prenderne mutano e si approfondiscono con noi, con la nostra memoria e la nostra maturità intellettuale e morale? Oppure non è che un coacervo di tradizioni, di forze sociali ed economiche, di contingenze storiche e di pulsioni psichiche?
Jeanne Hersch, che per il vedere eidetico aveva un talento naturale (privo di erudizione dottrinale, non amava affatto Husserl) ritrovò un giorno un aspetto invariante delle religioni in quanto radicate in una qualche esperienza dell’assoluto, e lo estrasse come perla preziosa dal grande libro “multiculturale” che da Direttrice della Sezione Filosofica dell’UNESCO mise insieme nel 1968 per celebrare i vent’anni della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Nel giardino della sede storica dell’UNESCO, a Parigi, c’è un piccolo edificio di meditazione, cilindrico e vuoto. A rendere il senso di quello che prova chi vi sosti qualche istante non ci sono forse parole più adatte di queste:
«tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo … creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro … tutto il resto era orientato verso questo vuoto».
Le scrisse Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1934). Jeanne Hersch se ne dovette ricordare quando chiede ai rappresentanti di tutti i Paesi di inviarle testi tratti dalle loro tradizioni, e comunque anteriori al 1948, «in cui si manifestasse, secondo loro, in qualunque forma, un senso dei diritti dell’uomo come tale». Dai paesi più lontani, dalle epoche più remote, arrivavano a Parigi pensieri espressi in una babele di lingue, morte e vive: come delle offerte « con pietà conservate nei veli di parole d’altri tempi e altri luoghi », come si legge nella pagina introduttiva a questa Antologia mondiale della libertà, disponibile oggi sul sito dell’UNESCO in tutte le principali lingue del mondo. Ebbene: Jeanne Hersch ha fatto opera di variazione eidetica (per una trattazione approfondita dei concetti di essenza e variazione eidetica nel pensiero di Edmund Husserl si veda, in questo blog, l’articolo di Andrea Zhok: The Ontological Status of Essences in Husserl’s Thought, in uscita presso NEW YEARBOOK FOR PHENOMENOLOGY AND PHENOMENOLOGICAL PHILOSOPHY, vol. XI, 2012, 99-130), consentendoci di apprendere qualcosa di invariante nel fenomeno religioso. Ha visto – e ci ha permesso di vedere – che il vuoto che orienta in linea di principio o virtualmente c’è – in ogni religione. Cioè che la capacità di distacco, di riconoscere che anche l’altro ha in vista l’assoluto, e che noi non possediamo l’assoluto al quale ci riferiamo noi. La trascendenza non posseduta è il nome herschiano del vuoto che orienta.
L’intuizione geniale di Jeanne Hersch sta forse nell’aver visto la potenzialità anti-idolatrica che ogni cultura teologica – nel suo nucleo profondo, quello spirituale, estraneo alla politica – porta in sé. E in questo senso, nell’aver visto nel cuore di ogni jihad, di ogni guerra esterna o interiore che la sete umana di assoluto produce, la sorgente ultima e paradossale della pace: la trascendenza non posseduta e non disponibile dell’assoluto. Nominare il nome di Dio invano è appropriarsi del suo nome per farne strumento di umano potere. È idolatria e peccato contro lo spirito. Al fondo, nel suo cuore spirituale, ogni religione dice questo. Provate ora a leggere questo Corano. Provate a vedere se questo tratto eidetico lo si ritrova o no. Se mente il titolo: Corano, libro di pace.
Commenti recenti