Si era dunque nascosto il coraggioso Bertolaso. E ora che lo abbiamo tirato fuori dal suo buco non riesce neppure ad ammettere che è stato lui a disonorare i sette scienziati della Commissione Grandi Rischi. Si tira da parte: sono affari vostri, io non c’entro. Quattro parole in rete, per fingersi vittima e perseguitato. Neppure un accenno di scuse agli scienziati condannati dal giudice dell’Aquila per avere asservito la verità del terremoto ai suoi interessi di governo, alla sua voglia irresponsabile di tranquillizzare gli aquilani imbrogliandoli. La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berluconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica.it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti , come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’ importante è che tranquillizzino», e poi i verbali falsificati…: altro che processo a Galileo! È Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana. (continua la lettura)
Qui c’è davvero materia per un enorme dibattito. La distinzione tra scienza (comunità scientifica) e scienziati è una distinzione sottile che spesso viene malauguratamente trascurata da chi parte lancia in resta in attacco o in difesa della scienza moderna. Questi ultimi, in particolare, ignorano a loro rischio e pericolo il fatto che la scienza è anche una pratica sociale (e quindi “impura” come qualsiasi altra pratica sociale che si rispetti). La critica dei decostruzionismi è sacrosanta, ma far credere che la comunità scientifica sia composta solo da avatar di Galileo è un errore imperdonabile, che segnala un allarmante deficit nella comprensione della realtà.
Per fare un esempio solo tangenziale, il tono sprezzante con cui sono stati accolti negli ultimi anni i lavori di un pensatore serio come Thomas Nagel (ad esempio questo: http://www.oup.com/us/catalog/general/subject/Philosophy/Science/?ci=9780199919758&view=usa) è il sintomo di una suscettibilità che trovo incompatibile con l’equanimità e l’apertura mentale che dovrebbe caratterizzare ogni atteggiamento autenticamente scientifico.
Osservazioni molto pertinenti, su un tema, quello dell’uso e dell’abuso pubblico della scienza, come ben sa Paolo, caro anche a me, e sul quale spero un giorno riusciremo a raccogliere da qualche parte le nostre idee. Aggiungo che, forse, vale la pena di notare una certa analogia tra la reazione tanto sdegnata quanto imprudente della “comunità scientifica” alla condanna dei loro pari e la reazione della “comunità giornalistica” alla sentenza su Sallusti. È chiaro che in entrambi i casi era ed è giusto interrogarsi, come Merlo fa, sul livello strettamente politico della questione. E tuttavia, in quella difficile zona limite in cui la deontologia professionale, se priva del suo radicamento in un’etica generale e pubblica, negozia con il potere (politico, economico ecc) e la sua fame di ideologia e propaganda, richiamarsi ai sacri valori della libertà di ricerca e di stampa, oltre a non reggere alla prova dei fatti (si leggano le trascrizioni delle intercettazioni di Bertolaso e si ricordi che Sallusti non rettificò il falso che aveva dichiarato tramite il suo giornale), c’impedisce di mettere a fuoco quanto ingenua (o forse si dovrebbe dire: inconsapevolmente o consapevolmente ideologica) sia la nostra idea di scienza e di stampa. Non si tratta, un’altra volta di troppo, di ridurre entrambe a mere sovrastrutture, con vecchio lessico e modo di pensare. Ma di comprendere come una deontologia dimentica dell’etica che la fonda – se chiamata alla prova – si fa quasi inevitabilmente difesa corporativa del particulare, fazione astiosa e arrogante che invoca attenuanti, si scarica della responsabilità, scambiando i privilegi che le sono stati condizionatamente accordati dal resto della società per diritti, anzi per sacri e inviolabili diritti. Il pasticcio che sta nascendo a seguito della emergenziale manomissione delle norme sulla diffamazione scatenata dall’altrimenti banale “caso Sallusti“, è esemplificativo di che cosa accada quando la deontologia, comunque normata, perde il suo terreno d’aderenza all’etica generale e pubblica che la dovrebbe sostenere. Non mi stupirei, a questo punto, della richiesta di un intervento legislativo che stabilisca anche le giuste condizioni sotto le quali i luminari della Grandi Rischi possano risalire a bordo. Senza correre più rischi, of course.
L’esercizio fenomenologico della sospensione del giudizio e della descrizione attenta dei fenomeni (dei ‘fatti’ nel senso più ampio) sarebbe da consigliare come rimedio terapeutico a parte consistente della classe dirigente italiana, uomini di scienza inclusi. Al contrario, l’arroganza di coloro i quali sono abituati a non essere mai contraddetti anche quando dicono sciocchezze pullula, prospera e produce danni.
Qui purtroppo gioca anche un ruolo importante la sensibilità popolare media: all’italiano piace il leader assertorio ed un po’ sprezzante, e gli aspiranti capetti si accodano d’istinto a questo stile. Per contrasto, se sentite parlare un inglese ‘bene’ potete riscontrare la frequenza, del tutto retorica beninteso, di indecisioni (eeeem…) e di richieste di conferma (isn’t it?), che segnalano l’apprezzamento diffuso per un atteggiamento problematico. Anche su simili semplici differenze nel costume espressivo si gioca spesso la qualità della nostra classe dirigente.