Forse Simone Weil non aveva una grande opinione della cultura e della civiltà dell’Umanesimo. Se almeno dobbiamo credere agli accenni che troviamo nello splendido saggio sull’ispirazione occitanica, che Domenico Canciani interpreta nel suo ultimo contributo ai Cahiers Simone Weil:
“L’esprit de la civilisation romane et occitanienne est réapparu quelque temps après dans la soi-disant Renaissance, mais appauvri de l’élément surnaturel qui en était la source et le couronnement. Cet esprit s’est dégradé dans l’humanisme, qui, il est vrai, a reconnu que ‘la vérité, la beauté, la liberté, l’égalité sont d’un prix infini, mais [a eu tort] de croire que l’homme peut se les procurer sans la grâce’. Comment espérer redonner vie à un tel miracle, en reproduire les
conditions?”
È vero: la lucidissima pietà che soffia attraverso tutte le pagine di Simone Weil, fatta di cataro amore della trascendenza e di compassione dei vinti, riserva parole di compianto per la mistica, cortese e sconfitta civiltà occitanica, e un sospiro di biasimo per il sogno di potenza, e di auto-divinizzazione che si leva in cuore all’Uomo Vitruviano (o Leonardesco), inscritto in un cerchio e insieme in un quadrato, in un modo che evoca – e secondo recenti studi suggerisce – una soluzione in infiniti passi all’“insolubile” quadratura del cerchio.
Non è allora una specie di quadratura del cerchio anche questa, una sorta di hybris del ridurre ad uno cose che distano fra loro infiniti passi, ripubblicare insieme questi saggi di Gianfranco Draghi su Simone Weil e su Leon Battista Alberti? Vediamo, anzitutto, di quali saggi si tratta.
Simone Weil e il suo Cristo credibile quasi quasi persino per un ateo
“!938 – 1942… A metà novembre un’esperienza mistica cambierà completamente il corso della sua vita. Mentre recita Love di George Herbert, avrà il primo reale incontro col Cristo. Di quest’esperienza farà parola solo nel 1942 in due lettere inviate a Padre Perrin e a Joë Bousquet. Riferisce di aver recitato dapprima questo testo come una semplice poesia e che, senza accorgersene, era diventata una preghiera. «E’ durante una di queste recite che Cristo stesso è sceso e mi ha presa. Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto questa possibilità, di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, tra un essere umano e Dio. Avevo vagamente sentito parlare di cose simili, ma non ci avevo mai creduto». Di tenore simile anche la seconda lettera, in cui Simone accentua maggiormente la sua estraneità culturale a manifestazioni ed esperienze del genere; questo fatto, ai suoi stessi occhi, fornisce una garanzia in più della genuinità delle sue esperienze: «una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, inaccessibile ai sensi e all’immaginazione, analogo all’amore che traspare attraverso il più tenero sorriso di un essere amato” (Biografia di Simone Weil, a cura di Alessandro Di Grazia in: Simone Weil, l’Iliade o il poema della forza, Asterios Editore, pag. 96).
E’ persuasa, Simone Weil, che Cristo le ha fatto sentire da vicino la sua presenza. Un Cristo eccezionale per una donna eccezionale. Un Cristo eccezionale perché non si fa vedere, non mostra le sue piaghe sanguinolente, non piange né ride, non fa vittime, non manda malanni, non offre corone di spine, non chiede cappelle in suo onore o processioni di preti, e non emana profumo di lavanda, o di viola o di gelsomino. E’ un Cristo che comunica amore, che riempie d’intensa segreta gioia. Di questo Cristo fa esperienza Simone Weil, e non ne fa parola con nessuno, se non qualche anno più tardi, in una lettera indirizzata a persone che sa non grideranno al miracolo. Un Cristo credibile. Quasi quasi persino per un ateo.
Carmelo Dini
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