Le polemiche seguite all’annullamento con rinvio, da parte della Corte di Cassazione, della sentenza di condanna nei confronti del senatore Dell’Utri, costituiscono una conferma (scontata?) della persistente alterazione del clima dialettico sulle questioni inerenti la giustizia penale. Da un lato, la “delusione” di aspettative che hanno enfatizzato e sovraccaricato il ruolo ed il significato della vicenda processuale; dall’altro, un possibile argomento, pretestuoso ma purtroppo non del tutto inefficace nella retorica mediatica, per seguitare ad invocare la “teoria del complotto” e della “persecuzione” giudiziaria.
Al di là del contenuto oramai stereotipico delle reazioni della politica e dei media di fronte ad esiti di vicende processuali riguardanti soggetti “eccellenti”, va rilevato come in questo caso l’attenzione giornalistica si sia spinta fino a compiere analisi testuali del provvedimento criticato (nella fattispecie, la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale dott. Francesco Iacoviello, linkata e “annotata” nel sito de Il Fatto Quotidiano, 14 marzo 2012). Un tentativo in sè apprezzabile, nella prospettiva di consentire al pubblico dei “non addetti ai lavori” l’analisi tramite atti processuali della complessità della vicenda.
Ciò di cui l’informazione giornalistica non ha dato conto, e che risulta essenziale ai fini di un inquadramento sia delle affermazioni del Sostituto Procuratore Generale, che delle motivazioni della Corte di Cassazione, recentemente depositate, sono le criticità che da sempre si addensano sull’istituto del concorso cosiddetto “esterno” in un reato associativo.
Sebbene sia arduo sintetizzare in poche righe i risvolti problematici della configurabilità del concorso esterno in un reato associativo, tenterò comunque di fornire una breve panoramica, senza peraltro entrare nel merito della vicenda processuale che vede imputato il senatore Dell’Utri.
Vanno fatte alcune premesse: principio fondamentale del diritto penale moderno, e del diritto penale italiano, è il cosiddetto principio di legalità: sintetizzato nella formula nullum crimen, nulla pena sine praevia lege penali, esso esprime, nella sua dimensione fondamentale, l’esigenza che le condotte penalmente rilevanti (ossia i comportamenti umani alla cui commissione l’ordinamento collega una sanzione penale), siano previste e descritte in modo preciso da una fonte normativa di rango primario (le legge ordinaria formale in primis), la quale deve essere entrata in vigore prima del fatto concretamente commesso. Questo, in estrema sintesi, il contenuto del principio che troviamo espresso nel codice Rocco, e soprattutto nella Carta Costituzionale all’art. 25. Deve essere la legge (in quanto atto promanante dal potere che si intende come rappresentativo della volontà popolare, ossia il potere legislativo) ad introdurre nell’ordinamento norme penali, adottando una descrizione di tipologie di comportamento il più possibile precisa, in modo da garantire al cittadino di poter prevedere le conseguenze del proprio comportamento: la descrizione del fatto ha il compito di tracciare la linea di confine tra condotta lecita ed illecita.
Le fattispecie di reato (classificabili, in base al tipo di sanzione prevista, come delitti e contravvenzioni) sono costituite dalla descrizione di tipi di fatto. Nel linguaggio della scienza penale, il problema della conformità del fatto concreto alla descrizione astratta della norma incriminatrice va sotto la formula giudizio di tipicità: è tipico il fatto che si realizza in modo corrispondente a quanto previsto da una norma incriminatrice.
Dal punto di vista del numero di soggetti richiesto per l’integrazione di una fattispecie di reato, si è soliti distinguere tra fattispecie monosoggettive e plurisoggettive: nelle prime, il fatto tipico è strutturato come condotta di un singolo soggetto: ad esempio il furto (“Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene…” art. 624 c.p.) o l’omicidio (“Chiunque cagiona la morte di un uomo…” art. 575 c.p.). Fatti penalmente rilevanti possono tuttavia essere (e nella prassi è un dato frequente) il risultato dell’agire di più persone. Per le fattispecie che il codice descrive nella forma monosoggettiva, si apre il problema della qualificazione di condotte che, pur non essendo tipiche (cioè non essendosi svolte integrando tutte le modalità richieste dalla norma incriminatrice), appaiano nondimeno dotate di una rilevanza nella commissione del fatto di reato: per ovviare a tale problema ed estendere l’ambito della punibilità, si ha il cosiddetto “concorso di persone nel reato”, un istituto che anche il nostro codice prevede all’art. 110. La norma sul concorso di persone dispone che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita” (naturalmente la questione più complessa è definire le condizioni in presenza delle quali si possa dire che una persona “concorre”. La disposizione codicistica si limita ad un enunciato che apre un vasto novero di problemi applicativi che non è possibile illustrare in questa sede).
Accanto a norme che prevedono tipologie di condotte la cui realizzazione è prevista in forma monosoggettiva, e suscettibili di essere ampliate tramite l’istituto del concorso di persone, il codice penale italiano prevede anche fattispecie nelle quali l’operato di più persone è elemento strutturale: in altri termini, fattispecie plurisoggettive, dove il concorso fra più soggetti è la regola, in quanto previsto nella descrizione della norma incriminatrice. Tali fattispecie sono anche definite a concorso necessario, diversamente dalle fattispecie strutturate in forma monosoggettiva, dove l’ipotesi del concorso fra più persone è solo eventuale.
Sono fattispecie a concorso necessario i cosiddetti reati associativi: reati come l’associazione a delinquere semplice (art. 416 c.p.), e come l’associazione di tipo mafioso (art. 416bis c.p.), richiedono l’agire di più soggetti. Vediamo, in particolare, come è strutturata la norma di cui all’art. 416bis c.p., ossia l’associazione di tipo mafioso: i primi due commi dispongono che
«Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da sette a dodici anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da nove a quattordici anni».
Abbiamo qui descritte due tipologie di condotte. Da un lato, la mera partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso: un soggetto incorre nella sanzione penale per il solo fatto di essere parte di un’associazione a delinquere, e nel caso di specie, di un’associazione di tipo mafioso. Dall’altro, è prevista una sanzione più elevata per coloro che ricoprono ruoli di spicco all’interno dell’associazione, ossia la promuovono, la dirigono o la organizzano.
Ma cosa significa partecipare ad un’associazione per delinquere di stampo mafioso? Quali sono i requisiti minimi per potersi affermare che un soggetto è partecipe? Dietro tale interrogativo si aprono ardui problemi che interpellano la scienza giuridica ed il mondo degli applicatori del diritto.
Il codice penale si limita ad incriminare la condotta di partecipazione, ma non esplicita i requisiti minimi affinché una condotta si configuri come partecipativa. La dottrina penalistica e la giurisprudenza si sono adoperate per elaborare dei criteri. Non potendo in questa sede offrire un quadro esaustivo degli orientamenti, va segnalato che l’orientamento attualmente maggioritario propende per una concezione formale: è partecipe il soggetto che ha acquisito il ruolo di vero e proprio associato, entrando formalmente a far parte dell’associazione. In questo modo si tende a fissare dei requisiti più rigorosi, che limitano tale qualifica ai casi in cui vi sia una vera e propria affiliazione.
Un concetto ristretto di partecipe rischia però di lasciare al di fuori dell’ambito applicativo della norma i casi in cui un soggetto abbia compiuto atti a vantaggio dell’associazione mafiosa pur senza esserne formalmente affiliato. Il problema del concorso esterno sorge pertanto di fronte a condotte che non rientrano negli schemi di una partecipazione intesa come adesione formale: comportamenti che appaiono come penalmente atipici (e dunque leciti), i quali però, a seguito di una lettura che ne analizzi i nessi e le implicazioni con le attività dell’associazione criminosa, possono comunque denotare un’idoneità al suo sostegno o al suo rafforzamento.
È a fronte di tali problemi che si configura l’interrogativo se tali condotte di favore nei confronti dell’associazione criminosa, poste in essere da soggetti non interni alla struttura associativa e dunque non rientranti nel paradigma della fattispecie di reato dell’art. 416bis, possano essere incriminate, tramite l’applicazione dell’art. 110 (concorso di persone), come condotte di partecipazione “esterna”: una forma di concorso “eventuale” in un reato che di per sé risulta già strutturato nella forma plurisoggettiva. Detto in altri termini: è possibile concorrere “da esterni” e favorire l’associazione senza divenirne parte?
Gli sviluppi giurisprudenziali, non senza contrasti, attualmente riconoscono la legittimità, quantomeno in linea di principio, della figura del concorso esterno nel reato associativo, facendo leva sulla disciplina generale del concorso di persone ed estendendo così la rilevanza penale a condotte atipiche rispetto a quanto previsto nella fattispecie del reato associativo. Ecco dunque l’istituto del concorso cosiddetto “esterno”.
È importante specificare che formalmente non esiste una fattispecie penale che incrimina il concorso esterno: esiste una norma che descrive l’ipotesi dell’associazione a delinquere di tipo mafioso (416bis c.p.). Il concorso esterno è il frutto dell’estensione dell’ambito applicativo di tale norma, che la giurisprudenza attua per mezzo dell’articolo 110 c.p. Si tratta in definitiva di un istituto la cui fisionomia discende interamente da interpretazioni giudiziali: è questo il motivo per cui spesso lo si definisce come istituto di “natura giurisprudenziale”. Da ciò l’esigenza di precisarne presupposti e limiti.
Gli attuali confini del concorso esterno sono l’esito di importanti sentenze della Corte di Cassazione; ricordiamo in particolare una importante pronuncia del 2005 (nota come sentenza Mannino) nella quale si dice che “si definisce “partecipe” colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima. (…) Assume invece la veste di concorrente “esterno” il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “fa parte”), fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima”.
Il fatto che si tratti di un istituto i cui confini sono così sensibili alle oscillazioni di pensiero della giurisprudenza, ne pone in risalto la problematicità all’interno di un ordinamento penale che si fonda sul principio di legalità dei delitti e delle pene. La scienza penale italiana da tempo richiama l’attenzione sulle criticità del concorso esterno: si è osservato che esso è una figura “idonea ad includere fenomeni di contiguità attiva ed illecita ad associazioni criminali, ma va maneggiata con estrema cautela”, e che “proprio per evitare un eccesso di discrezionalità giudiziale da caso a caso, sarebbe auspicabile un intervento legislativo diretto a precisare, mediante la configurazione di una o più fattispecie incriminatici di parte speciale, le forme di contiguità davvero intollerabili e perciò meritevoli di repressione penale” (la prima affermazione è di D. Pulitanò, la seconda di G. Fiandaca).
Di tali criticità sarebbe bene dare conto anche a livello di comunicazione pubblica, al fine di offrire un’adeguata chiave di lettura delle vicende.
Nel complesso, sia la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Iacoviello, che la sentenza di annullamento della Corte di Cassazione, pongono in luce diversi ambiti problematici meritevoli di approfondimento (il problema dei requisiti necessari per la configurabilità del concorso esterno nel reato associativo è forse il principale, non l’unico), i quali esortano ad una seria riflessione, sebbene del tutto oscurati dal clamore mediatico.
Al fine di offrire una panoramica comprensiva anche del punto di vista di esperti del settore, i cui contributi si spera possano fornire strumenti di analisi critica per non restare abbagliati da certe banalizzazioni mediatiche, ecco alcuni link dal sito http://www.penalecontemporaneo.it, relativi alla requisitoria del dott. Iacoviello, alle motivazioni della Corte di Cassazione, e ad alcuni commenti “a caldo” (elaborati prima del deposito delle motivazioni della Cassazione) da parte di quattro autorevoli esponenti della scienza penale italiana (i professori Domenico Pulitanò, Giovanni Fiandaca, Costantino Visconti, Vincenzo Maiello) e di un magistrato del Tribunale di Palermo (dott. Piergiorgio Morosini):
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1331539353Requisitoria%20Iacoviello.pdf
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1335279282sentenza%20dellutri.pdf
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1332277659Pulitano%20su%20Iacoviello.pdf
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1331919165Fiandaca%20su%20processo%20DellUtri.pdf
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1333103153Maiello%20concorso%20esterno.pdf
http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1332355570concorso%20esterno%204%20DPC.pdf
Alleghiamo infine la rivista Criminalia del 2008, nella quale è pubblicato l’articolo del dott. Iacoviello che contiene la tanto discussa affermazione secondo cui “In questo Paese non sappiamo se non se ne può più della mafia o dei processi di mafia” (l’articolo va da pag. 262 a pag. 281).
Ecco può darsi che a Federico Bacco questo mio commento sembri incompetente e ideologico – la scienza del diritto purtroppo debbo lasciarla alla prossima vita – e allora la formulo come domanda: ma che cosa c’è di male nel procedere “giurisprudenziale”? La risposta verso la quale io tenderei è che non c’è nulla di male per chi crede all’esercizio razionale del pensiero pratico, vale a dire alla tesi che anche i giudizi di valore, come sono a diverso titolo i giudizi che predicano fallo morale o rilevanza penale, hanno condizioni di verità e metodi di verifica, il che significa che quando sono sbagliati è possibile, in linea di principio, a ciascuno vederlo. Dopotutto, non mi sembra che nei paesi dove la componente giurisprudenziale nella formazione del giudizio è maggiore per tradizione che da noi, la giustizia funzioni in modo più soggettivo, più arbitrario, più relativo. Al contrario, sembra. Ma vorrei aggiungere che in un caso come questo non c’è forse neppur bisogno di invocare i giudizi di valore: sembrerebbe anzi che abbiamo una terribile urgenza di adattare i concetti, siano essi di tipo normativo o solo di tipo interpretativo, ai puri e semplici fatti. Se almeno possiamo credere a Il Fatto Quotidiano del 26 aprile scorso, che per la penna di Travaglio scrive: «Per incredibile che possa sembrare, la Cassazione dice che B., tre volte premier, ha finanziato la mafia per 30 anni e il suo braccio destro Dell’Utri, creatore del suo partito e parlamentare da 16 anni, era il rappresentante di Cosa Nostra in casa B.». È vero questo? I lettori di giornali più “moderati” difficilmente potranno formarsi un giudizio indipendente, se è vero anche (come è vero) che «sulla prima pagina del Corriere non c’è una sillaba. La notizia contraddice la linea del giornale, dunque va nascosta a pag. 6 (anche perché la prima è dominata da un’imperdibile foto di New York anni ‘10): a darle risalto, uno potrebbe pensare che avevano torto i vari Battista, Panebianco, Ostellino e ragione chi“demonizzava” la Banda B.». Allora a chi dobbiamo credere, caro Federico?
Io avevo capito, dalla lettura dei giornali, che mentre il dott. Jacoviello si è dichiarato molto scettico sulla configurabilità del reato di concorso esterno in associazone mafiosa, l’organo giudicante, al quale la sua arringa era rivolta, non lo è affatto. E che anzi la sentenza recepisce e addirittura sviluppa le giurisprudenza precedente.
Non mi è chiaro se ciò che preoccupa il dott. Bacco, che ringrazio per la sua pregevole sitografia, sia l’imperfetta tipizzazione o il fatto che la tipizzazione (ritenuta largamente sufficiente, credo, dalla sentenza della Cassazione) non sia fornita da una legge. Sembrano due requisiti del tutto indipendenti l’uno dall’altro…
L’interessante quesito della professoressa De Monticelli sul diritto giurisprudenziale solleva questioni estremamente problematiche, attualmente oggetto di discussione fra i penalisti più autorevoli, e in merito alle quali posso solo provare ad addentrarmi in una breve (e ovviamente approssimativa!) risposta.
Da un certo punto di vista, il diritto (non solo penale) “vive” nella realtà come diritto giurisprudenziale. La giurisprudenza (termine con cui si è soliti indicare gli esiti interpretativi delle disposizioni normative da parte dei giudici) è ciò che rappresenta il “diritto vivente”. È questo un aspetto del tutto fisiologico del mondo del diritto, in quanto l’attività del giudice è necessariamente interpretazione di disposizioni di legge per applicarle a casi concreti. La norma vive anche grazie agli interpreti, che contribuiscono in modo determinante a marcarne il concreto ambito applicativo.
Interpretare un enunciato generale ed astratto, come può essere una disposizione del codice penale, per applicarlo a casi concreti, significa vagliare l’area di significato dei termini dell’enunciato normativo: un’operazione intellettuale nella quale una parte rilevante è giocata da posizioni di valore, interessi, precomprensioni, e che conduce a risultati tendenzialmente suscettibili di essere messi sempre in discussione: nell’interpretazione delle norme la diversità di approcci può dar luogo alla formazione di orientamenti di pensiero talvolta di segno opposto. Il “procedere giurisprudenziale” di un istituto o di una norma si identifica con i mutamenti, le evoluzioni (e anche le involuzioni) cui esso è soggetto.
Con riferimento al diritto penale, tale procedimento deve svilupparsi sotto l’egida e nel rispetto del principio di legalità: è all’interno di una “cornice” e di limiti che non debbono essere valicati (vedi il divieto di analogia) che si sviluppano gli orientamenti interpretativi nel diritto penale. Ciò che potrebbe risultare fuori dalle regole è una giurisprudenza “creativa”, che si distacca del tutto dalla formulazione della fattispecie. Ed il senso di ciò è comprensibile: si tratta di ragioni di garanzia dei diritti individuali contro eventuali arbitri del potere punitivo.
Nel caso del concorso esterno, l’aspetto che tutt’oggi induce la dottrina penalistica a suggerire cautela nell’applicazione, è che esso nasce come istituto di natura puramente giurisprudenziale: già in astratto manca la cornice all’interno della quale dovrebbe potersi individuare la trama di situazioni suscettibili di rilevanza penale. Non c’è la cosiddetta “tipizzazione legislativa”.
Ciò non significa che tale istituto debba essere abbandonato: al contrario, anche le voci critiche ne riconoscono la fondamentale importanza per la lotta al fenomeno della criminalità mafiosa. Un terreno dove le condotte di sostegno, fiancheggiamento, contiguità all’associazione criminale (specie ove si tratti di connessioni con il potere politico) assumono toni sfumati, ambigui, che ne rendono particolarmente difficile la repressione in sede penale. Va detto che, pur in assenza di una tipizzazione formale, le acquisizioni della giurisprudenza, in primis della Corte di Cassazione, sono giunte ad un elevato livello di elaborazione e di precisione nell’identificazione dei presupposti. Nondimeno, sembra persistere una certa “liquidità”, con conseguenti possibili eccessi di discrezionalità applicativa, ed è per questo che, secondo taluni autori, sarebbe preferibile l’elaborazione di una norma di riferimento.
Altro problema è quello relativo ad un diritto penale di natura giurisprudenziale, di una giurisprudenza che sia essa stessa formalmente “fonte” del diritto. Si tratta di una prospettiva fortemente discussa tra i più autorevoli penalisti. Il tema è troppo complesso per essere esposto in questa sede.
Mi limito però ad un’osservazione in risposta allo spunto offerto dalla professoressa De Monticelli. Proprio partendo dal presupposto che i giudizi di valore possano avere condizioni di verità e metodi di verifica, e che quando sono sbagliati sia possibile, in linea di principio, vederlo, è possibile, a mio avviso, aprire un discorso sui pro e contro di una “giurisprudenza come fonte del diritto”. L’incedere della giurisprudenza porta ad una varietà di risultati, molti dei quali sono altamente positivi, talvolta costituendo dei veri e propri apripista per l’affermazione di diritti di libertà (penso alle recenti sentenze sul fine vita adottate nei casi Welby ed Englaro, le quali sono realmente “illuminate”, del tutto distanti dall’oscuro ed inquietante scenario illiberale che il legislatore vorrebbe imporre con il suo disegno (o divieto?) sul testamento biologico). Talvolta si hanno decisioni ed orientamenti che portano ad esiti più “discutibili”. Esiste la possibilità di consolidare un metodo di verifica? Capita che anche certe sentenze considerate “meno buone” finiscano per creare un orientamento e “fare scuola”: si tratta di uno dei tanti “lati oscuri” del diritto, e che con riferimento al diritto penale può avere conseguenze anche gravi sul piano delle libertà individuali.
Eventuali vincoli a livello di sistema, nella veste di principi normativi che affermino la preminenza di determinate garanzie contro un’assoluta libertà o creatività da parte della giurisprudenza, hanno proprio la funzione di evitare, nei limiti del possibile, che sia il “lato oscuro” del penale a dominare.
Un sistema che decidesse di riconoscere alla giurisprudenza il ruolo di fonte, dovrebbe approntare anche strumenti tali da mettere in condizione di distinguere acquisizioni giurisprudenziali positive da quelle meno positive. È fondamentale che l’assestarsi della giurisprudenza su un orientamento discenda da regole improntate non ad una mera logica formale, ma che sia sempre più stringente (e decisiva) la correttezza del ragionamento, ossia il combinato tra validità logica e coerenza con premesse di verità (soundness).
In linea di massima, un allontanamento da principi regolatori, come il principio di legalità, per dare spazio ad una “libertà giurisprudenziale”, è oggi visto da parte della dottrina penalistica con diffidenza. Si tratta ad ogni modo di temi che la scienza penale sta affrontando e continuerà ad affrontare, e per i quali sarebbe fortemente auspicabile anche un’interazione sinergica con le discipline filosofiche, magari anche attraverso qualche incontro in cui discutere!
Quanto al problema delle fonti a cui poter credere…beh…temo che esso sia destinato a restare a lungo aperto! È un problema che assume rilevanza per l’accertamento di responsabilità (anche) penali, ma è prima di tutto un problema che interessa il cittadino e le sue possibilità di rapportarsi in modo consapevole ed informato alla realtà.
Condizione preliminare è che certi fatti vengano portati a conoscenza della collettività: è assolutamente biasimevole che in alcune occasioni, più o meno recenti, la notizia dell’accertamento giuridico di fatti e di conseguenti responsabilità penali di esponenti del mondo politico ed istituzionale non abbia ottenuto l’adeguato risalto nei principali organi di informazione (o addirittura sia stato esposto in modo mistificatorio!!!).
Quando poi i fatti vengono riportati si apre il problema di quale distanza critica si possa o si debba mantenere, per non restare abbagliati dalla retorica mediatica. Con riferimento a vicende che abbiano una dimensione pubblica, potrebbe essere forse ragionevole, a fini informativi, prediligere fonti che abbiano un rapporto il più possibile diretto con i fatti, e la cui metodologia risulti essere il più possibile lontana da interessi ulteriori rispetto a quello di una semplice descrizione. Da questo punto di vista, le sentenze, ove accessibili, possono essere più affidabili degli articoli di giornale, ma ciò non rappresenta comunque una chiave risolutiva: vi possono essere fatti di assoluta importanza nella vita sociale e politica di un paese che probabilmente non diverranno mai oggetto di sentenze (poiché restano al di fuori del penalmente rilevante), che i giornali volutamente ometteranno di divulgare, e che nondimeno sarebbe bene (a volte potrebbe essere fondamentale) che un cittadino conoscesse: fatti che invece purtroppo finiscono per “scomparire”. È un problema serio, di fronte al quale attualmente non ho risposte: mi limiterei a dire quantomeno che sono proprio questi problemi che ci mettono di fronte all’importanza del tema della verità in una democrazia liberale (e dunque a non liquidare il tutto con dichiarazioni di “addio alla verità”!).