Non c’entra direttamente con la fenomenologia il film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, da qualche giorno nelle sale. Parla dell’attentato stragista di Piazza Fontana, dove il 12 dicembre 1969 una bomba esplose all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano uccidendo 17 persone, ferendone 88, e cambiando (in peggio) la storia di questo Paese. C’entra, però, con il problema di riuscire, nel discorso, ad andare alle cose stesse. Anche quando il discorso non è filosofico e non è fatto solo di parole, come accade in un film.
Dirò subito che il film mi è piaciuto. Mi ha appassionato, indignato, commosso, coinvolto nella vicenda come da tempo non mi capitava. E sì che ho sempre seguito e partecipato alla vita civile e politica. E sì che ne ho seguiti di scontri, verbali e meno, su quella strage e tutto quello che ne seguì. Da anni, però, non era più così. Non ne leggevo più, se non distrattamente. Perché dopo quarant’anni e tanti processi senza condanne, mi sembrava inutile.
Invece non lo era. E lo dimostra il modo in cui Romanzo di una strage è stato attaccato, diciamolo, un po’ da tutti. La rassegna non è esaustiva, ma dà l’idea. C’è chi, come l’ex fascista ed ex ministro del governo Berlusconi Maurizio Gasparri s’indigna per l’inadeguata rappresentazione della violenta campagna di stampa contro il commissario Luigi Calabresi guidata dal giornale della sinistra extraparlamentare Lotta continua. Mario Calabresi, direttore de La Stampa e figlio del commissario, lamenta non sia emerso il tormento personale del padre per la morte di Pinelli, oltreché la responsabilità di Lotta continua nel linciaggio mediatico e nell’omicidio del commissario, che la condanna definitiva di militanti e dirigenti del gruppo, Stefano Bompressi, Leonardo Marino (esecutori), Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri (mandanti), avrebbe ormai provato. Curzio Maltese, su Repubblica, contesta il “finale bipartisan” che, romanzando sulla molto discutibile tesi della bomba (innocua) degli anarchici “raddoppiata” da quella (stragista) dei fascisti, esposta dal giornalista Paolo Cucchiarelli nel libro Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie, 2009), avrebbe finito col mettere sullo stesso piano i capri espiatori anarchici con i veri responsabili della strage, ovvero, come è stato accertato processualmente, elementi della destra fascista padovana ingaggiati da Franco Freda e Giovanni Ventura di Ordine Nuovo. Corrado Stajano, eccezionale testimone di quegli anni, e tra i giornalisti che seguirono il caso, critica la totale assenza, nel film, del contesto sociale e politico in cui si svolsero i fatti. Ezio Mauro, direttore di Repubblica si spinge fino a sostere che sarebbe stato proprio meglio non fare un film su un episodio della storia d’Italia che, in ragione della mancata condanna di mandanti ed esecutori e dei molti lati ancora oscuri, è una ferita ancora aperta nel Paese. Benedetta Tobagi, giornalista di Repubblica e figlia di Walter, giornalista ucciso dalla Brigata XXVIII marzo, ribatte che, comunque la si pensi sul film, esso ha almeno avuto il merito di far riparlare della strage. Giovanni Fasanella, giornalista di Panorama, la butta sulla complessità della storia, che non si può ridurre a «due bombe e due bombaroli», perché «Il nostro Paese ha vissuto su una polveriera. Perchè la sua posizione geografica lo ha collocato proprio al centro di tutte le linee dei conflitti politici, ideologici e geopolitici del dopoguerra». Servirebbe, dice, più che un film come quello di Marco Tullio Giordana, «una ricostruzione con i metodi della inchiesta storico-giornalistica». Ma non prende impegni al riguardo. Si pronuncia sul film anche Gerardo D’Ambrosio, ex magistrato di Mani Pulite, al quale si deve la discussa sentenza sul “malore attivo” di Pinelli, che scagionò dalla morte dell’anarchico la Questura di Milano, ma anche gran parte dell’indagine che portò all’unica condanna per la strage, seppur solo in primo grado, dei neofascisti Freda e Ventura. Lapidario, e forse fin troppo saggio, considerata la sua pirotecnica e picaresca storia politica, l’Elefantino: Che palle la strage di Stato. A rubare la scena a tutti, però, è Adriano Sofri, l’ex leader di Lc, pubblicando un instant book corrosivo, non contro il film, bensì contro il libro di Cucchiarelli che l’ha in parte ispirato, pur riconoscendo che la pellicola s’è discostata parecchio dalle sue tesi. Mentre Libero intervistava Franco Freda e Il Giornale “raddoppiava” con il suo alias nel film, Alessio Boni: nelle pagine degli spettacoli (sic!).
Riporto, infine, la replica di Marco Tullio Giordana e Marco Tozzi, rispettivamente regista e produttore del film, a Ezio Mauro, dalle colonne de Il manifesto.
Mi fermo qui. Ora vi dirò quello che ho visto io, che non sono un testimone (avevo poco più di due anni quando esplose la bomba), non sono stato implicato nella vicenda, non sono un giornalista esperto della strage, uno studioso, un politico, e neppure un critico cinematografico.
Sono uno spettatore.
In primo luogo, ho visto, come recita il titolo, anche se pochi sembrano averci fatto caso, il romanzo di una strage: non un film-inchiesta, quindi, un docu-film, un film-verità, nulla del genere. Durante la proiezione, di conseguenza, non m’ha sfiorato mai il dubbio che Marco Tullio Giordana avesse ambìto a dire, se non l’ultima, almeno la propria parola, su come andarono davvero le cose tra il 12 dicembre 1969 (strage) e il 17 maggio 1972 (omicidio di Luigi Calabresi, ultimo episodio del film). E dopo quarantadue anni, sette processi, una milionata di pagine di atti, in effetti, non è difficile capire il perché. D’altronde, quanto il film tenda a spostarsi dal piano ricostruttivo e interpretativo dei fatti a quello simbolico della psicologia individuale e collettiva lo si vede nei monologhi e nei dialoghi, non di rado quasi metafisici, di Aldo Moro, nei quali si materializza il senso d’impotenza non semplicemente del ministro degli Esteri del governo di quei mesi, presieduto dal democristiano Mariano Rumor, ma di un intero Paese e della sua giovane e fragile democrazia, dialaniata e paralizzata dalla circostanza storica di dovere, insieme, fedeltà alla Nato e a una Costituzione democratica ottenuta grazie al decisivo appoggio del più forte partito comunista d’Occidente.
In secondo luogo, ho visto un film in cui sono chiarite in modo netto le responsabilità storiche della strage. Al riguardo, d’altronde, Marco Tullio Giordana non fa che acquisire la sentenza della Corte di Cassazione che, nel 2005, stabilì la responsabilità in ordine all’attentato di Freda e Ventura. Secondo la Corte, l’eccidio fu senz’altro organizzato da un gruppo neofascista costituito dai due a Padova nell’ambito di Ordine Nuovo. Il giudizio, però, non ebbe effetti penali, perché Freda e Ventura risultarono per Piazza Fontana ormai improcessabili, essendo stati assolti per lo stesso reato anni prima (insufficienza di prove) dalla Corte d’assise d’appello di Bari, sentenza confermata dalla Cassazione nel 1987. Per inciso: a Bari, e prima a Catanzaro, il processo a Freda e Ventura finì – e il film lo evoca – in forza di uno dei tanti “scippi” (dall’invadenza “romana” sin dalle primissime indagini, alla remissione del processo da Milano a Catanzaro, sorprendentemente chiesta nel l’agosto del 1972 dai vertici della Procura milanese non appena il Procuratore Generale, Luigi Bianchi d’Espinosa, “azionista” e medaglia d’oro della Resistenza, morendo, esce di scena), che impedirono ai magistrati del capoluogo lombardo di indagare per tempo e per tutto il tempo necessario sulla strage).
In terzo luogo, ho visto un film in cui è restituita ai protagonisti umanità e dunque verità, con le sue luci e le sue ombre. In particolare a Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi. Non erano amici, ma erano due uomini buoni, in un senso che non andrebbe banalizzato o sottovalutato: negli altri, infatti, entrambi erano stati educati a vedere, anzitutto, delle persone, individui indipendentemente e al di là della diversa appartenenza. E per questo si rispettavano. Non potevano, però, fidarsi fino in fondo l’uno dell’altro. E lo sapevano. Giocavano in squadre avverse. L’anarchia non riconosceva l’autorità dello Stato, considerandola null’altro che la forma estrema dell’organizzazione della violenza dell’uomo sull’uomo. Prima di rivelare anche solo una leggerezza, una parola sfuggita a un compagno, Pinelli avrebbe dovuto accertarsi personalmente di come stavano le cose. E anche allora, forse, non avrebbe collaborato. Calabresi era un uomo dello Stato, invece: credeva sinceramente nelle buone ragioni dello Stato. E per questo era convinto che esso avesse anche titolo, in circostanze eccezionali come quelle che stava vivendo, di abusare entro certi limiti delle proprie prerogative, forzando le proprie stesse regole. Di qui il dramma smisurato che li ha travolti, molto oltre le loro oggettive responsabilità. Pinelli e Calabresi, quindi, non furono semplicemente pedine, come l’innocuo e sventato Pietro Valpreda, capro espiatorio perfetto di una strage che non avrebbe potuto commettere. Ma vittime scarsamente o tardivamente consapevoli dei rischi che correvano in un contesto politico più opaco di quanto loro stessi potessero immaginare.
In quarto luogo, ho visto un film che ha efficacemente rappresentato il ruolo decisivo che uomini e apparati dello Stato hanno giocato nella vicenda, vuoi con l’obiettivo di creare le condizioni per una svolta autoritaria del Paese, magari invocando più o meno sinceramente la difesa dell’ordine costituzionale, vuoi con l’aperto obiettivo di sovvertire la Costituzione con la complicità dalla destra eversiva. Per inciso, il primo obiettivo, in un modo o nell’altro, fu in effetti raggiunto. La lettera della Costituzione, invece, fu salvaguardata. Troppo poco? Forse sì.
Il prezzo lo stiamo ancora pagando.
Questi sono i primi quattro motivi per i quali, a mio parere, il film andrebbe visto, da tutti, giovani e meno giovani. Ma veniamo alle critiche. A tante firme, più o meno prestigiose, che si sono schierate contro, chiederei sommessamente, a loro giudizio, di quante e quali verità positive dovremmo avere ancora bisogno, eticamente e politicamente, per prendere posizione sul quel nostro passato e soprattutto saperci utilmente orientare nel futuro? L’impressione, infatti, è che i molti attacchi a cui il film è stato sottoposto, pur così differenti nei modi e nei toni, siano motivati da un’urgenza di verità, nel senso dell’accertamento di fatti e responsabilità precise, che a questo punto assume tratti patologici. Beninteso: non sto dicendo che non vi siano questioni aperte, sotto il profilo storico e anche giudiziario. E che non si debba continuare a cercare una risposta. Ognuno ha le sue priorità, a seconda di dove vuole stiracchiare il giallo. Butto lì le mie. Chi si servì di Franco Freda e Giovanni Ventura, nauseabondo ideologo da strapazzo il primo, esaltato senza qualità il secondo? Che ruolo ebbe il Principe Borghese, l’eroe della Xmas considerato da tutti i neofascisti un mito e certo cospirante contro la Repubblica nata dalla Resistenza? Giangiacomo Feltrinelli saltò in aria per un proprio errore, come se non sbaglio sostennero dopo una indagine fatta in casa anche le Br, oppure no? Perché il prefetto D’Amato alimentò l’odio contro Calabresi, imbastendo dossier falsi sul suo addestramento presso la Cia, ai quali l’allegra “contrinformazione” di Lotta continua, da troppi allora e ancora oggi sopravvalutata, fece da ottuso e fanatico volano mediatico? E non sapeva nulla o non faceva nulla la Cia mentre in Italia esplodevano bombe un po’ ovunque, fino a quel momento solo dimostrative? Altre ne potrei fare, ma mi fermo qui. Immaginiamo, infatti, di predisporre finalmento il plastico mediatico verso il quale tutte queste domande fatalmente, con gli anni, tendono. E di accertare per avventura tutti i fatti, qualunque cosa voglia dire, grazie a perizie, controperizie, testimoni nuovi o dimenticati, prove e documenti insabbiati ritrovati, a partire dal dossier sulla strage di Luigi Calabresi e che, a quanto pare, dopo la sua morte non fu mai ritrovato. Che cosa avremmo di sostanziale in più rispetto alla verità da romanzo che il film ci offre? E in che cosa ci potrebbe davvero diversamente motivare, da un punto di vista etico e politico, rispetto a quanto oggi, se non l’abbiamo accertato, nella forma del plausibile o verosimile abbiamo almeno intuito, presunto o ammesso come possibile?
Nietzsche, proprio quel Nietzsche sulle cui pagine Franco Freda elucubrava la sua paccottiglia intellettuale nazistoide, in una delle sue migliori Considerazioni inattuali, dal titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita, s’interrogava sul senso e sul valore dell’indagine storica positiva. Tutti noi, è naturale, vorremmo che il nostro sguardo scientifico rivolto al passato ci restituisse un intero unificato e coerente, in cui verità personale, verità giudiziaria, verità giornalistica, verità storica, convergessero offrendoci un quadro davvero al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Ma dove si trovano le fragili radici di questa esigenza? E come non vedere, invece, che, se il suo potere euristico è indubbio e prezioso, la sua pretesa ossessiva è perniciosa, perché serve in realtà a placare in uno la residua vergogna, nell’altro la residua rivalsa, nell’altro ancora la residua impotenza, rendendoli ciechi di fronte a quanto è già da tempo davanti ai loro occhi: non la verità su Piazza Fontana, ma il senso di quello che è accaduto e che il film ha saputo portare a chiarissima rappresentazione psicologica e simbolica.
Anche la tesi tanto vituperata della doppia bomba, per quanto mi riguarda una teoria non più discutibile di altre che ho letto, ha senso se ci emancipiamo anche solo per un attimo dal desiderio compulsivo e paralizzante di pervenire anzitutto all’accertamento positivo dei fatti, di tutti i fatti. La bomba replicata, la reale dietro l’apparente, perché solo dimostrativa, non rappresenta perfettamente la criminogena opacità della vita politica di quegli anni, che troppi lambì e troppi, volenti e nolenti, compromise, non meno di oggi, e in forza della quale, purché potesse apparire nel modo più utile alla propria parte, molto se non tutto poteva considerarsi lecito nella lotta politica? E non è forse al cinico e mai cessato gioco del doppio, che in nome dell’obiettivo sempre antepone l’apparenza alla realtà e alla verità, fino a rendere queste ultime così sfuggenti da risultare superflue, che dobbiamo le sconcertanti risposte che i giovani studenti medi milanesi, nel 2006, diedero alla domanda sui responsabili di Piazza Fontana: Brigate Rosse (42%), Mafia (39%), Anarchici (22%), Fascisti (18,6%), Servizi Segreti (4,3%)? Per il senso comune in Italia, purtroppo, gli anni di piombo hanno ancora quasi un solo nome: Brigate Rosse. E non solo tra gli studenti medi milanesi. La bomba raddoppiata è anche l’immagine di una distorsione della verità e della memoria a lungo coltivata. Ma allora: tra i Soloni che fanno a gara in questi giorni per far valere la propria personale istanza di verità, ce n’è qualcuno che possa onestamente negare che il romanzo di Giordana, trascurando certo molte domande e molte risposte, tiri tuttavia in modo sostanzialmente corretto le fila non sui fatti ma sul senso di quello che accadde il 12 dicembre 1969, offrendo per la prima volta a quegli studenti e ai loro genitori l’opportunità di interrogarsi non sull’ennesimo soporifero plastico mediatico della strage, ma sul valore della fedeltà a regole etiche e politiche come deterrente alla deriva criminale di un potere, piccolo o grande che sia, convinto di dover rispondere esclusivamente dei propri immediati risultati, delle proprie contingenti conquiste campali? A che cosa servono, d’altronde, i romanzi, se non a trarre il senso di una storia, quasi sempre più accessibile e decisivo dei fatti? A null’altro. Ma non è poco.
Concludo, segnalando il quinto e ultimo motivo per cui credo valga assolutamente la pena di vedere Romanzo di una strage. È la straordinaria sequenza televisiva, integrata nel film, in cui si svolge una panoramica di Piazza Duomo gremita di persone di ogni fede politica, venute al funerale delle vittime per testimoniare non solo la loro vicinanza alle famiglie ma il proprio senso di appartenenza a una comunità umana e il rifiuto di ogni violenza politica che la minacciasse. Fu con lo stesso spirito che i primi soccorsi alla Banca Nazionale dell’Agricoltura furono portati da comuni cittadini, accorsi sul luogo della bomba da ogni parte anche a rischio della propria vita. Chissà quanti oggi, qui a Milano, si getterebbero senza esitazione tra il fumo e le fiamme di una banca appena sventrata per tentare di salvare qualche vita.
P.S. Mentre un manipolo sempre più esiguo e ripiegato su se stesso di sessantenni, cinquantenni e rari quarantenni si contende su giornali e tv la vera storia della strage di Piazza Fontana, questa è la classifica dei film più visti a Milano al 7 aprile: 1 – La furia dei Titani; 2 – Buona giornata; 3 – Quasi amici; 4 – È nata una star; 5 – Romanzo di una strage; 6 – Ghost Rider; 7 – The Raven; 8 – Magnifica presenza; 9 – Marigold Hotel; 10 – Posti in piedi in Paradiso.
P.P.S. Mi è stato fatto notare che in coda al film, laddove si ricordano gli esiti della vicenda, processuali e non, susseguiti alla strage, manca un riferimento agli anni di carcere che il povero Pietro Valpreda dovette subire da innocente. E alla sua vita dopo. Se fosse così (e, nel caso, prego chi abbia visto il film di smentirmi), sarebbe un’omissione deprecabile.
P.P.P.S. A proposito di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi. Odo già, da destra e da sinistra, sollevarsi la stessa domanda allarmata che da decenni è rivolta a chiunque cerchi di calarsi nella vicenda umana concreta di quelle morti tragiche; essa è significativamente identica, benché mossa da intendimenti opposti: “stai forse dicendo che Pinelli e Calabresi vanno messi sullo stesso piano?”. Ecco: anche questa domanda fa parte della patologia. Anzi, ne è l’emblema.
Nota Dopo aver scritto questo post, tramite commenti o per altra via, mi sono stati segnalati altri interventi suscitati dal film, tra i quali consiglio di leggere quello di Giuseppe Vacca, storico ed ex direttore dell’Istituto Gramsci, uscito su L’Unità, dal titolo La doppia lealtà. Per una rassegna abbastanza completa, si può consultare questo sito. C’è anche un articolo dell’ormai prevedibile e livoroso Giampaolo Pansa, per i cultori del genere. Sulla tesi della “doppia bomba” non sposata bensì simbolicamente utilizzata dal film, hanno risposto ad Adriano Sofri, tra gli altri, Paolo Cucchiarelli, Marco Travaglio su Il fatto quotidiano e Mario Cervi su Il Giornale. Ma a me pare, sostanzialmente, parlando d’altro, cioè di Sofri medesimo.
Patologia.
Vale invece certamente la pena di leggere la lucida e composta critica della tesi della “doppia bomba” di Cucchiarelli scritta già il 12 giugno 2009 da Aldo Giannuli, storico e autore con Giancarlo De Palo de La strage di Stato: vent’anni dopo (Edizioni Associate, Roma 1989); inoltre, la più recente (27 marzo scorso) ragionata critica alla nozione di Fictory (fiction + history) del giornalista Giorgio Boatti, autore di Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta (Einaudi, 1999, 2009). In una bibliografia essenziale su Piazza Fontana, i volumi di questi autori, il secondo dei quali ha un’edizione aggiornata anche agli ultimi sviluppi processuali, meritano a mio parere d’essere inclusi più di molti altri.
Trovo questo pezzo un modello di limpidezza intellettuale e morale. In effetti anch’io ho molto apprezzato il film, credo per le stesse ragioni che con tanta chiarezza Stefano elenca, e che non avrei forse saputo estrarre così bene alla penombra mentale. Anch’io sono rimasta stupita degli attacchi che il film ha subito (fra gli autori citati, forse Stefano ha dimenticato Marco Travaglio, che si è espresso contro l’attacco di Sofri, e indirettamente in difesa del film). Ma anche la difesa del regista mi ha lasciato molto perplessa. Sembra cadere nella trappola, difende l’ipotesi della doppia bomba come fosse un’ipotesi investigativa. Potrebbe anche esserlo, ma non è per quello che interessa, nel film! Del film, l’ipotesi è forse il cuore, precisamente per i motivi di cui parla Stefano. Non la verità fattuale a questo punto è quello che dobbiamo aspettarci da un film, ma la verità metaforica, cioè il pensiero che rappresenta l’Italia di quegli anni, divorata non soltanto dalla sua endemica vicenda di arcana imperii, fragilità e inquinamento criminale delle istituzioni, ma anche dagli opposti, in verità non tanto opposti deliri dei cascami ideologici ….di un’epoca che già a quei tempi era piuttosto quella dei nonni che quella dei contemporanei. Per tutta la mia giovinezza fui turbata da questo fenomeno: ci esprimevamo sul presente nella lingua ideologica dei peggiori fra i nostri nonni, e per di più come se il macello mondiale e la guerra fredda non fossero bastati a cancellarne la truculenza.
Ecco, ripensando alle riflessioni di Stefano pro e contro l’immaginazione – sulla scorta di Simone Weil, vorrei dirla così. Simone, che non ama Aristotele, rischia di farci dimenticare dal lato della sublimità ciò che gli ideologi e gazzettieri contemporanei ci fanno dimenticare dal lato della stupidità: la distinzione fra il vero fattuale, “storico”, che può essere del tutto privo di interesse in quanto è accidentale o contingente; e il “verosimile”, che molto di più, dice Aristotele, partecipa della conoscenza, perché descrive il “necessario”. Un “romanzo” ha o non ha una sua “necessità” – e così appprofondisce o no la nostra conoscenza, anche, della storia e degli uomini. A me è sembrato che questo film, in certo modo, lo faccia.
Mi spiace non aver visto il film e non potermi inserire con cognizione di causa nel dibattito aperto da Stefano. Leggendo la sua bella riflessione, però, mi è subito venuto in mente un saggio di Hannah Arendt (“Verità e politica”) che suggerisco a tutti di leggere. Non conosco altri luoghi in cui la complessa relazione tra verità di fatto e significato storico degli eventi (o verità narrative) sia tematizzata con altrettanta lucidità. Per inciso, la questione ha un’attinenza, spesso trascurata, con il problema filosofico del realismo, che è tornato in auge di recente (per chi fosse interessato a conoscere il mio punto di vista, ne ho parlato più estesamente qui).
Manca, e capisco perchè, l’intervento di Miguel Gotor. Eccolo.
Grazie della segnalazione! Mi sembra, tra l’altro, colga proprio nel segno, e senza confondere – come neppure Sofri fa, ma gran parte dei critici del film sì – il libro di Cucchiarelli con il film di Giordana. In particolare, trovo molto condivisibili e in linea con quanto ho scritto queste parole di Gotor, che più che del film si occupa dell’istant book di Sofri e del volume di Cucchiarelli.
«Indirettamente il saggio di Sofri rivela che l’ars duplicatoria di Cucchiarelli ha colto nel segno sul piano culturale. In effetti, confonde le acque e, distribuendo toni e ragioni in modo indiscriminatamente equanime svolge una sorta di paradossale, ma molto italiana funzione purificatrice. Se anche Pinelli, Calabresi e Moro sono sporchi, i fascisti coinvolti nella strage e gli apparati dello Stato che li coprirono lo sono meno e le loro responsabilità ne escono relativizzate. Ma attenzione: se tutti risultano almeno un po’ colpevoli, quanti, a sinistra, dopo quella strage, praticarono una feroce violenta politica di massa, scelsero di intraprendere la lotta armata o di simpatizzare con essa, dunque anche loro avevano le proprie ragioni. E oggi possono continuare a sentirsi «la meglio gioventù», anche se, ad esempio, gioirono quando Calabresi venne ucciso da un commando di Lotta Continua all’apice di un’infamante campagna di stampa orchestrata dall’omonimo giornale. Non importa che tanti passaggi del libro, come mostra Sofri, siano irragionevoli o ingiustificati, conta ribadire l’idea di un mistero italiano irrisolvibile e perciò deresponsabilizzante che richiede atti di fede e di obbedienza, non prove di discernimento e di criticità. E invece, sul piano storico, la strage di Piazza Fontana è sufficientemente chiarita, così come il suo rapporto con la cosiddetta strategia della tensione di cui è stata l’evento più tragico. Il disegno degli «strateghi della strategia della tensione», così li chiamava Moro nel suo memoriale dalla prigionia brigatista nel 1978, è stato quello di attribuire la responsabilità delle stragi al mondo anarchico (all’uopo infiltrato a Roma come a Milano) attraverso appositi depistaggi funzionali a coprire la manovalanza di neofascisti come Franco Freda e Giovanni Ventura, condannati per gli attentati del 25 aprile e dell’8 agosto 1969. II primo magistrato che individuò, sin dal dicembre 1969, la pista neofascista fu Pietro Calogero, lo stesso Inquirente che qualche anno dopo, sempre a Padova, mise a fuoco i legami tra autonomia e brigate rosse. Oltre a Freda e a Ventura, Calogero inquisì anche Guido Giannettini, giornalista legato al Sid. Due relazioni, ritrovate nel 1971 ma stese da Giannettini il 4 e il 16 maggio 1969, rivelavano la conoscenza da parte del Sid di un piano di attentati terroristici di gruppi neofascisti appoggiati da alcuni esponenti della borghesia industriale del nord e da ambienti oltranzisti statiunitensi, i quali «avevano deciso la sostituzione del centrosinistra in Italia con una formula sostanzialmente centrista»: il piano, non a caso e significativamente, era definito nelle veline «Operazione ritorno al centrismo». Nessun complotto, dunque, né tantomeno mistero, doppio Stato o consolatoria retorica dei servizi deviati che in realtà non lo sono mai, ma ferocissima lotta politica impuntata in un Paese a doppia lealtà, che viveva la contraddizione di fondo di avere una costituzione formale antifascista e una materiale anticomunista, con servizi segreti e corpi di polizia ancora pesantemente condizionati dalla loro formazione in età fascista»
Sulle differenze tra la doppia bomba dell’investigazione giornalistica (giornalistica!) di Paolo Cucchiarelli e la doppia bomba romanzesco-simbolica di Giordana, vale la pena di sottolineare che, almeno nel film, quest’ultima è presentata come l’ipotesi investigativa personale su cui indaga Calabresi, sulla scorta, immagino, della famosa frase attribuita al commissario, e che mi pare sia sempre stata confermata dalla famiglia: “menti di destra, manovali di sinistra”. All’ipotesi il prefetto D’Amato – in un colloquio chiaramente trasferito su un puro piano simbolico – replica con un’altra, dice lui, fantasia: quella della manovalanza di destra, con mente in uomini o pezzi dello Stato o peggio. Mi pare che la verità insinuata dal prefetto infiltratore e inquinatore, che nel film cerca di reclutare Calabresi come nella realtà, stando a quanto detto da Sofri, fece con il dirigente di Lotta Continua, non si discosti molto dalla verità storica riassunta da Gotor. E forse, anche l’inquadratura finale, così criticata anche da Mario Calabresi, in cui non si vede chi ha ucciso il padre (nonostante i militanti di Lotta continua Ovidio Bompressi e Leonardo Marino siano stati condannati in via definitiva per l’omicidio) più che suggerire il solito dubbio del partito innocentista pro Lc su chi abbia materialmente sparato o ordinato di sparare, c’interroga sulla responsabilità ultima di quella morte. Non per alimentare il solito morboso gusto giallistico, ma per aprire l’obiettivo sulla vicenda oltre i limiti angusti della scena del crimine. Piazza Fontana aprì più di dieci anni di bombe stragiste, che io ricordi, salvo Bologna, rimaste tutte impunite. Mentre L’Italia s’accingeva a dividersi tra colpevolisti e innocentisti sul caso Calabresi, divenuto, ahimé, il caso Sofri anche nella cronaca (e polemica) giornalistica e storica. E ancora va così. Leggetevi Cervi, Pansa o Travaglio.
Patologia.
Considerazioni storiche, considerazioni filosofiche e poetiche, considerazioni politiche fatte, resta l’amarezza senza fine. Perfettamente riassunta dalla vignetta di Giannelli, con l’Italia ferita che chiede al gendarme “Chi è stato?” – e il gendarme risponde “Nessuno”. Non solo i colpevoli della strage non ci sono, ma le famiglie delle vittime pagheranno le spese processuali. Questa non è neppure più una beffa: è un vergognoso insulto, per il quale verrebbe voglia di emigrare per sempre.
La strage di piazza della Loggia è stato un attentato terroristico compiuto il 28 maggio 1974 a Brescia, nella centrale piazza della Loggia. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista con la presenza del sindacalista della CISL Franco Castrezzati, dell’on. del PCI Adelio Terraroli e del segretario della camera del lavoro di Brescia Gianni Panella. L’attentato provocò la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue.
L’audio della strage (da La Repubblica)
Piazza della Loggia, chi sono gli imputati assolti (Ansa)
Piazza della Loggia, sulle spese le preoccupazioni del Colle (Grazia Longo, da La Stampa)
Piazza della Loggia, ecco la verità che manca (Carlo Lucarelli, da L’Unità)
Piazza della Loggia, la verità e la storia (Sandra Rizza, da Il fatto quotidiano)
Gentile Stefano Cardini,
ho letto solo oggi il suo articolo Dopo aver visto Romanzo di una strage… e volevo ringraziarla per tutto quanto ha scritto con grande lucidità e pertinenza. Lei infatti ha parlato della cosa, non degli algoritmi che ne discendono o vi portano. Ne sono rimasto molto colpito, anche turbato. Avrei voluto possedere i suoi argomenti con altrettanta incisività di fronte alle critiche che volevano intimidirmi. Era da tanto tempo che un film non suscitava reazioni così viscerali, forse è stato anche utile per questo. A me – che sono stato quasi testimone oculare della vicenda ma che ho anche cercato di dimenticarlo non fidandomi ciecamente delle mie informazioni e percezioni di allora – ha fatto una certa tristezza rivedere tanti automatismi, tanti partiti presi e mantra che immaginavo, dopo quaranta e più anni, superati.
Forse è per questo che l’Italia non riesce a cambiare pagine, esiste anche una certa “rendita”, più o meno confessabile, nel ruolo di eterni perdenti, uno statuto che garantisce l’ammirazione degli affiliati coevi fintanto che non moriranno con noi. Ma dopo? Per i ragazzi che non sanno niente e non si fidano (giustamente) dei regolamenti di conti della mia generazione? Cosa trasmettiamo, non solo in termini di conoscenza ma di pathos? Queste domande sono state l’origine di questo film, grazie di aver risposto con tanta intelligenza, di averle rintracciate fin nelle pieghe più implicite. Mi permetta di chiamarla amico, come ogni persona con cui si scopre di aver fatto un lungo pezzo di strada assieme. Vorrei “linkare” il suo intervento alla pagina web del nostro film, me lo permette? La ringrazio di cuore.
Suo Marco Tullio Giordana
Grazie per le tue parole, Marco (tra amici ci si dà del tu, no?); anche a nome delle altre persone che contribuiscono alla vita del Phenomenology Lab. È vero: non saranno immuni, ma agli automatismi in genere i feneomenologi sono allergici.
Felici di essere ripresi dalla pagina FB del film.
Al prossimo tic.
Stefano
Mentre ci si azzuffa sull’ipotesi della doppia bomba di Cucchiarelli e sul presunto “revisionismo” del film di Marco Tullio Giordana, c’è mancato poco che Franco Freda, l’avvocato padovano neofascista (anzi, neonazista), organizzatore provato della strage di Piazza Fontana, presentasse a Roma un libro edito dalla sua casa editrice (già, ne ha una) con il patricinio dell’assessorato alla cultura del Comune di Roma, guidato dal sindaco Gianni Alemanno. D’altronde, Alemanno, di Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, oggi scomparso, era il genero.
Segnalo un altro fenomeno reso particolarmente appariscente dai modi in cui è divampata la polemica attorno al film di Giordana. L’inservibilità ormai chiaramente accertabile, al fine di un qualunque orientamento critico sui temi di cui parliamo, di gran parte delle teste – persino se brillanti – storicamente protagoniste dei “formidabili anni”.
Consiglio, al riguardo, di leggere queste due incredibili lettere del per altri versi ottimo Guido Viale, ex dirigente di Lotta Continua, economista e opinion maker noto e apprezzabile in materia di ecologia e sviluppo sostenibile.
La prima, pubblicata su Repubblica, critica i rilievi di Miguel Gotor all’instant book di Adriano Sofri. La seconda, inviata a Repubblica ma non pubblicata (colpevolmente, per Viale, a causa del riferimento che contiene al commissario Calabresi), si scaglia contro gli autori di Romanzo di una strage. A Gotor, Viale rimprovera (come d’altronde ha fatto sul Corriere della Sera anche Pierluigi Battista) di voler mettere a tacere Sofri. A Giordana e Tozzi, invece, di sostenere l’idea che compito normale dei servizi segreti sia quello di mettere bombe in giro. Chiunque può effettuare un confronto testuale e rendersi conto di come ci si trovi qui di fronte a una sorprendente storpiatura del pensiero tanto di Gotor quanto di Giordana e Tozzi.
Non sto a sottolineare il fatto di aver inviato un commento firmato sul blog di Viale al riguardo, che Viale non ha pubblicato: il censurato, forse, s’è fatto censore. Mi preme semmai dire che quanti, come il sottoscritto, nei “formidabili anni” sono solamente nati, di fronte all’ingombrante ribalta mediatica di molti protagonisti di allora, preferirebbero, soprattutto a beneficio dei più giovani, evitare che tutto si trasformi eternamente nel caso Sofri, con tutti i prevedibili cascami polemici che ne seguono. Anche le personalità più interessanti di quella generazione, invece, da destra e da sinistra, troppo spesso paiono incapaci di cadere in questa vera e propria coazione a ripetere. Non è colpa di Sofri, naturalmente. È colpa di noi tutti, che ogni volta che la lepre viene liberata ci precipitiamo a inseguirla, infilandoci nel solito vicolo cieco.