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Dipende da noi
1. Che cosa vuol dire “governo tecnico”?
L’espressione “governo tecnico”, se vuol dire qualcosa, vuol dire in negativo “governo composto di persone che non appartengono agli attuali partiti o non sono da loro designati” e in positivo “di persone scelte per la loro competenza nei relativi campi”. Ora di queste due connotazioni quella positiva, la seconda, mi sembra una condizione che dovrebbe perpetuarsi sempre e comunque, almeno idealmente, nella formazione di un esecutivo – dove, come la parola dice, il personale politico dovrà realizzare al meglio le misure legislative corrispondenti ai progetti di società che si confrontano o combattono a livello di rappresentanze parlamentari.
Voglio dire con questo che oggi il problema della competenza è straordinariamente grave, anche se sempre è stato vero, a mio avviso, che non tutto, anzi non l’essenziale per il buon funzionamento di una società è soggetto al giudizio “politico”, cioè in ultima analisi al giudizio che discende dall’una o dall’altra concezione sostantiva del bene, in particolare del buon ordinamento della convivenza umana o nazionale. L’essenziale a questo riguardo io lo giudico anzi “prepolitico”: l’essenziale riguarda cioè la regolamentazione dell’arena stessa in cui si combattono legittime battaglie politiche, legittimi e anche duri scontri di concezioni alternative di una società giusta e libera.
2. La malattia della vita italiana
La malattia che corrode l’Italia è precisamente che “politiche”, qui, si chiamano le battaglie che si fanno non dentro il recinto della Costituzione, della legalità e, me lo si lasci dire, della moralità: ma, caso unico in questa proporzione fra le società democratiche avanzate, le battaglie in cui le parti stanno spesso da una parte e dall’altra di Costituzione, legalità e moralità. E nel caso peggiore, entrambe le parti principali, per diverse ragioni, stanno in alcuni casi fuori e contro questi recinti (palesemente: problema della corruzione; problema del cancro mafioso che uccide economia e vita civile; problema della bellezza, cioè della dissipazione sistematica e criminale del patrimonio ambientale-culturale della nazione (“paesaggi storici” e beni culturali).
Questa malattia tipicamente italiana, per la quale la “politica” ha corroso quasi completamente il prepolitico, arrivando a massicci esiti di “decostituzionalizzazione” (L. Ferrajoli) che non sono più nemmeno percepiti come tali, è precisamente quella che mi costringe in questa frase a mettere “politica” fra virgolette: questa “politica” infatti non è certamente più scontro legittimo di concezioni sostantive del bene o del giusto per una società in cui vorremmo vivere, ma negoziato sulla spartizione di risorse comuni – quando non loro rapina; svendita di legalità e di altre risorse comuni (territorio, ambiente, litorali, paesaggio, beni artistici) in cambio di consenso o addirittura contro il consenso (il caso val di Susa); riduzione della politica a risposta a pressioni lobbistiche quando va bene, a trattative col crimine troppo spesso.
3. Il potenziale valore di un governo tecnico
Questa “politica” che non è più tale è d’altra parte purtroppo la vita di troppi appartenenti ai partiti attuali, e poiché la politica si fa attraverso i partiti, questo spiega il grande valore potenziale di un governo tecnico in questa fase, anche nella prima accezione, quella negativa, di “governo tecnico”. Il grande valore potenziale sarebbe appunto non solo quello della competenza – che molto più difficilmente si trova, purtroppo, nel personale dei partiti per via dei loro attuali meccanismi di promozione interna.
E questo è un punto importante, interno alla mia premessa, che necessiterebbe un’analisi a sé: ogni considerazione sul futuro della politica dovrebbe partire da un’analisi sulla necessaria trasformazione dell’istituzione partito, una trasformazione che consenta di fare di queste attuali consorterie fini a se stesse, guidate esclusivamente dalla tendenza a riprodursi e crescere, ciò che invece dovrebbero essere, puri strumenti della partecipazione dei cittadini alle decisioni sulla loro vita. Evidentemente questo comporta una radicale trasformazione dell’attuale loro modo di reclutare e promuovere, che sono oggi completamente contrari alla logica del merito cognitivo e morale, cioè a) della conoscenza e capacità di anteporre sempre la ricerca di verità a quella di consenso; b) dell’onestà e passione civica, ossia della capacità di anteporre sempre l’ideale per cui ci si impegna alla carriera che si vorrebbe fare.
Questa premessa sui meriti di un governo tecnico in senso positivo (competenze) e negativo (non appartenenze partitiche) è necessaria per le considerazioni che seguono, alcune delle quali sono risposte ai quesiti posti da Micromega. Il valore di questo passaggio è spesso assurdamente minimizzato: anche “salvarci dal baratro” economico-finanziario era un obiettivo minimo, rispetto a quello che significherebbe veramente salvare il Paese da un’involuzione politica, civile, morale e cognitiva senza ritorno, salvarlo dal cancro della criminalità diffusa, salvarlo dalla devastazione delle sue stesse istituzioni (sanità pubblica e privata, università, scuola) e delle sue risorse (ambiente, paesaggi, beni culturali, tradizioni scientifiche, ingegneristiche, giuridiche, speranza e creatività giovanile) che troppo ha lungo le ha inflitto la malapolitica, a sua volta espressione di un non avvenuto risanamento di queste piaghe nella cosiddetta Prima Republica.
4. La necessaria rifondazione della politica
E in effetti per questo ha fatto bene il manifesto di Libertà e Giustizia a parlare di una vera e propria esigenza di rifondazione della politica, sia pure nei limiti in cui è possibile per un governo (e per il suo parlamento) tentarla. Rifondazione della politica vuol dire ripristinare quel recinto pre-politico di costituzione, legalità e moralità senza il quale la politica è ridotta allo “schifo” cui senza dubbio abbiamo assistito troppo a lungo: o brutalizzare quel recinto (compresa la cultura bossiana dell’oscenità, del rutto, del gestaccio, del vilipendio alla bandiera, compreso il pubblico elogio degli “eroi” della mafia, compresa un’intera regione il cui Palazzo contiene più ladri di un braccio di San Vittore) o debolmente negoziare minor brutalità, o nel caso peggiore addirittura alleanze.
Distinguiamo qui due cose: ciò che deve-può fare il governo e ciò che devono-possono fare gli esponenti dei partiti che siedono in Parlamento.
5. Le cose da fare
Riguardo al primo punto cito in primo luogo una cosa che si era detta, da parte di ogni persona per bene e non soltanto da parte delle forze progressiste, appartenere alle riforme indispensabili. Fra queste c’erano, oltre alle manovre economiche e finanziarie, senza alcun dubbio la riforma di quella legge elettorale il cui perverso meccanismo ha ridotto il Parlamento italiano ad essere fatto in maggioranza di nominati dalle segreterie e burocrazie dei partiti e non dagli elettori. E adesso pare che si stia rinunciando a fare pure questa riforma? Questo sarebbe tragico: perché senza questa riforma, far cadere il Governo Monti è tornare alla situazione di prima, senza più speranza.
Poi ci sono le altre cose che un governo tecnico, positivo in questi due sensi, dovrebbe senza dubbio poter fare. A proposito di Europa: 1) la vera legge anticorruzione, anche solo la ratifica della Convenzione europea con i rivoluzionari dispositivi che questa implicherebbe per la situazione italiana; 2) A proposito, ancora, di Europa: fanno parte di questa specificità italiana i provvedimenti intesi a fermare la penetrazione dei capitali mafiosi nel tessuto dell’economia, cioè in effetti a bloccare i meccanismi del “concorso esterno in associazione mafiosa”. Roberto Saviano ha prodotto una lucida analisi facilmente reperibile sul sito di Libertà e Giustizia. 3) sempre a proposito di Europa: la questione delle frequenze. Si discute (?) di beauty contest… a nessuno viene in mente che, intanto Mediaset ha frequenze assegnate, da tempi immemorabili, con un canone irrisorio e senza scadenza…. Visto che ci si riempie la bocca di Europa, non possiamo
iniziare a dire che non solo delle frequenze da assegnare ma anche di quelle assegnate bisogna discutere… lo si fa, in nome dell’Europa, per gli stabilimenti balneari e per le cave: perché non per le frequenze che sono il petrolio della società dell’informazione?
6. Un’enorme falla tecnica
Ma infine, c’è un punto che rende visibile una vera e propria enorme falla del governo tecnico attuale, un completo tradimento della sua essenza e dei suoi fini. Non c’è nessuna competenza e nessuna buona volontà super partes in un campo di rilievo spirituale, morale, civile ed economico immenso: la bellezza. Il marchio di fabbrica di questo nostro paese. La nostra identità nazionale, quella per cui siamo conosciuti all’estero. Il nostro volto. Qui un governo tecnico, nei due sensi positivo e negativo che fanno il suo valore, dovrebbe poter spezzare le logiche perverse e dissipatorie della malapolitica. La lenta (o rapida) catastrofe che sta distruggendo i nostri paesaggi storici e i nostri beni culturali, prodotta in modo del tutto bipartisan dallo sciagurato mangia-mangia connesso a un modello di sviluppo cementizio fallimentare, e come tale denunciato da infinite voci autorevoli, e fra queste quella di Salvatore Settis, per non parlare del generoso staff di Italia Nostra e di tutti i siti ormai numerosi per la difesa di ciò che resta a noi, ma soprattutto ai nostri figli – e costituisce patrimonio dell’umanità, non di questa o quella sciagurata amministrazione o consorteria locale (si veda ad esempio il sito di Salviamo il paesaggio).
E invece abbiamo un ministro dell’ambiente “tecnico” che se ne va in Cina a brigare perche i suoi amici cinesi investano in Italia (in particolare in imprese a lui ben note?). E un ministro dei beni culturali che meno “tecnico” di così non potrebbe essere – cioè meno specifico. Perché non è che fare il professore universitario in qualunque disciplina, o fare il rettore della cattolica, aumenti le competenze su questa dolorosissima piaga del nostro Paese, le cui fragili, antiche, preziose ossa franano in polvere come Pompei.
7. Le cose da chiedere noi tutti, e quelle da chiedere ai politici
In secondo luogo, bisognerebbe parlare di quello che possono fare i politici appartenenti ai partiti, dentro e fuori il Parlamento. Infine è soprattutto a loro che si rivolge l’appello “Dipende da noi – dissociarsi per riconciliarsi”, lanciato da Libertà e Giustizia. Dipende certo e in primo luogo da noi tutti dissociarci da ogni minimo episodio di corruzione, consorteria mafiosa, malasanità, mala scuola, mala università, dissipazione di risorse pubbliche e di beni comuni, e denunciarli. Fare trasparenza. Dipende dalle donne e dagli uomini dei partiti dissociarsi non solo dalle persone e dalle azioni che producono latrocinio, corruzione, malversazioni, scambi impropri, ma anche soltanto piaggeria, arrivismo, carrierismo, servilismo. Ma dipende da loro dissociarsi e denunciare anche i meccanismi, le regole implicite ed esplicite che rendono possibili queste degenerazioni – per le quali in ultima analisi i partiti da mero strumento di vita politica dei cittadini diventano fini a se stessi. E alzare alta la voce sulle ingiustizie più gravi che accadono sotto i nostri occhi: è possibile che a nessun parlamentare venga in mente di gridarlo alto e forte dai banchi del parlamento, quello che i cittadini apprendono dai pochi giornali capaci di ricordare i fatti, ad esempio il fatto che il magistrato che ha azzerato il processo Dell’Utri aveva scritto nel 2008 le testuali parole “In questo paese non sappiamo se non se ne può più della mafia o dei processi di mafia”? (M. Travaglio, “CSM: ciechi sordi e muti”, “Il fatto Quotidiano”, 15/03/2012). E’ possibile che la spinoziana “tendenza a perseverare nel proprio essere” zittisca i più fra i nostri rappresentanti nel Parlamento, al punto da privarci così completamente della nostra voce?
E questa sarebbe davvero la peggiore, la più diabolica contraffazione del Regno dei Fini di cui parlava Kant. Il contrario esatto della sua “fede razionale” nella possibilità di realizzare qui, nel mondo sociale, almeno un po’ del “mondo morale”, del Regno dei Fini appunto, in cui fini sono le persone e la loro fioritura, i cittadini e la loro volontà, e non gli strumenti che dovrebbero servire loro.
‘Umanamente parlando’, non sono mai esistiti, non esistono, né mai esiteranno ‘governi tecnici’. E’ solo uno di quei paroloni con cui si passa il tempo, ‘sbadigliando’, nei dopo-pranzo o in una ‘affumicata’ riunione di ‘predicatori da tavolino’.
Dietro i ‘linguaggi’, di qualunque risma, ci sono sempre stati e ci sono (e ci saranno) uomini (e donne) in carne e ossa. Ed è di questo e solo di questo che bisognerebbe (sempre) parlare, come ci ha insegnato Machiavelli.
Tradotto: il bocconiano Monti parla una sola lingua (è l’unica che conosce e capisce), la lingua delle ‘cose’, che per lui e i suoi simili sono le ‘banche, la finanza, l’economia, i soldi, la merce’. Cioè, non parla di ‘uomini’, ma di ‘cose’, ovvero crede, con l’apparente abbaglio in cui si crogiolano da sempre tutti i ragionieri del mondo, di ‘governare degli uomini’ governando le ‘cose’.
Appena qualcuno glielo fa notare, va (è andato) in escandescenza, ovvero si è fatto ‘andreottiano’. Poverino! con quella faccina e quel sorrisino che non gli riesce mai!
La Fornero, uno dei ‘magni cervelli’ d’Italia [in Italia, se non c’è un demagogo da tre soldi, c’è sempre un ‘magno cervello’ pronto alla bisogna], ha parlato recentemente di “dinamismo dei mercati”. Io, correttamente, ho pensato e penso che abbia in realtà parlato di una nuova marca di ‘intimi per donne’. Diversamente, è solo una ‘battuta tra una birra e un’altra’, ossia una ‘fregatura’. Tradotto: dò ai ricchi la libertà di licenziare i poveri cristi, così il mercato dei ricchi ‘gira’. Di nuovo, ci si illude di ‘governare gli uomini’ governando le ‘cose’.
Se qualcuno glielo lo dice, la signora s’inalbera e addirittura ti sfida: “O questa minestra/ministra [cioè l’inumano linguaggio delle cose], o se no mandateci a casa”.
Insomma: codesti signori e signore sono “la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi” (la/le tecniche).
Purtroppo non è soltanto la ‘bellezza’ a mostrarsi come un punto cieco di questo governo. Del ministro dell’università Profumo avevo un’opinione impregiudicata finché non l’ho sentito parlare, scoprendo che le sue competenze circa l’organizzazione dei sistemi universitari e della loro valutazione è pari alle competenze calcistiche del barista dello stadio. Ma la cosa peggiore di tutte è quando non si ha a che fare con incompetenza reale, ma con sciatteria dovuta ad arroganza. E’ questo il caso dell’attuale riforma del lavoro, dove, ogni qual volta un esperto d’area si avvicina al testo (così come finora filtrato) finisce per notare un disinvolto uso di menzogne e di tanta retorica. Come quando si sostiene che la riforma estenderebbe le garanzie contro i licenziamenti discriminatori anche alle aziende al di sotto dei 15 dipendenti (falso, c’è già); o quando si magnifica l’ampliamento della platea dei nuovi tutelati (che tocca il 2% della forza lavoro, e non si estende ad una gran parte dell’attuale precariato); o quando si dice che i contratti a tempo determinato saranno disincentivati perché resi più costosi per le aziende (in mancanza di un vincolo che impedisca di scaricare l’1.4% di aumento tassazione sul netto in busta paga, le aziende possono evitar di pagare un solo euro in più); o ancora, quando si sostiene che le modifiche all’art. 18 non si applicheranno al lavoro statale (impossibile perché incostituzionale: se viene modificato lo statuto dei lavoratori, sotto la cui tutela oggi cadono anche i lavoratori statali, non si può esentare un gruppo dall’applicazione).
Quanto all’art. 18 con riferimento ai licenziamenti per motivi economici, ieri sera sentivo Carlo Galli (che lo intendeva come critica) e l’ineffabile Mieli (che lo leggeva in modo laudativo) giungere ad un unico punto di accordo: “Si tratta di un’iniziativa non di valore economico, ma PEDAGOGICO (sic!)”. Questo spiegherebbe perché, invece di cercar di risolvere i problemi di applicazione dell’articolo, che ci sono e hanno talora portato ad abusi di tutela, si è preferito sorvolare sul lato tecnico per portare a casa lo scalpo dei sindacati. Ecco, questo ancora mi mancava. Dopo anni in cui la pedagogia unica del paese è stata quella del “se paghi, puoi fare quel che ti pare”, ci voleva il governo tecnico per formulare con piglio decisionista il proprio luminoso esempio pedagogico non sul conflitto di interessi, non sulla gestione del servizio pubblico RAI, non sulla riqualificazione di arte e cultura mortificate, ma nello spiegare ai lavoratori che avevano goduto impropriamente di troppi diritti. Davvero, mi mancava solo il filosofo-re friedmaniano…
Ahimé, dopo gli ultimi sviluppi sembra non si possa che concordare con Andrea Zhok. E credo che un altra enorme falla riguardi la totale mancanza di indipendenza rispetto alle parti (cosa volgarmente detta “inciucio”) con cui è stato elaborato il progetto di legge elettorale. Per poco che io capisca di queste difficili materie, esso mi sembra davvero capace di moltiplicare per tre la “porcata di partenza”. Che angoscia. Che fare, dunque?
D’altra parte l’appello di Zagrebelsky chiamava in causa “noi”. Dipende da noi. Se ciascuno di noi (privilegiati che hanno un posto fisso) dedicasse il 30 per cento del suo tempo a una qualche situazione emblematica di malaffare, malcostume, corruzione, ingiustizia etc., provando a denunciarla e a impedire che abbia luogo, forse il brusio di fondo comincerebbe a consolidarsi in un’onda di movimento civile, meno puntuale e intermittente dei meeting di libertà e giustizia.
Però.
Però se questo Paese è finito dove è finito, se la “politica” è degradata fino alle “nipoti di Mubarak” non è solo per via delle fragili posture morali ed etiche dei suoi abitanti, dei suoi rappresentanti e dei suoi rappresentati. Magari c’è un problema di fondo che consiste nella mancanza di una idea materiale di cosa deve fare questo paese per poter essere all’altezza della sua storia migliore, per dirla banale ” cosa vogliamo fare da grandi ?”, è mia convinzione che il degrado a cui assistiamo da decenni ha potuto compiere la sua azione aiutato anche da una condizione di sovranità limitata, questo degrado ha potuto generalizzarsi solo in un paese nel quale per una certa minorità presente in parti di ” classe dirigente” e per convergenza con interessi con settori extra-nazionali si è persa completamente una idea ” nazionale”, e quindi è abbastanza chiaro che in assenza di una idea di Paese forte il posto della politica venga occupato dalla “politica” e si vada “fuori recinto”. Smettiamola di pensare che si possa tornare alla Costituzione semplicemente con i proclami civili e morali, pur giusti ma insufficienti.
Sulla “questione materiale” vorrei segnalare al proposito un’articolo del Prof. Sapelli:
http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/7988-quante-sensatezze.html
Mi scuso per la frettolosa superficialità, in effetti ho linkato un commento all’articolo invece dell’articolo. Questo sarebbe il link corretto: http://www.linkiesta.it/italia-mario-monti. Grazie
L’articolo di Gulio Sapelli segnalato da Vincenzo Galatioto è interessante. Personalmente, tuttavia, per certi grandi affreschi che tirano una linea (per la verità un po’ arzigogolata) da Tacito a Buttiglione, non mi entusiasmo più granché. Di Hegel, ha ragione Sapelli, non ne nascono spesso. E forse il raro comparire di così ingombranti interpreti della ragione universale non è neppure questa grande catastrofe. Non potendo entrare nel merito di una così ampia rassegna d’idee, quindi, mi limito a evidenziare un passaggio della disamina di Sapelli che condivido. È quello sui professori, generalmente universitari, da tempo sulla ribalta pubblica in veste di esperti – ovvero di tecnici e (quindi) non di intellettuali, ma di anti-intellettuali. I professori sono in effetti ormai l’unica voce ammessa nella pubblica discussione accanto all’indispensabile côté di nani e ballerine tv, tra i quali per le note vicende degli ultimi decenni, figurano ormai anche i politici. Molti sono opinionisti su giornali o ospiti standard nei talk show. Altri sono stati reclutati dai partiti e offrono, con alterne fortune, il loro contributo politico o istituzionale. Il fatto che, con il progressivo degradare della vita politica a pura pratica di difesa o accapparramento di piccoli e grandi privilegi e rivendicata corruttela, uno di loro – Mario Monti – sia divenuto Presidente del Consiglio, non mi stupisce, quindi. Francamente, la grosse Koalition all’italiana auspicata da Sapelli mi sembra un’ipotesi irrealistica. E se realizzata, non oso immaginare a quanti avrebbe dovuto pagare dazio. Questo non significa che i professori non siano talvolta preoccupanti. E non parlo soltanto di quelli al governo. Oggi leggo Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Sollecita la riforma dell’articolo 18 sostanzialmente facendo il verso all’ipse dixit di Monti di qualche giorno fa, per il quale “in Italia se le aziende non assumono è perché non possono licenziare”. Galli della Loggia, essendo solo un professore di storia, rimanda ovviamente – ovvio – a quanto nei giorni scorsi avrebbe al riguardo “dimostrato” sullo stesso giornale il giuslavorista Pietro Ichino, altro professore. D’altro canto, a Ballarò, ieri sera la tesi dell’insostenibile rigidità del mercato del lavoro italiano è stata fatta propria anche dall’economista Fiorella Kostoris, altra professoressa nonché moglie di un altro (fu) professore ministro: Tommaso Padoa Schioppa. In comune fra loro, i tecnici di ogni parte, sembrano godere di qualcosa come un salvacondotto ideologico. Non pare proprio possibile, infatti, sollevare nei loro confronti l’obiezione di ideologia (e in taluni casi fors’anche di inconsapevole metafisica). I professori, infatti, per definizione, devono la loro autorevolezza proprio al fatto di essere accreditati come la cura (l’unica) alla tanto vituperata ideologia, l’antidoto definitivo all’intellettuale engagé, emotivo e parolaio e magari con l’aggravante di provenire dalle human sciences. Quello che dicono, infatti, può esser smentito solamente usando le loro tabelle, i loro dati, le loro bibliografie. Il che, come si può immaginare, non è facile, benché chiunque possa riscontrare come – a fronte di una visione generale spesso sorprendentemente condivisa – le soluzioni concrete spesso divergano non poco. Ideologicamente, insomma, il professore è irresponsabile per definizione. Egli si fa giudicare solo dai suoi pari, come è giusto. Ovvero da altri professori. Anche se, naturalmente, in questo caso il referaggio è tutt’altro che cieco. È un male questo? Non necessariamente. E non sempre. Farei però notare che tutto questo “professoralismo”, in Italia, non ha impedito (tutt’altro!) a un professore di diritto tributario come Giulio Tremonti, per esempio, di accreditarsi sui media per anni (anni!) come esperto di macroeconomia e politica economica. Inoltre, che il povero cittadino inesperto e privo della necessaria techne, ogni volta che ha contezza per esperienza diretta della materia della disputa, spesso ascoltando l’esperto resta a dir poco sgomento. Si pensi alla famigerata e spettacolarizzata questione della riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Personalmente, lo ammetto, non saprei proprio dire in che modo fare ripartire crescita, investimenti e occupazione in Italia. Mi colpisce, però, come si affermi disinvoltamente, da un lato, che il nostro mercato del lavoro sia troppo rigido, e che questo è un rilevante o comunque non trascurabile ostacolo a crescita, occupazione, investimenti; e dall’altro, si lamenti l’impressionante crescita del lavoro precario, ovvero, dei contratti cosiddetti flessibili. È una contraddizione evidente, per come viene di norma esposta. La realtà, che almeno chi lavora fuori dall’università conosce perfettamente, infatti, è che da vent’anni, ovunque, nel privato e nel pubblico, e non soltanto nelle lavorazioni con cicli o nelle sostituzioni ferie e maternità ecc, si ricorre massicciamente se non esclusivamente e molto spesso abusivamente a contratti a termine, interinali, co.co.co poi co.pro, partita Iva e stage poco o nulla retribuito, outsourcing o para-outsourcing. La flessibilità, quindi, c’è e da tempo in tutte le imprese. Ma non genera o non genera più crescita, posto che l’abbia mai davvero generata. E non attira o non attira più investimenti, posto che li abbia mai davvero attirati. Il problema, semmai, è di equità: per tutti i flessibili “abusivi”; e più in generale per il diverso potere negoziale degli atipici rispetto ai lavoratori assunti a tempo indeterminato, che si traduce, tra le altre cose, in un abbassamento tendenziale del salario per tutti, precari e no. L’altro problema, più sconveniente e quindi poco messo in evidenza, è inoltre quello dell’ottimale allocazione della risorsa lavoro e, insieme, del “giusto” prezzo del lavoratore sul mercato (il suo salario). Più o meno questo è il ragionamento. Se voglio assumere per una qualunque ragione un lavoratore, magari più giovane di un altro oppure più bravo o disponibile o remissivo o intraprendente o amico di amici o … o … o …, io impresa devo potermi disfare di quello vecchio con tempi e costi certi. Questo, infatti, garantirebbe più meritocrazia, più ricambio generazionale, più innovazione, più produttività, più competitività. In base a questo ragionamento sarebbe quindi la possibilità, attualmente ancora nelle mani del lavoratore illegittimamente licenziato per giustificato motivo oggettivo (ovvero, come si legge in quel genere di lettere di licenziamento, per soppressione non sua – poveraccio! – ma del suo posto di lavoro non più funzionale), di scegliere se transare economicamente o essere reintegrato, un rilevante o almeno non trascurabile ostacolo a questo processo virtuoso. Io, però, in più di quindici anni di lavoro tra piccole, medie e grandi aziende, di reintegri del genere sinceramente non ne ho mai visti. E da nessuna parte ho letto mirabolanti numeri di licenziati illegittimamente per giustificato motivo poi reintegrati. Gli effetti molto probabili, se non certi, invece, dell’esclusione della possibilità di reintegro per la fattispecie in questione, sono altri. Ed è un dubbio che mi assilla se i professori non li citino per opportunità o per scarsa conoscenza del mondo del lavoro per come concretamente funziona. Primo effetto: inasprimento della disciplina nella parte bassa della catena di comando, in forza della possibilità di licenziare individualmente per presunta giusta causa (per la quale bisognerebbe dimostrare scarsa produttività o violazione del codice di disciplina o appropriazione indebita ecc.), la quale prevede la facoltà di reintegro in caso d’illegittimità, ma spacciandola per giustificato motivo oggettivo, ben difficilmente sindacabile anche da parte del giudice. Il secondo effetto prevedibile è invece la tendenziale sostituzione, alla spicciolata, nel tempo, di lavoratori più anziani e costosi con lavoratori più giovani e meno costosi, o il demansionamento di fatto dei primi, preoccupati di perdere il lavoro. Questi due effetti, a volte, possono naturalmente andare a vantaggio della produttività e competitività dell’impresa, certo. Altre però no, anzi: ed è molto difficile prevederlo indipendentemente dalle dimensioni, dalla tipologia di mercato, dal modello di organizzazione interna e di valutazione delle risorse umane, dalla cultura dell’impresa a partire dalle quali le nuove norme fossero applicate. Sarei curioso di trovare un professore che scommettesse sul serio su rilevanti risultati economici, in un tempo accettabile e accertabile, di provvedimenti come questi. Di un’altra cosa potremmo essere certi, forse. Per uno che entra, uno dovrà uscire. E trovare una nuova occupazione, per ora e per molti anni, da solo, a un livello salariale quasi certamente inferiore. Io le ho viste all’opera, in Italia, le società di outplacement. Chissà se Ernesto Galli della Loggia ne ha incontrata e sperimentata qualcuna… Risultato finale? Abbassameno tendenziale dei salari per indebolimento del potere negoziale dei lavoratori tutti. Ma a ben pensarci, anche quest’ultimo scenario, che avrebbe se non altro il merito di dare stabilità a molti giovani o meno giovani precari, è incerto; a meno che non si aboliscano subito – come persino l’ex ministro Sacconi ha fatto notare – le tipologie di lavoro atipico da quasi vent’anni usate per aggirare l’assunzione a tempo indeterminato, a partire da co.co.co e co.pro. Oppure, si predisponga uno spietato e capillare controllo di legalità sull’applicazione di questi contratti. Altrimenti non c’è alcun motivo per cui l’azienda, potendo spendere meno e avere le mani comunque più libere, debba rispettare le regole. Puoi darle tutta la flessibilità legale che vuoi. Se non vigili su quella illegale, se le conviene, ricorrerà a quella in molti, moltissimi casi. Funziona così. Non vedo perché dovremmo sognarci che funzioni altrimenti. Tanto più che, se passasse il disegno governativo originario, sarà ancora più difficile per il lavoratore minacciare la causa, perché saprebbe che, se assunto, al primo stormir di fronda del mercato potrebbe essere licenziato per giustificato motivo oggettivo senza possibilità di reintegro. Invece che si fa? Si fanno costare alcune tipologie flessibili, in termini di oneri sociali, di più. Risultato? Ulteriore compressione del salario degli atipici, come è già accaduto per moltissimi di loro dopo l’introduzione del co.pro in luogo del co.co.co. Alcuni, ricordo, sono persino stati obbligati dal loro committente unico (unico!) ad aprire una partita Iva… Mi rendo conto: tutto ciò è molto empirico, sfornito di tabelle, bibliografie, poco professorale. Uno sguardo dal basso. Però temo che per lo più sia vero. Mentre la frase “le aziende in Italia non assumono perché non possono licenziare” risulta da quanto esposto come minimo molto discutibile. E a fronte di una sola certezza, per ora: che con l’economia che va male nei prossimi anni le aziende, oltre che collettivamente per anzianità e fascia salariale, potrebbero licenziare anche individualmente, in modo mirato, senza dover dichiarare nulla di assimilabile a uno straccio di stato di crisi, come oggi invece per lo più accade. Praticamente chi vogliono, quando vogliono. Il principio che si vuole affermare, largamente ideologico, è dunque in realtà questo: “è giusto che l’impresa scelga chi pagare, sapendo in anticipo quanto gli costerà eventualmente disfarsene”. Bene: sotto certe condizioni questa idea ha, credo, un senso giuridico, economico e persino morale, forse. Ma allora: vogliamo almeno stabilire che questo “diritto” non può essere considerato assoluto e incondizionato almeno nel caso in cui sia stata stabilita l’illegittimità del licenziamento? Se gli esperti dicono di no, per quanto detto, non è per ragioni tecnico-giuridiche o tecnico-economiche, ma ideologiche. Eppure non si può dire. E il bello è che talvolta persino i tecnici paiono convinti. Non deve meravigliare. L’impressione che destano è che il sapere da loro stessi prodotto non tenga conto della realtà, non l’afferri realmente, là in basso, non l’ascolti. D’altronde, sono loro i primi ad ammetterlo, i professori, quando si mettono in testa di riformare le università. E che belle riforme fanno, infatti.
A proposito di scienza (in questo caso economica o giuslavoristica) e ideologia, mentre oggi la premiata ditta made in Usa di mestatori e guastatori della opinione pubblica economica, Giavazzi&Alesina, spiega, smentita in tempo reale da Mr. Ikea, che gli stranieri non investono in Italia perché temono che un giudice «decida al posto loro in che modo gestire i dipendenti», ecco cosa ne pensa della surreale querelle sull’articolo 18 Stefano Liebman, Ordinario di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi, che il Corriere della Sera ospita generosamente a pagina 43, subito dopo la posta dei lettori e appena prima degli Spettacoli (sic!).
«Non so se e quanto le dichiarazioni di Emma Marcegaglia al più prestigioso organo di stampa economica internazionale abbiano danneggiato l’immagine del nostro Paese all’estero sui mercati finanziari: dopotutto la presidente del principale sindacato degli imprenditori ha solo rintenuto di interpretare il sentimento di delusione che i ceti imprenditoriali sembrano nutrire nei confronti della versione definitva del progetto di riforma del mercato del lavoro rispetto all’auspicata liberalizzazione in materia di licenziamenti. Una delusione più o meno giustificata dalla sostanza delle misure addottate, ma che ha tratto alimento anche dalla campagna di presunta rigidità del mercato del lavoro italiano che, contro ogni evidenza, una pattuglia di intellettuali nostrani (per lo più economisti teorici) ha condotto in questi anni sulla stampa italiana e nella pubblicistica internazionale. Un’ideologicizzazione della questione che ha indotto lo stesso governo a un’indebita enfatizzazione delle modifiche all’art. 18 dello Statuto a scapito di altre, ben più importanti, misure ricomprese nel disegno di legge presentato in Parlamento: l’iniziale estensione degli strumenti di garanzia del reddito in caso di disoccupazione involontaria, il contrasto agli abusi nel ricorso a forme contrattuali atipiche, il rafforzamento degli strumenti di soluzione extragiudiziale delle controversie e l’accelerazione dei tempi di definizione del processo. I più recenti dati Oecd (Organisation for economic cooperation and development), emendati dagli originari errori di misurazione del 1999, collocano il nostro Paese fra quelli nei quali il licenziamento individuale è più facile: in una scala numerica da zero (livello minimo di protezione del lavoratore) a 5 (massima protezione) l’Italia è a 1,69, accanto all’Irlanda e molto al di sotto di Francia (2,6) e Germania (2,85). Ciò non ha impedito, in questi mesi, di additare l’art. 18 – applicabile a poco più del 5% delle aziende italiane che superano la fatidica soglia dei 15 dipendenti (il 10% è sotto i 9) – una delle ragioni dello strutturale nanismo delle nostre imprese, così come un ostacolo agli investimenti esteri. Peccato che nessuna rilevazione empirica sia mai riuscita a dimostrare l’esistenza di alcun addensamento di imprese che, avvicinandosi alla soglia numerica che dà accesso alla famigerata reintegrazione, evitino di crescere per questo, e come se nel Paese in cui vaste proporzioni del territorio, dal sud al nord, sono infiltrate dal crimine organizzato, dove una burocrazia elefantiaca ed inefficiente rende difficile ciò che altrove è banale e nella quale la classe politica, così a livello nazionale come nelle amministrazioni locali, è notoriamente corrotta, gli investitori internazionali si astenessero da ogni investimento produttivo per paura di non poter licenziare un dipendente se manca la giustificazione. Il varo del provvedimento non ha placato le polemiche e non sono mancati moniti, anche autorevoli, che lamentano i rischi di credibilità dell’intera riforma dovuti a presunti cedimenti rispetto alla purezza dell’impianto originario. Al di là delle proteste partigiane, di cui Confindustria si è fatta legittimamente portatrice, l’analisi seria di una normativa articolata e complessa dovrebbe prescindere dalla hybris di qualche intellettuale, incapace di liberarsi dei propri modelli teorici di riferimento, per calarsi umilmente nella ricerca di quelle soluzioni, concrete e ragionevoli, che possono portare a una soluzione condivisa. Dopo un iniziale irrigidimento, più di immagine che di sostanza, l’equilibro raggiunto è migliore del precedente in termini di coerenza interna e di conseguente capacità di tenuta dell’impianto regolativo ipotizzato».
Condivido totalmente il penultimo commento di Stefano Cardini. In particolare la conclusione – che è davvero l’inizio di tutto il discorso. Nella mente del professore-riformatore del mercato del lavoro c’è l’idea che si debba superare il sindacato di legittimità del licenziamento. Tale sindacato è oggi in capo al giudice ordinario, che può predisporre la sanzione del reintegro nel caso in cui accerti l’insussistenza di un giustificato motivo soggettivo (il caso del licenziamento disciplinare, non a caso detto in qualche fattispecie per “insubordinazione”) oppure oggettivo (il licenziamento per motivi economici). Su quest’ultimo si concentrano gli strali del professore-riformatore: come può un giudice entrare nel merito delle ragioni economiche che inducono l’imprenditore a disfarsi di un lavoratore? Non ha le competenze e nemmeno la legittimità: le ragioni dell’impresa – partendo dall’idea neoclassica – sono per definizione “razionali” (cioè giuste) – non sono dei semplici “interessi” , per loro natura non riconducibili a principi di razionalità assoluta (quindi -ingiustificabili).
Cosa resta dunque?
Resta la necessiotà di fissare un firing cost, un costo del licenziamento – qualunque esso sia – che stabilisca una soglia economica di convenienza/sconvenienza per l’imprenditore. Se l’imprenditore si aspetterà un ritorno economico superiore a quella soglia, procederà al licenziamento, altrimenti no. Ed è salva la razionalità del mercato.
Anche perchè.
Anche perchè il firing cost non ha effetti distorsivi sulla Domanda e Offerta di lavoro: viene inglobato nella variabile salariale (w) e di conseguenza disfatto/sciolto dalla contrattazione salariale. Detto in altri termini: il costo di licenziamento viene inglobato fin dall’inizio nella voce “costo del lavoro” che è l’unica variabile che pesa sulla decisione di assumere. Gli effetti saranno quelli di deprimere il salario netto, ma questo è un altro discorso.
… e dicevano che le ideologie erano morte!!… questi professori applicano le loro regolette da manuale… e sembra che non abbiano mai messo il naso fuori da un’aula universitaria… Politici che parassitano e rubano… tecnici che galleggiano a mezz’aria. E il mondo reale, quello di coloro che tengono in piedi il sistema di mercato, degli sfigati che lavorano o cercano di lavorare onestamente, pagano le tasse, e “movimentano” il mercato grazie ai loro consumi… resta sotto… e rischia tutto. Eppure ci si inchina al feticcio del mercato. Chiedo perdono… io so poco di economia, ma questo governo mi inquieta… non ha “visione”… c’è troppa supponenza… L’immagine che viene restituita al mondo è quella di un paese che per anni ha permesso ad una minoranza della popolazione di depredare le casse dello Stato, di impadronirsi di risorse immense, di far carne di porco di legalità e regole… e si racconta che la colpa è dei lavoratori a reddito fisso, dei dipendenti… a tempo indeterminato… Certo c’è molto da riformare… ma la responsabilità della situazione è nella corruzione, nell’evasione fiscale tollerata e incoraggiata, nell’illegalità diffusa, nella mancanza di controllo sui bilanci e sui rimborsi di partiti e imprese… questo è il dato di fatto… il resto è contorno… Siamo dentro, temo, ad un sistema di capitalismo surreale… un’economia di mercato che rifiuta le regole del mercato, un’economia reale che dipende da un’economia virtuale e priva di qualsiasi riferimento etico… Ma che bello! Una cosa è certa, come sempre, dall’inizio dei grandi imperi antichi, a pagare sono gli uomini massa, quelli che in virtù del numero, sono sacrificabili e sfruttabili fino all’osso… ed eccoci qui!
… e si racconta che la colpa è dei lavoratori a reddito fisso, dei dipendenti… a tempo indeterminato… Certo c’è molto da riformare…
è una favoletta del neo-liberismo che ormai non incanta più nessuno, persino taluni industriali hanno affermato a più riprese che il problema non è l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori…
Mi inserisco in coda ad un dibattito interessante e nello stesso tempo avvilente, perché non si capisce come riordinare almeno mentalmente un paesaggio che appare dissestato da qualsiasi punto di vista lo si guardi.
Se vogliamo utilizzare le tradizionali categorie politiche di destra e sinistra, il senso comune ha sempre attribuito doti di realismo e concretezza alla prima, esagerato ideologismo alla seconda. In realtà è facile constatare, anche sulla base di quanto scritto nei precedenti commenti, come le ricette dei “professori” più o meno bocconiani, così come le affermazioni dei più in vista tra gli esponenti del mondo industriale, si chiamino Marcegaglia o Marchionne, peccano di uno sfrenato ideologismo, considerando acriticamente buono e giusto tutto ciò che è privato, mentre ciò che è pubblico viene caricato di ogni colpa.
Purtroppo la sinistra nel nostro Paese, quanto meno negli ultimi vent’anni, sembra essere vissuta di sensi di colpa, o di complessi di inferiorità, nei confronti della destra più incolta e arrogante del mondo occidentale. Non a caso la flessibilità nel mondo del lavoro (Treu) e la spinta alle privatizzazioni, sono state avviate in alcuni casi, per nulla contrastate in altri, proprio da governi di centrosinistra, con risultati disastrosi che dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti.
E invece ci tocca ogni giorno ascoltare le lamentele degli opinionisti “in servizio permanente effettivo” su giornali e tv di massima diffusione, che criticano la rigidità del mondo del lavoro, l’eccessivo “conservatorismo” dei sindacati, o dell’unico sindacato che si ostina a considerare i lavoratori come esseri umani da rispettare e non carne da lavoro da massacrare. Si tace o si sminuisce l’enorme peso delle organizzazioni criminali che ormai condizionano vasti settori dell’economia e della politica, si sottovaluta la corruzione nemmeno percepita come tale dai più. Non si riesce nemmeno a varare una seria legge anti-corruzione, richiesta da anni dall’unione europea. Si considera normale, ovvio direi, che un individuo come B., amico di mafiosi e criminali, aspiri per l’ennesima volta al governo del paese. Del resto la regione più ricca d’Italia, la Lombardia, nella figura del suo presidente e in numerosi suoi rappresentanti si presenta nel modo che sappiamo: è lo specchio di tutto il Paese?
Non lo credo, ma nemmeno riesco ad intravvedere un modo per uscire da questo brutto incubo. Qualcuno può darmi motivo di speranza?