Già pubblicato sul “Bollettino Telematico dell’Arte” del 5 Febbraio 2012, n. 639 www.bta.it
Mercedes Auteri
Mi scuso da subito se la premessa sarà lunga e personale ma chiedo pazienza al lettore e prometto considerazioni e conclusioni che proveranno ad essere universali.
Lo scorso dicembre sono andata a Berlino perché volevo galleggiare sulla Sprea, insieme ai musei dell’isola. Volevo vedere questa Germania così ricca da fare tremare l’Europa tutta, così capace di risollevarsi dalle proprie ceneri, così colta da investire in arte, architettura e fare dei suoi muri crollati monumeti di coraggio, colore, libertà. Anche lì, però, ho trovato grande contestazione. Mi sono imbattuta nel pensiero di un intellettuale tedesco, Ingo Schulze, che, dopo tre anni di silenzio, era tornato a parlare in pubblico ad un evento intitolato “Attacco alla democrazia”. Diceva, “Parlare di un attacco alla democrazia è eufemistico. Una situazione in cui alla minoranza di una minoranza è concesso, quindi è legale, danneggiare gravemente il bene comune per il proprio arricchimento è già postdemocratica. Colpevole è la stessa collettività, perché non si tutela contro questo saccheggio, perché non è in grado di eleggere rappresentanti che percepiscano i suoi interessi”. E mentre le risorse di legittimazione della democrazia sociale vengono dilapidate in questa redistribuzione a vantaggio dei ricchi, il capitalismo non ha bisogno di democrazia, ma di condizioni stabili. Strutture democratiche funzionanti possono agire piuttosto come forza contraria e freno al capitalismo, e tali sono anche percepite, come hanno dimostrato le reazioni all’annuncio del referendum in Grecia e il suo sollecito ritiro. In Grecia dove tutto è cominciato: la crisi del modello economico occidentale ma, anche, l’ideale di bellezza (come giustizia, onestà, ordine del mondo) e la democrazia.
Abbiamo sentito i politici russi usare il termine “democrazia guidata”, i politici tedeschi dire “democrazia conforme al mercato” e i politici italiani raccontare e fare cose che ho pudore a ripetere. E noi ? che cosa abbiamo detto e fatto ? È tutto così lampante, dice Schulze, “la soppressione della democrazia, la crescente polarizzazione sociale ed economica tra poveri e ricchi, la rovina dello Stato sociale, la privatizzazione e con essa la monetizzazione di ogni ambito di vita (dell’istruzione, della sanità, dei trasporti pubblici, ecc.), la cecità di fronte all’estremismo di destra, lo sproloquiare dei media, che parlano senza sosta per non dover parlare dei problemi reali, la censura scoperta o mascherata (ora come rifiuto diretto, ora sotto forma di audience o format) e tutto il resto. Gli intellettuali tacciono. Dalle università non si sente nulla, nulla dai pionieri del pensiero, qua e là qualche sporadico baluginio, poi di nuovo il buio”.
Ecco da dove forse bisognerebbe ricominciare, allora, dal pensiero e dalla sua esternazione. Come traduce Stefano Zangrando sul Corriere della Sera, dal tedesco all’italiano, la voglia di Schulze di ritornare a parlare, decidendo di prenderci sul serio e “trovare chi ci è affine nelle idee e nelle opinioni, perché un linguaggio diverso non lo si può parlare da soli”, “se giorno dopo giorno ci viene servita la pazzia come fosse la cosa più ovvia, prima o poi anche noi ci crederemo malati e anormali: è solo questione di tempo”.
Hannah Arendt aveva considerato l’assenza di pensiero critico “banalità del male” e la questione civile oggi sembra ancora questa, ritornare a pensare, provare ad accendere qualche baluginio nel buio, proclamare il nostro disagio per scoprire il tesoro della nostra sofferenza morale, per comprendere l’intimo significato della parola democrazia e della parola giustizia, “Idea senza fine e fondamento di valore della nostra esistenza associata”. In questa mirabile chiamata all’arma bianca dell’indignazione che è l’ultimo libro di Roberta De Monticelli, La questione civile, veniamo intimati ad aprire gli occhi, a non rimanere ipnotizzati dall’anestetizzante routine e dalle cattive abitudini a cui vorrebbero asservirci, a fare delle scelte consapevoli, a prendere coscienza del disvalore che ci sta divorando la vita, per dare reale valore ai valori (a parole abusate come: bellezza, giustizia, nobiltà d’animo), a distinguere il bene dal male. È così difficile? I bambini di oggi cresceranno in un Paese incapace di assicurare pari opportunità d’ingresso alle carriere, un’istruzione sufficiente, un’informazione non strumentalizzata, condizioni minime per esercitare i diritti politici ? La cultura dell’osceno e dell’indifferenza ci apparterrà irrimediabilmente solo perché ci è stata imposta per anni o sarà possibile, a uno a uno, cominciare a contrastarla dalle Alpi a Pantelleria e poi, magari, valicare i monti e traversare i mari ?
Personalmente, da qualche tempo ormai, vivo malissimo questa quotidianità teatro dell’ottundimento delle coscienze. Mi sento svenire ogni volta che ascolto schiamazzi da pollaio a tutte le ore e su tutte le reti della televisione italiana che sposa modelli “videocratici” che farebbero inorridire persino Orwell. Mi avvilisce che il disastro della nave da crociera Costa Concordia abbia rivelato, a prezzo di vite umane, l’insostenibilità di un modello di turismo che sfrutta e calpesta le bellezze e il patrimonio culturale non producendo crescita o benessere (come ha dichiarato recentemente Italia Nostra costituendosi parte civile al processo e proponendo un turismo consapevole che porti veri e duraturi posti di lavoro, crescita economica e umana). Mi tramortisce il poco valore che si dà all’ambiente, alle persone, all’alimentazione, la disinformazione e l’incomprensione di quello che succede nel mondo. Basisco davanti all’assenza dei politici, ai limiti dei tecnici, agli abusi, ai soprusi, ai condoni, alla speculazione edilizia. Non capisco tutto il denaro e la violenza che hanno investito lo sport nazionale, il calcio, e tutte le sue propagini del gioco, compresa la liberalizzazione e l’accesso su internet dei giochi online da casinò e affini dove il dispendio diventa invisibile. Vorrei morire quando mi accorgo del proliferarsi di localini, con sfruttamento di avvenenti ragazze dell’est, spesso rifatte, che il più delle volte finiscono poi in giri di prostituzione coofinanziati dai maschi della specie. Ho pianto quando una delle donne dell’harem dell’ex presidente del consiglio ha fatto la lucida analisi del “mio bel paese” (trasformando le due parole vicine, “mio” e ”belpaese”, in due note marche di formaggini che si scioglievano al sole), “Quando sei onesto non fai business, rimani nel piccolo, per avere successo devi passare sopra i cadaveri degli altri ed è giusto che sia così. La bellezza è un valore e il valore si paga”. Ne stavo facendo quasi una malattia, davvero, fino a quando De Monticelli non mi ha spiegato che invece i miei sono “esercizi spirituali del disgusto”, oggi più che mai necessari come conoscenza approfondita del disvalore. Bisogna soffrire fino in fondo per comprendere il fenomeno di questa catastrofe etica ed estetica e provare a reagire. Non notarlo più o, peggio, avallarlo con superficialità è la forma più evidente di consenso alla banalità del male. Da questi esercizi proviamo a muovere i concetti di consapevolezza individuale e responsabilità collettiva, a sviluppare la capacità di mettere a fuoco con esattezza la relazione fra bellezza che stiamo dissipando (catastrofe estetica) e il tragico nascosto dietro al grottesco (catastrofe morale e civile). Ecco, adesso io sto reagendo. A costo di gridare nel deserto, trasformare la mia quotidianità in un campo di battaglia, sarò il cambiamento che chiedo al mondo.
Ti ringrazio lettore per avere avuto pazienza e stomaco d’arrivare a leggere fino a qui e arrivo al dunque, al pensiero pratico. La mia proposta è quella di opporre a questi “modelli videocratici”, i miei “modelli museocratici”. Negli ultimi anni, l’esistenza associata e la vivibilità del pianeta sembrano avere perso importanza per l’individuo sempre più alienato da paura, viltà, egoismo, ormai sempre più incapace di scegliere il bene comune e la cura sana di sè, delle relazioni profonde, del proprio tempo. Al modello del vincere facile, delle amicizie di sconosciuti online, dei ritmi frenetici che impediscono di “stare”, dell’eterna giovinezza e della falsa bellezza (a vantaggio della chirurgia plastica) che generano enormi difficoltà ad invecchiare serenamente (consapevoli, saggi, maturi come solo i grandi vecchi sanno), della ricchezza materiale, del consumo spropositato rispetto alle reali esigenze, i musei oppongono un modello basato sull’importanza del valore, del talento, della storia come maestra di vita, della contemplazione, dell’antico sempre giovane, della selezione di ciò che conta, della ricchezza spirituale. Le attività culturali all’interno di un museo (laboratori per tutte le fascie d’età, concerti, presentazioni di libri, residenze d’artista, performance, ecc.) invitano ciascuno di noi a riflettere su se stesso e sul proprio tempo, a stimolare il pensiero creativo e il problem solving, a creare relazioni sane, a sollecitare la capacità critica e immaginifica che sola ci può salvare da ogni crisi di qualunque portata essa sia.
Non tutte le crisi vengono per nuocere, anzi, alcune sono fondamentali per la rigenerazione. Allora, cerchiamo di trarre profitto spirituale dalla crisi materiale. Siamo diventati poveri? Lo faremo con umiltà. Abbiamo esaurito le risorse? Lo faremo con idee semplici.
Come ha raccontato Adriana Polveroni pronunciandosi in diverse occasioni sull’economia della cultura e sui musei, “la crisi non è il male peggiore, più profondo è un altro buco che ha messo in luce, qualcosa che non si voleva vedere, nascosto com’era dallo scintillio dell’arte. Dell’arte che imita la moda, che ripiega nel lusso, che prende a prestito la vita e fa finta di spensierarsi. Ora, la fine dei soldi ha rivelato la mancanza del senso. La rinuncia a esercitare un pensiero critico rispetto al mondo in cui si muove. Il quale però ha ancora fortissimo bisogno dell’arte, se non altro per quella sua inalienabile capacità di rinnovarsi, di produrre nuovi linguaggi”. Così cominciano a proliferare mostre “sociali”, compiacenti o sovversive, purché capaci di cambiare il nostro sguardo sulle cose. Due, che trovo molto intelligenti, da pochissimo concluse: al Prado di Madrid, Spectaculum spectatoris (un film di tre minuti passato in molte sale cinematografiche spagnole e una videoinstallazione di seicento ritratti effettuati da Francesco Jodice a singoli, coppie, studenti, famiglie, addetti ai lavori, ripresi di notte nelle sale deserte del Prado; per scardinare la struttura del museo, mettendo al centro, insieme ai capolavori, chi lo rende vivo: i suoi visitatori); e alla Strozzina di Palazzo Strozzi a Firenze, Declining Democracy. Ripensare la democrazia tra utopia e partecipazione (dodici artisti internazionali affrontano temi come: lo scontro tra individuo e collettività, la distanza tra i cittadini e la classe politica, il potere e le influenze delle lobby economiche e dei mass media, l’immigrazione, i diritti civili).
Negli anni settanta del Novecento lo avevano già prefigurato Pietro Romanelli (allora direttore generale Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica istruzione), in un fondamentale convegno, Il museo come esperienza sociale, e Franco Russoli (allora soprintendente alla Pinacoteca di Brera), “occorre spezzare l’immagine cristallizzata del museo, dimostrando che si può vivere, attraverso il più libero dialogo con le cose della natura e le testimonianze della storia, la vicenda quotidiana del nostro rapporto con la realtà”. Lo ha ripetuto recentemente Alberto Garlandini (presidente di Icom Italia), “i musei del XXI secolo non sono più solo istituti di conservazione del patrimonio culturale e della memoria storica. Hanno una dimensione sempre più sociale e sono servizi pubblici al servizio delle comunità, producono e comunicano saperi, cultura, creatività. Sono agenzie per la mediazione culturale, per il dialogo interculturale, per la coesione sociale. Aprono le menti e aiutano a comunicare con il mondo. Danno nuova linfa alle identità e alle radici culturali; creano senso di appartenenza; potenziano le attrattive dei territori; migliorano la qualità della vita”. Bisogna strutturare questo modello, qualificarlo, qualificando la professionalità di chi ci lavora.
Sulla trasformazione sociale dell’arte e del museo, come spazi di continua riflessione socio-antropologica e attivatori di sviluppo, rimando a due testi di recente pubblicazione (Gabi Scardi, Paesaggio con figura, Allemandi; e Loriana Ambrusto e Massimiliano Vetere, Slow Museum, Silvana Editoriale) e torno nuovamente al dunque. Il museo, attraverso l’apprendimento informale, e scuola ed università, attraverso l’apprendimento formale, dovrebbero sostenere la lotta all’ignoranza diffusa che acceca le speranze di un futuro sostenibile e che non è solo “scarsa scolarità” ma anche “perdita dell’organizzazione mentale e della cultura materiale legata ai mestieri”. E che, aggiunge ancora De Monticelli, “riguarda molti di noi che abbiamo avuto il privilegio dell’istruzione, che nelle professioni e fuori di esse potremmo e dovremmo contribuire quotidianamente alla qualità della vita e della coscienza morale, civile e intellettuale sulla quale si regge una democrazia”.
Proprio in questi giorni, dopo avere occupato diversi teatri in tutta Italia, gli operatori culturali della penisola si sono dati appuntamento al Museo Madre di Napoli, “consapevoli che qualsiasi trasformazione non può che nascere da una centralità della cultura intesa come creazione e condivisione di pratiche e saperi”, chiedono “la costruzione di un discorso pubblico con i soggetti che dal basso e quotidianamente fanno esistere i beni comuni producendo alternative sociali, economiche e giuridiche”. Non li volevano fare entrare, sono entrati lo stesso. Lo Stato dovrà interrogarsi sulla risposta che sta avendo dalle privatizzazioni e dalla gestione dei fondi pubblici e sui giovani che reclamano lavoro, dignità, formazione, pane e cultura. Sono dei teppisti? Non credo. Mi sembrano gli stessi che hanno fatto cordone davanti al Museo Egizio del Cairo per difenderlo, sotto i colpi dei cecchini che sparavano dai tetti; gli stessi che hanno colorato di vita quel muro di morte che aveva diviso Berlino; gli stessi che hanno aiutato L’Aquila a riportare alla luce il patrimonio storico artistico dopo il terremoto. Gli stessi che sono andati dove non li volevano fare andare, a riprendersi quei valori per cui vale la pena vivere.
James Hillman diceva che preparare del cibo in modo sciatto, indossare una giacca cucita male, non ascoltare il cinguettìo degli uccelli o non fermarsi a contemplare il crepuscolo significa ignorare il mondo. “Questo stato di ignoranza, questa anestesia, è la condizione umana attuale ed è sostenuta e favorita dalla nostra economia, dal nostro modo di impiegare il tempo libero, dall’uso che facciamo dei nostri mezzi di comunicazione e dal nostro modo di curarci. […] Ho il sospetto che favorisca la passività politica del cittadino euro-americano e quindi aiuti i poteri dominanti a proseguire, senza impedimenti, sulla loro rotta rovinosa” (La politica della bellezza, 1999, tradotto in Italia nel 2010). Io penso che tutti dovrebbero leggere James Hillman almeno una volta nella vita.
A proposito di quanto affermato, e qui riportato, da James Hillman, vorrei ricordare queste parole profonde eppure, come sempre, lievi di Wislawa Szymborska, di recente scomparsa.
Sono i versi bellissimi di Disattenzione (da Due punti).
Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,
senza stupirmi di niente.
Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.
Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in la’
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.
Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.
Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.
Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro
(e qui un paragone che mi è mancato).
Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.
Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.
Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.
La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.
È durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.
Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.
Per un po’ mi sono sentita come l’io di questa poesia: non trascendevo di un millimetro la mia capocchia di chiodo, sentivo la profonda attinenza di questa poesia alla meditazione estetica e civile di Mercedes Auteri – e “sapevo” anche che c’era – la citazione finale di Hillman è un nesso logico impeccabile. Ma non la vedevo. Ma poi, finalmente, l’ho anche “vista”. Disattenzione è mancanza di civismo cosmico. Cosmo: cioè ordine. Bellezza. Ne discende ancora perfino la nostra povera cosmesi. O riparte da lì – dalla bellezza come ordine segreto, che esige attenzione per essere svelato, e dalla bruttezza come disordine che è incivile lasciar essere, senza sconcerto e senza domande – o non rinascerà affatto la nostra coscienza felice e dolorosa del bene e del male, la passione stessa di vivere. Abbiamo dormito molto più a lungo che ventiquattr’ore. Il mondo era folle, e l’abbiamo preso per uso ordinario. Se non è cosmico d’origine, del nostro civismo non resterà che ordinaria politica.
Molte grazie Stefano Cardini, “Disattenzione” è una delle mie poesie preferite (tra le tante preferite) di Wislawa Szymborska, è una gioia che voi l’abbiate letta tra le righe del mio testo. Il sapere-vivere cosmico esige da noi attenzione, rispetto, partecipazione. Ringrazio Roberta De Monticelli per avere ricordato a tutti, con il suo impegno e le sue pubblicazioni, che una vita vissuta in mezzo alle oscenità e alle brutture perde senso e (con Camus) che bellezza e giustizia sono i valori per cui “i greci hanno preso le armi”, per cui vale la pena vivere.