“DIDATTICA ENATTIVA. Complessità, teorie dell’azione, professionalità docente” di P.G. Rossi, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 156, € 20,00
Il sottotitolo del libro di Rossi circoscrive il dominio nell’ambito del quale la didattica enattiva prova ad essere definita, analizzandone le possibilità applicative. Diciamo subito, oltre le notazioni che seguiranno, che trattasi di un evento di straordinario valore. Da circa un quindicennio una sorta di spettro si aggirava, in forma rustica, in rete con una proposta di didattica di contrasto a quella dominante (www.didatticaenattiva.it). Lo stesso si potrebbe dire per la carta stampata (“Scuola & Città”, 1, 1999, La Nuova Italia, Firenze), dove una prospettiva di didattica derivata dall’enazione di Francisco Varela è stata ospitata, malgrado l’ autorevole direttore Aldo Visalberghi ritenesse, allora, i tempi non ancora maturi per una proposta di quel tipo. Ci sono però ragioni per essere convinti che oggi Egli saluterebbe con interesse la pubblicazione del Prof. Pier Giuseppe Rossi. Sono peraltro solo di un paio di anni fa gli interventi di chi scrive nel dibattito su Phenomenology-lab su tali temi, proseguiti con un articolo diretto “Dalla struttura preventiva alla struttura enattiva”, sempre su Phenomenology-lab. Ma vi era già stato un saggio organico su “Psicologia dell’educazione”, 1, 3, Trento, Erickson, intitolato “Il curricolo nella didattica enattiva”.
Sgombriamo il campo da quanto è poco evidente nel libro, per concentrarci poi su un paio di questioni rispetto a quanto è stato circoscritto. Colpisce la non centrazione del ruolo delle neuroscienze che pure hanno qualche legittimità a candidarsi come ineludibile base culturale di una didattica enattiva; non fosse per il fatto che la specifica provenienza vareliana di tale proposta è rintracciabile, oltre che ne La via di mezzo della conoscenza di Varela, Thompson e Rosch del 1992 (Feltrinelli) e in altri suoi scritti, nel saggio “Neurofenomenologia” (in Neurofenomenologia, a cura di Cappuccio, Bruno Mondadori, Milano, 2006). E’ in quest’ultimo ormai leggendaria opera che prende spessore di sicura prospettiva l’avvento di una epistemologia basata sul cervello, correlata all’esigenza di una scienza della coscienza; a partire dall’ indagare la questione dei suoi correlati neurali. Si è pure tentati dal ricercare nel libro la dimensione fenomenologica, che è di centrale importanza in presenza di Indicazioni nazionali per il curricolo nella Scuola del primo ciclo (elementare e media) che avvertono (sulla base dei contributi di Ceruti e Morin) che è tempo di dover sospendere o di abbandonare le strade dei curricoli preformati per dar vita a una didattica originale. Poiché però i docenti non possono essere destinatari di impartizioni –che peraltro storicamente non hanno avuto nessuna conseguenza, almeno sul piano dei richiami all’innovazione- è bene che vi sia sospensione di giudizio sulle pratiche da superare; che però non verranno mai superate se su di esse non si conduce un’indagine fenomenologica. E’ dai risultati di una tale indagine che è possibile poi avviare la costruzione di un’ipotesi alternativa. Si dà ora per scontata che questa alternativa consista nella didattica enattiva. Ma dove si genera il cammino verso di essa? Certamente, come Rossi indica, l’inizio sta nell’accoppiamento strutturale docente –discente, ad effetto autopoietico. Ma per fare cosa?. La risposta è “fare la conoscenza mentre si fa”. Il discorso fin qui è coerente con l’impostazione vareliana. Ma si dimenticano alcuni passaggi, senza cogliere i quali le cose resteranno irrimediabilmente immutate. La questione delle resistenti pre-comprensioni, costituenti la struttura preventiva, e il rapporto mezzi-fini.
Per Varela, come per Fodor, Gazzaniga, Libet ed altri, quelle pre-comprensioni ostacolano l’azione percettivamente guidata. Ma da che cosa è guidata la percezione? Certamente dall’azione, ma sopratutto dal senso e significato di quegli atti agiti. E cosa sono le azioni se non il segno del nostro essere nel mondo rispetto a come il mondo va? Insomma, detto con tutta la prudenza possibile, la percezione, oltre ad essere guidata dalle regole della scienza, è guidata dall’etica. A partire dall’etica che sta nei saperi rispetto alla quale incombe un obbligo di trattazione. Se no la presunta neutralità, spacciata per oggettività, sterilizza il sapere e veicola surrettiziamente l’etica personale del docente. Che invece ha un ruolo decisivo da svolgere, ma non in sede di quell’accoppiamento strutturale; ma in sede di concordanza collegiale nel definire come la dimensione etica debba trovare le forme per manifestarsi in quell’accoppiamento. In altri termini, l’azione percettivamente guidata da parte docente sta ad indicare una insostituibile dimensione di responsabilità formativa. E’ qui che prende corpo una moderna concezione della professionalità docente sulla quale il Prof. Rossi potrà concordare. Dopo, però, che si sia chiarita la questione mezzi-fini; che io interpreto come relazione fini-mezzi-fini. Nel corso del bel libro di Rossi –che fungerà certamente da apripista nel mondo della pedagogia ufficiale- la questione dei fini è giustamente vista con preoccupazione: lavorare parossisticamente sui fini veicola vizi ideologici. Sta però che lavorare senza una qualche meta significa lavorare a caso e sperare che il caso risolva i problemi dell’educazione è opera vana. Dunque, si può concordare che una qualche idea di dove si voglia andare possa essere utile. A mio avviso, invece, costituisce il cominciamento assoluto, non fosse altro perché porsi tale problema apre un circolo virtuoso: quello di un’ermeneutica dei fatti educativi. Porsi una qualche meta implica definire una metodologia di ricerca di quelle finalità. Che sono da cogliere nel corpo vivo delle Indicazioni ministeriali. Una volta definite collegialmente una serie di finalità formative, si apre la strada a quali contenuti, a quali mezzi, fare ricorso per mettersi su quella strada. Che deve restare strada aperta, sapendo che il cammino lo si fa con l’andare. Verso i personali progetti di esistenza del docente e del discente. La didattica enattiva libera i docenti dai percorsi preformati e li fa costruttori attivi di storie personalmente vissute. Se questo lo si fa tenendo lo sguardo verso qualche meta, significa solo poter operare una selezione dei saperi. Perché tutto non può essere. Sta che da qualche decennio la pedagogia è silente, se non assente, dal dibattito delle scienze. Il libro del Prof. Rossi ricolloca le scienze della formazione nel dibattito tra scienze dure e scienze morbide, riconoscendosi in quest’ultimo territorio, ricco però di problemi duri.
Per dirla meglio, nei termini di Von Foerster, le scienze dure (fisica, biologia, ecc.) mietono successi perché hanno a che fare con problemi morbidi; le scienze morbide (le scienze della formazione, ecc.) stentano a procedere perché è a loro che toccano i problemi duri. Sarebbe un vero peccato da parte della Pedagogia universitaria non cogliere questa occasione per avviare la fuoriuscita da una condizione silente, fatta di infinita replicanza disciplinarista. Il costo però è quello che si paga nel trattare fattualmente –anche col metodo delle scienze morbide- problemi veramente duri. Con le coerenze necessarie.
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