Massimo Cacciari sulla morte di Don Verzé: «il dovere di discernere»
Il Phenomenology Lab è un progetto editoriale on line nato per iniziativa
del Centro di ricerca in fenomenologia e scienze della persona
dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, aperto a tutti
gli studiosi e cultori della fenomenologia, della filosofia della mente
e delle scienze cognitive (continua | more)
IL DOVERE DI DISCERNERE
Segnalo a tutti il discorso di Massimo Cacciari in occasione della morte di don Verzé, di cui abbiamo saputo questa mattina, e accolto anche sul nostro Lab.
Sono profondamente in sintonia con il primo concetto che Massimo Cacciari ha espresso con decisione e chiarezza a più riprese: il dovere del discernimento. Dell’analisi, della distinzione: ciò che – è vero – in questo paese abbiamo più difficoltà a fare. E con il secondo: il riconoscimento del molto bene che don Verzé ha fatto.
Ritengo giusto e necessario sottolinearlo, a fronte anche di numerose sollecitazioni, questioni, critiche, e reazioni anche molto dure, che giungono dall’interno e dall’esterno a chi fra noi più si è esposto, anche pubblicamente, a sostegno di una pur unanime esigenza di rinnovamento. Per minuscola che sia la vicenda di ognuno di fronte alla morte di un uomo, per ininfluente che sia il pensiero filosofico di fronte allo scontro di forze, necessità, bisogni, interessi che un’opera come quella fondata da don Verzé suscita e susciterà, per irrilevanti infine che siano le personali convinzioni di chi scrive, è giusto anche, in questo momento, ribadirle con serenità e fermezza di fronte a chiunque ce ne chieda ragione. Chi scrive ha tentato di applicare questo principio – discernere il bene dal male, sottolineare e valorizzare al massimo il bene, che è sempre la cosa più difficile, e anche esprimere pubblicamente gratitudine per questo bene – in tutti i suoi interventi pubblici dal suicidio di Cal in poi – prendendosi anche le bordate assai violente, spesso, di quelli che non amano distinguere: le accuse di difendere l’indifendibile, e le accuse di sporcare il piatto in cui si mangia.
Allora io a don Luigi come addio vorrei soltanto riprodurre qui la frase centrale di un pezzo che ho scritto in risposta all’articolo di Francesco Merlo. La versione che fu pubblicata da Repubblica fu purtroppo tagliata – dovette esserlo – e un intero paragrafo fu eliminato, nonostante io abbia cercato di esprimerne il senso comunque, nel resto del pezzo. Ma eccolo qui – ciascuno lo potrà ritrovare perché è la versione che pubblicammo sul Lab di sabato 3 dicembre: https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2011/12/de-nobis-ipsis-silemus/
“Questo io chiederei – e forse non da ora chiedo – a tutti noi, che infine di questa meravigliosa giovinezza che è la ricerca vera, e di questa vera religione che è l’indagine nelle profondità dell’umano, abbiamo avuto il privilegio di vivere. A noi, che dal pensiero che scienza e sapienza dell’umano potessero quotidianamente incontrarsi abbiamo ricevuto linfa e nutrimento. E che riconosciamo con dolorosa gratitudine da dove, da chi, ci viene questo pensiero, o almeno la possibilità di metterlo in pratica. Questo chiederei: quanto ha potuto giocare nella nostra ignoranza del lato oscuro il rinvio ingiustificabile del nostro primo dovere, quello di chiedere e dare ragione, sempre? Di chiedere trasparenza, e di applicarla, sempre? Quanto agli altri, agli amministratori, e quanto anche a noi stessi si applica il detto che non c’è servitù se non volontaria, o almeno che anche l’opacità delle decisioni ultime, dove è subita, è volontaria? Oggi non c’è altra salvezza per questo bene, la ricerca, l’università, l’eccellenza e la libertà, che nella nostra prontezza a scindere il riconoscimento della paternità di un’idea e della sua forza, dall’acquiescenza all’oscurità dei metodi consortili della “padronanza”. Scrisse per ben altra occasione Piero Calamandrei che “sotto la morsa del dolore e della vergogna gli indifferenti…(si sono risvegliati) alla ribellione contro la propria cieca e dissennata assenza”. E io se potessi vorrei proprio chiederlo, anche a chi vede oggi pendere sul proprio capo accuse infamanti (accuse tuttavia, ricordiamocelo, non ancora condanne), e, come apprendiamo oggi, “se ne assume tutta la responsabilità”: quanto male abbiamo fatto noi, anche a lei, don Luigi, a non chiedere abbastanza ragione e chiarezza, e anzi verità – che è uno dei nomi di Dio – e, in mancanza di una risposta, a non dire “no”?”
I cristiani dovrebbero chiamare queste inadempienze “peccati di omissione”, e per vigliaccheria, codardia, paura nell’accettare la sfida che è la vita -mi sovviene il Kant di “Risposta alla domanda….”- si consumano gravi delitti: lasciare soli quelli che debbono decidere. E questi, nella loro solitudine, senza il conforto del confronto e del dialogo, sprofondano nell’errore, arroccandosi poi spesso nell’ostinato, solipsistico, difender l’errore stesso.
Per questo gli antidoti più efficaci non posson che essere trasparenza, chiarezza, condivisione razionale. Come vuole appunto la fenomenologia.
Grazie di tutto profssa.
Nicola Morra
La morte di Don Luigi Verzé impone a tutti noi – prima di tutto – il silenzio.
Silenzio di fronte al mistero di questa vita che si è conclusa, di questa persona che si è appena congedata dal mondo dei viventi, tuffandosi nel gorgo sconosciuto e inevitabile che chiamiamo Morte. E’ solo in questo silenzio che potrà risuonare ed essere ascoltata la voce interiore che indica il nuovo punto di vista sul quale ci isseremo per esaminare con sguardo nuovo la parabola di chi ci è – sempre – stato “prossimo”. Non aprire lo spazio del silenzio ci consegnerebbe al congelamento nel tempo prima della morte, ripetitori immobili incessanti di un “prima” che non c’è più, incapaci di compiere il primo dovere dopo il silenzio, quello a cui ci richiama Massimo Cacciari: il discernimento.
E come luce per il tempo del discernimento vorrei citare la frase con cui, neanche dieci giorni fa, Stefano Cardini ha aperto il suo contributo “La bellezza di Prometeo”:
“La bellezza morale può essere considerata come la giustizia che si realizza prendendosi cura del “come” e del “quanto” non meno che del “che””
Per Caccaiari, giustamente, bisogna discernere, ma non può sempre finire tutto a tarallucci e vino. Capisco che parli anche pro domo sua, ma la domanda cruciale che dovremmo porci è: perchè in questo dannato paese, anche l’eccellenza deve essere nelle mani (spesso, come in questo caso, sporche) di volontà individuali o di gruppi di potere occulto, e mai perseguita istituzionalmente e democraticamente? Secondo la logica di Cacciari, allora, questo paese dovrà essere grato anche a un Berlusconi, per le professionalità che si sono potute esprimere e creare nelle sue aziende, tralasciando così il danno incalcolabile che ha arrecato al pluralismo della comunicazione che si sarebbe attuato senza di lui. Quello che dobbiamo chiederci, a proposito dei troppi “Don” Don Verzè di questo paese è: è valsa la pena bruciare risorse economiche e intellettuali in un solo punto di eccellenza, e così, di fatto, privare il resto del paese di queste eccellenze? Gli intellettuali come Cacciari, quando capiranno che hanno una missione sociale e non solo accademica autoreferente? Quando capiranno che le cattedrali nel deserto non servono allo progresso reale di un popolo? Anzi, sono la condizione della sua arretratezza politica e sociale.
In questi inviti a discriminare il bene dal male non vedo discernimento ma mistificazione della realtà. Sentire che “nonostante tutto ha fatto del bene” stomaca. Don Verzé era indagato per abuso edilizio, istigazione alla corruzione, truffa, prostituzione minorile, falso in bilancio. Davvero la morte può neutralizzare la posizione dei viventi di fronte alla giustizia?
Cacciari è come il profitto: non importa come aumenta, l’importante è che aumenti. Faccio un esempio che capisce pure lui: in sei anni Hitler ha fatto lavorare tutti i tedeschi e ha messo su il più criminale esercito della storia. E nel frattempo Heidegger che faceva? Cincischiava nella foresta teturonica sull'”essere” (naturalmente sempre a pancia piena). Conclusione: io sono sicuro che la funzione dell’intellettuale non sia quella dell’addetto alla ‘cassa’, che conta e riconta fino alla disperazione per accertarsi che le ‘entrate’ siano superiori alle ‘uscite’. Discernere, per me, significa una cosa soltanto: non una vita deve essere ‘bruciata’, per nessuna ragione al mondo. In alternativa, chiedo a Cacciari: perché non fai tu la parte del ‘bruciato’?
Mi spiace leggere le parole di Domenico Felice perché dimostrano quanto si possa essere chiusi mentalmente ed indifferenti al dolore verso il tragico mistero della morte. Saper discernere le opere di un essere umano, significa comprenderne la sua debolezza costitutiva. Non ho altro da aggiungere.
Non ho detto nulla né mi azzarderei di dire mai qualcosa sull’evento morte. Ho contestato e contesto solo giustificazionismi d’accatto, schemi mentali ‘pro domo sua’.
E’ un malinteso cristianesimo “l’impicciarsi” del ‘tragico mistero della morte’.
Faccio un altro esempio più cristiano: Ambrogio ‘punisce’ Teodosio, che aveva fatto massacrare 7 mila abitanti di Tessalonica, vietandogli di andare a messa… Il mio problema, da cristiano, sono e restano (invece) i 7000 massacrati (uno per uno, e cioè tutti), non già Teodosio (che consenste, poi, ai cristiani di ‘trionfare’). Il cristianesimo di Cristo non è il perdonismo ad ogni costo, sempre e comunque. L’etica non è una prioritariamente una teoria, ma prioritariamente una pratica di vita, è un ‘esercizio spirituale’. Un esempio per tutti: Francesco d’Assisi (il quale, come è noto, non costruiva chiese, ospedali, università, ecc.).
Chiederei a Martina documentazione su le eventuali indagini a carico di don Verzè su prostituzione minorile, truffa e falso in bilancio. In caso ciò non fosse documentabile credo sia opportuna una rettifica.
Ps. Difficile dare giudizi “morali” senza conoscere una persona e basandosi sulle notizie (sincere?) della stampa. Cacciari, che sicuramente lo conosceva meglio di ciascuno di noi e dei giornali, mi pare esprima anche un giudizio personale sulla moralità di don Verzè nel video pubblicato ed in altre occasioni: ” Si appureranno le responsabilità che credo in grandissima parte se non in tutta risulteranno poco imputabili a don Luigi”… “Il tempo dimostrerà che era estraneo ad ogni malversazione”. Ovviamente un giudizio morale può basarsi solo sulla stretta conoscenza di una persona e non su eventuali scoop giornalistici da verificare oggettivamente e criticamente: spero che chi parli, pertanto, lo faccia per approfondita conoscenza diretta dei fatti e della persona e non per aver letto questo o quell’altro giornale.
Desidero citare dalla breve ma illuminante rubrica del domenicale de Il Sole 24 Ore in cui Gianfranco Ravasi, fra i più eminenti uomini della Chiesa (Cardinale solo da poco più di un anno), riportando alcuni versi della poesia di Pier Paolo Pasolini A un Papa (Pio XII) “Lo sapevi, peccare non significa fare il male; / non fare il bene, questo significa peccare”, ci ricorda che la morale cattolica ha introdotto il “peccato di omissione” – tale da essere considerato anche un peccato mortale – e sottolinea la indifferenza con la quale lasciamo talvolta che l’altro incespichi e cada. Conclude, chiosando i versi di Pasolini: ”indubbiamente, non bisogna fare il male e si deve evitare di non fare il bene; ma bisogna anche fare bene il bene”. Spero di aver interpretato correttamente pure il pensiero della stimatissima professoressa De Monticelli.
A me della colpevolezza o meno di Don Verzè non importa nulla, il mio intervento qui sopra parla della doppiezza di Cacciari e del danno che ne viene a un paese quando si fanno cattedrali nel deserto, per di più fallimentari. Per farmi capire, rimanendo in campo medico, si pensi solo all’abisso “morale” che separa la vita di un Gino Strada da un Don Verzè. E poi, quanto all’efficienza della struttura e alle grandi capacità manageriali di Don Verzé, faccio solo una domanda: quanta efficienza si può attuare con un buco di un miliardo e mezzo di euro?
Sono reduce dalla puntata de L’Infedele di Gad Lerner nella quale, a poche ore da decisioni cruciali sulla proprietà del San Raffaele, si sarebbe dovuto discutere del futuro di questa rara realtà d’eccellenza nell’assistenza, nella ricerca, nella didattica. Premesso che di Don Verzé e della sua ideologia pregiudizialmente e spregiudicatamente antipubblica (peraltro non soltanto sua) non ho mai pensato bene, sono rimasto esterrefatto. In un guazzabuglio stucchevole di temi e petulanti presenze politiche, le uniche voci informate, come quella del dirigente di ricerca Luca Guidotti, e persino del Ministro della Salute, hanno avuto solo pochi secondi per tentare, senza ricevere il minimo rilievo, di mettere in evidenza il punto vero della questione: come evitare di far sparire l’unica realtà sanitaria italiana che, coniugando assistenza, ricerca e didattica secondo standard internazionali, ci tiene per un filo agganciati al futuro? E come evitare, quindi, che una nuova proprietà eventualmente interessata solamente a intascare i rimborsi pubblici per l’assistenza, faccia strame della ricerca e della didattica? Gad Lerner non ha capito il tema? La redazione, quando ha preparato la trasmissione, dormiva? O s’è ritenuto fosse piu’ solleticante discettare sul tema eccitante e di grande attualità se “quella di Don Verzé sia stata megalomania o prometeismo scientista”? Vai a saperlo. Da giornalista, però, quando vedo come a volte lavoriamo, mi sento male…
Anche io sono reduce dalla puntata dell’Infedele, concordo con Stefano Cardini che sia stata un’occasione persa, ma non penso che ne abbia colpa Lerner, intanto la puntata e’ stata dominata dal tema che giornalisticamente piu’ ‘ tirava ‘ in quei giorni ovvero ‘ i controlli fiscali a Cortina d’Ampezzo ‘ , questo tema ha purtroppo tolto molto spazio, in ogni caso il tema specifico sul san raffaele proposto ai telespettatori era il crollo del sistema di potere di cui Don Luigi era uno dei cardin, non una discussione sui destini della nostra istituzione per la quale altre dovrebbero essere le sedi , purtroppo anche in trasmissione ho dovuto constatare ancora una volta come a vari livelli sulla questione Don Luigi si preferisca attuare la politica dello struzzo, devo dire che mi e’ di conforto la risolutezza con la quale la Prof.sa De Monticelli cerca invece di affrontare il tema, due ultime considerazioni, la prima: dobbiamo uscire dai balbettii circa questa vicenda’ e dobbiamo farlo collettivamente pubblicamente con misura e raziocinio nascondere lo scheletro nell’armadio non serve a nulla. La seconda considerazione; sono un lavoratore del San Raffaele, un semplice impiegato, lavoro quì da molto tempo e non sono disposto a vedere crollare ciò che ho visto crescere nel tempo, Don Luigi mi era avversario per cultura politica di riferimento, però gli riconosco di avere sempre avuto piena consapevolezza di cosa sono capaci le persone se vengono messe in grado di dare il meglio di sè stesse, ben altra discussione si dovrebbe fare invece sulla capitalizzazione strumentale di tali capacità volta alla costruzione di elementi di potere, e di potere politico in particolare.
Vorrei ringraziare Vincenzo Galatioto per queste sue limpidissime parole, che vorrei indirizzare anche a persone alle cui domande purtroppo non ho forse finito di rispondere, dato l’incalzare degli eventi ma anche la persistenza del nostro primo dovere, che è non trascurare il lavoro che si fa e farlo al meglio delle nostre forze. Eccole, le parole cui non cambierei una virgola, applicandole anche a me: “Don Luigi mi era avversario per cultura politica di riferimento, però gli riconosco di avere sempre avuto piena consapevolezza di cosa sono capaci le persone se vengono messe in grado di dare il meglio di sè stesse, ben altra discussione si dovrebbe fare invece sulla capitalizzazione strumentale di tali capacità volta alla costruzione di elementi di potere, e di potere politico in particolare.”
Verissima la prima parte di questa proposizione – e quella consapevolezza è stata la fonte di molto bene. Verissima, e quanto mai attuale, anche la seconda: dove si potrebbe aggiungere che questa “costruzione di elementi di potere” nel sistema opaco di prima, senza rottura di continuità con quel sistema, è proprio ciò che sta minando dall’interno, fino a rischiare di distruggere, il bene di cui sopra. Tali sono l’opacità, l’abitudine a decidere le cose con accordi telefonici invece che per mezzo di limpide discussioni e procedure alla luce del sole, o addirittura il tentativo di arrivare a decisioni strategiche irreversibili prima di averne messo al corrente i soggetti interessati – e di averle discusse con loro, non semplicemente in nome di questi interessi, ma in nome delle risposte e delle ragioni che oggi dobbiamo tutti alla società civile.
E oggi il desiderio primo di tutti coloro che vogliono salvare e potenziare il bene, dentro il San Raffaele (io conosco solo l’Università, e per quella parlo)credo che proprio questo debba essere: non lasciar fare senza chiedere ragione, non lasciare che di nuovo opacità e desistenza l’abbiano vinta. Grazie a Elio Mattia Palumbo per l’assist: quello che lui chiama “peccato”, il peccato di omissione, è quello che Piero Calamandrei appunto chiamava “desistenza” – o anche “ciecva e dissennata assenza” di chi sta zitto e fermo quando ci sarebbe da dire, e aspetta solo di vedere chi vincerà.