De nobis ipsis silemus, suona il famoso adagio dei filosofi. De res agitur. E parliamone, allora della cosa. Del San Raffaele, anzi di un suo aspetto che continua a passare sotto silenzio, confuso nel fiume melmoso del disastro che ha travolto ma non sradicato la direzione della Fondazione San Raffaele e non ha finora toccato l’Università (la cui amministrazione è comunque separata e autonoma). Parliamone finalmente, con il massimo possibile di onestà, di attenzione alle vite e alle motivazioni di tutte le persone implicate, e con un più di veglia critica rispetto a se stessi.
Primo fatto. E’ in corso da quest’estate una discussione, di cui si può trovare traccia negli atti dei consigli di Facoltà, che il corpo docente sta facendo sull’avvenire dell’Università (e naturalmente anche di quella parte della ricerca che è legata alle strutture dell’Ospedale). Se c’è un punto su cui i docenti si sono espressi in modo unanime, è la difesa della libertà di ricerca e di didattica, che è del resto l’altra faccia dell’eccellenza che al San Raffaele viene riconosciuta da questo punto di vista a livello internazionale. Altri punti su cui nessuno ha dubbi: che la crisi presente offra l’opportunità per un “rilancio dell’istituzione con progetti ad ampio respiro strategico che rinnovino l’identità dell’Università”. Che di questo rinnovamento debba far parte l’adozione di metodi di perfetta trasparenza nella comunicazione e nella determinazione delle decisioni. Che venga approfondita la caratteristica interdisciplinarità che già ci distingueva, con filosofi e psicologi impegnati nella sperimentazione e nelle discussioni dei risultati a fianco di neurobiologi e medici. Che persista la necessità di unità inscindibile con l’ospedale, perché come attuare altrimenti la ricerca di laboratorio, di base e clinica. Finora mi sono limitata a parafrasare i verbali delle Facoltà. Ma c’è un altro fatto, e se vogliamo parlare con onestà occorre che la pubblica opinione ne sia al corrente. “Facile” – hanno obiettato alcuni – fare buona ricerca avendo una pioggia di denari sempre assicurata, per vie diritte o torte. Falso: non una lira, a quanto mi è dato sapere, viene alla ricerca da altre fonti che quelle note a tutti coloro che fanno e si fanno valutare progetti: i finanziamenti internazionali e (in minor misura) nazionali cui si accede mediante competizione e valutazione. “Comodo” – hanno obiettato altri – far carriera in un posto che si considera una “famiglia”, e dove si avanza per fedeltà e non per meriti. Falso. A quanto mi è dato sapere, cioè per quanto riguarda l’Università, non c’è stato mai altro criterio che quello della bravura: in misura molto superiore – a quanto mi dicono – rispetto a quello che purtroppo avviene nelle università statali. “Malata da sempre, la creatura faraonica di don Verzé” – hanno scritto altri, perché malata di orgoglio luciferino, abitata da “biologi faustiani” e “profeti di un cristianesimo antichiesastico e antidogmatico” – mah, chissà se questa è una malattia. Perduta, questa creatura fondata nel 1996 “con l’ambizione di superare la contrapposizione moderna fra sapere scientifico-tecnico e sapere umanistico-filosofico”? Vero. Vera l’ambizione, e credo si possa esserne orgogliosi. Una “melassa di libertarismi pseudo agostiniani”? Mah. Quanto “devoto” livore per commentare la frase più bella che ho sentito dire a don Verzé: “non cerco credenti, ma pensanti”.
Ma ora basta con le premesse fattuali. C’è una domanda enorme che riguarda ognuno, in questa nostra Italia declinante e inginocchiata nel fango. Una domanda che riguarda tutte le coscienze, e ancora di più, fra gli universitari, grava sugli eredi di Socrate che su quelli di Ippocrate. Come è possibile che tanto bene reale e virtuale – clinica d’avanguardia, ricerca medica, biologica, psicologica, forse anche filosofica, di grande qualità e soprattutto sempre sovrana nella sua libertà, e anche abituata ai duri standard della competizione e della valutazione dei risultati dei singoli e delle équipes – sia fiorito nell’abbraccio mortale con tanto male? Come ha potuto essere fondato, come dice Merlo, non soltanto su “una corruzione enorme”, e neppure soltanto, come giustamente sottolinea, sull’accoppiata tutta italiana di mammone e del Padreterno, ma sul fondamento di quanto di più terribile c’è nei geni del nostro Paese, la confusione di Padre e Padrone? Chiedo “come ha potuto” perché da un lato questa confusione e la fenomenologia che Merlo descrive è quanto di più incompatibile ci sia con l’anima profondamente illuminista e radicalmente, direi spietatamente liberale, della ricerca. Anche di quella umanistica, che all’intolleranza per l’ingiunzione senza ragione e per l’oscurità delle logiche consortili aggiunge il tema profondissimo della responsabilità personale di ogni atto e di ogni cosa detta, e la divisa della veglia critica nei confronti delle proprie stesse pulsioni oscure. Merlo parla di “seduzione”, di cui sarebbero stati vittime molti che hanno creduto e sono “caduti nelle panie”. Eppure: non ci sarà una sorta di troppo sottile giustificazione, in questa immagine delle panie? E’ questa la domanda che io credo dobbiamo porre a noi stessi, anche e soprattutto se abbiamo ragione di considerarci vittime e non complici di quella terribile confusione di cui ho detto – se poi le indagini in corso confermeranno che l’immagine più triste del fondatore del San Raffaele, quella che compare sulla stampa di questi giorni, è proprio quella più vicina al vero. Questo io chiederei – e forse non da ora chiedo – a tutti noi, che infine di questa meravigliosa giovinezza che è la ricerca vera, e di questa vera religione che è l’indagine nelle profondità dell’umano, abbiamo avuto il privilegio di vivere. A noi, che dal pensiero che scienza e sapienza dell’umano potessero quotidianamente incontrarsi abbiamo ricevuto linfa e nutrimento. E che riconosciamo con dolorosa gratitudine da dove, da chi, ci viene questo pensiero, o almeno la possibilità di metterlo in pratica. Questo chiederei: quanto ha potuto giocare nella nostra ignoranza del lato oscuro il rinvio ingiustificabile del nostro primo dovere, quello di chiedere e dare ragione, sempre? Di chiedere trasparenza, e di applicarla, sempre? Quanto agli altri, agli amministratori, e quanto anche a noi stessi si applica il detto che non c’è servitù se non volontaria, o almeno che anche l’opacità delle decisioni ultime, dove è subita, è volontaria? Oggi non c’è altra salvezza per questo bene, la ricerca, l’università, l’eccellenza e la libertà, che nella nostra prontezza a scindere il riconoscimento della paternità di un’idea e della sua forza, dall’acquiescenza all’oscurità dei metodi consortili della “padronanza”. Scrisse per ben altra occasione Piero Calamandrei che “sotto la morsa del dolore e della vergogna gli indifferenti…(si sono risvegliati) alla ribellione contro la propria cieca e dissennata assenza”. E io se potessi vorrei proprio chiederlo, anche a chi vede oggi pendere sul proprio capo accuse infamanti (accuse tuttavia, ricordiamocelo, non ancora condanne), e, come apprendiamo oggi, “se ne assume tutta la responsabilità”: quanto male abbiamo fatto noi, anche a lei, don Luigi, a non chiedere abbastanza ragione e chiarezza, e anzi verità – che è uno dei nomi di Dio – e, in mancanza di una risposta, a non dire “no”?
La domanda di Roberta De Monticelli “come è possibile…” dovrebbe trafiggere tutti coloro che in questo Paese si dedicano alla didattica e alla ricerca universitaria, non soltanto chi appartiene all’ateneo “Vita e Salute”. Perché, quand’anche vi siano nella storia di “Vita e Salute”, nella sua relazione con la figura carismatica del fondatore, e nei comportamenti di quest’ultimo aspetti specifici e peculiari, pure questa vicenda ha forza di parabola dell’intero sistema ricerca e università dell’Italia.
Non c’è dubbio che, nonostante gli incredibili sforzi di molte persone ricche di capacità, passione e merito, il sistema Università sia in grave sofferenza, nonostante vi sia una generazione – oggi intorno ai 50-60 anni – che, in età giovanile e in proporzioni senza precedenti, abbia avuto l’opportunità di trascorrere lunghi e fruttuosi periodi di formazione nelle più prestigiose università straniere, e quindi di frantumare quella crosta di provincialismo soffocante già presente in troppi ambienti universitari a cavallo degli anni ’70-’80.
Allora, “come è possibile”?
E’ stato, ed è, possibile perché da quelle esperienze di una intera generazione non è stato accolto in misura sufficiente e innestato nel nostro ambiente il legame inscindibile che esiste fra scienza ed etica. Non che l’etica debba dettare, per così dire, l’agenda della scienza, ma la costruzione di un futuro umano in termini di conoscenze (ricerca) e di persone (docenza) non può avvenire in ambienti in cui sia assente un “habitus” etico di alto profilo nelle persone, nelle relazioni, nell’organizzazione, nelle procedure. Ricordo quante volte – alla mia domanda: perché questo? – mi venisse ripetuto durante i miei anni trascorsi nella Yale School of Medicine: “this is to keep you honest”. Un monito, e un impegno, che era bidirezionale: non partiva solo dalle posizioni più autorevoli per raggiungere me, ultimo fra i “research fellows”, ma risaliva da questi, con altrettanta energia e con tutta la vitalità della giovinezza, verso le figure con autorità, finanche Dean della Medical School e President della Yale University. Il che implica nel nostro Paese domandarsi quanto, ogni volta che, direttamente o indirettamente, si bussa alle porte dei potenti (ma qualche volta è anche il potente che ti cerca sua sponte…) al fine di ottenere anche l’indispensabile – finanziamenti o promozioni o altro – per assicurarsi un futuro professionalmente produttivo e non essere abbandonati ad arrugginire in un bacino di carenaggio, quanto del “keeping oneself honest” si lasci sul terreno. Quanto, ogni volta che si chiude un occhio, o entrambi, e la bocca, al cospetto dell’ennesima manovra “politica” del potente di turno – laddove “politica” significa non dettata da criteri scientifici, di merito, di “vision”, ma da ben altro -, si diventi, non complici per carità!, ma acqua, in cui quel tipo di potenti può nuotare a suo agio.
Indirettamente, si finisce con il mutuare l’utilitarismo estremo, che troppo frequentemente prevale nei nostri ambienti universitari.
Sfugge – o ne lasciamo la consapevolezza sepolta nel nostro subconscio – che un certo tipo antropologico di potente ha a sua stella polare solo l’accrescimento del proprio potere e della propria influenza: favorisce – se e quando lo faccia – scienza e docenza di qualità solo perché utili al proprio progetto “politico”, non perché intrinsecamente dotate di valore. Questo tipo di persone – tuttora diffuse e vincenti, sebbene mi piaccia cogliere dei segni di speranza e di inversione di tendenza – queste persone, dicevo, anche nei casi migliori non agiscono in obbedienza a un valore, bensì mettono gesti e progetti, anche intrinsecamente giusti e buoni, al servizio del proprio utile. Una cartina di tornasole per riconoscerli, anche se tardiva e poco efficace? Non esiste età anagrafica che li possa indurre a un passo indietro. Cedono solo alla “pesanteur”: la biologia del corpo che cede o una forza più grande che li soppianta.
Di regola, hanno intorno solo obbedienti, che magari mordono il freno ma sono fedeli, finché il potere è ben saldo nelle mani del capo. Chi dissente, se non ha forza di suo – e non si parla di forza che derivi dalla qualità del proprio lavoro -, viene isolato ed espulso. Il Padre, che è maestro in quanto prima di tutto padrone, in qualche caso ma non tutti, ha persino, come dire?, accesso privilegiato alla proprietà intellettuale del lavoro scientifico e alla individuazione della linea di risultati “veri”. Cosa può esserci di più contrario e opposto al principio base della libertà intellettuale della ricerca: non si è buoni allievi dei propri maestri-padri se non si vaglia, contesta e corregge anche la loro opera? E’ il mito di Edipo, non quello di Romolo e Remo, che prefigura il comportamento del ricercatore. E si può essere buoni ricercatori e buoni docenti se non si è veramente liberi?
Non è problema solo per la comunità, già non piccola, di chi dedica la propria vita alla docenza e alla ricerca. In questi ambienti, transitano e si formano i nostri giovani, si costruisce una gran parte del futuro della comunità. Si può immaginare che non ne siano influenzati? Come e quanto della crisi che viviamo ha radici anche lì, nella universitas studiorum? Come e quanto delle energie – soprattutto giovanili – che saranno chiamate a raccolta per uscire dalla crisi dell’Italia sono già state minate, intossicate e stremate, proprio lì, nella universitas? Ma non perché non si siano fatte – forse spesso, ma certo non sempre – buona ricerca e buona docenza, ma perché l’ecosistema in toto non è innervato, imbibito di linfa etica, della capacità di educare alla libertà e della quasi affettuosa cura “to keep one honest”.
Riccardo Bonadonna ha ragioni da vendere e mette il dito sulla piaga.
A me verrebbe da aggiungere anche qualche riflessione “indolente” sul problema della responsabilità individuale. E i suoi limiti. Chi, come me, vive in un mondo dominato dai libri (e quindi, tendenzialmente, dai buoni argomenti, dalla bellezza, dalla moralità), non può nascondersi il disagio che deriva dal vivere in una realtà in cui il rapporto tra il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso, non è esattamente rassicurante, tanto più quando la “sorte morale” ti ha fatto nascere in un contesto sociale in cui la naturale disposizione imitativa/adattiva degli esseri umani non favorisce esattamente la virtù sul vizio.
Non abbiamo bisogno dei più rompiscatole tra i nostri amici per ricordarci che, per quanto siamo attivi e riflessivi, appena ritiriamo la busta paga o ci sediamo a tavola siamo complici di qualche sopruso inaccettabile (sugli umani, gli animali, l’ambiente). Sappiamo più o meno tutti che, per come vanno le cose nel mondo, siamo condannati a vivere in una strana condizione di oscillazione tra twilight e limelight e a farci carico di una porzione più o meno ampia di opacità. Secondo me, la differenza tra le persone dipende però anche, se non soprattutto, dal modo in cui rispondono a questa situazione subottimale. C’è una bella differenza, infatti, tra chi si rintana senza disagio in questa penombra morale e chi si fa carico della linea d’ombra, ne avverte il peso morale e si sforza di riposizionarla nel limite del possibile. Mi ritrovo perciò nell’atteggiamento di Roberta De Monticelli che anche nella triste vicenda del San Raffaele cerca di coniugare fermezza nel giudizio e comprensione del contesto.
Separare il grano dal loglio non è un’operazione che si possa compiere senza mettere i piedi nel fango, sudare e procurarsi qualche vescica. E senza ricordarsi che entrambe le piante hanno radici, fusto e spighe e distinguerle non è poi un’operazione così automatica. Se così non fosse, vivere sarebbe molto meno complicato e dimorare per tante ore in un universo di libri non ci metterebbe così a disagio ogni volta che li ripieghiamo e facciamo i conti con quello che ci aspetta di fuori.
Ecco, ringrazio gli intervenuti finora: ma forse per un istintivo timore di azzannare un uomo morto ho forse dato la sensazione di curarmi troppo del “contesto”? Allora ci sarebbe bisogno di una precisazione. E’ da luglio – prima del suicidio di Cal – che insieme a un altro solo collega,Ruggero Pardi, e con l’appoggio di uno o due altri al massimo, fra cui Roberto Sitia – e parlo dell’intera università, 3 facoltà – battiamo e ribattiamo sull’assoluta necessità di uscire in pubblico con una posizione chiara: rispetto agli eventuali compratori, rispetto alle dirigenze oggi sotto inchiesta, rispetto alla libertà senza la quale non c’è ricerca, rispetto alla nostra volontà (se c’è) di contare nella determinazione del futuro dell’università. Risultato? All’esterno, niente. internamente, non so. I tra presidi infine si sono attivati: ma il primo consiglio interfacoltà è arrivato solo il 23 novembre. Ho mandato una lettera ai presidi, ma ne ho dato lettura in facoltà, essendo pubblica la pubblicherò con il prossimo commento: dove prpongo che il corpo docente chieda le dimissioni del rettore. Risultato? Finora, siamo in attesa: ma il nuovo consiglio interfac non è convocato prima del 21 dicembre. Ciò nonostante spero fortemente che si dia come università un segno di forte discontinuità: questo però non significa che tutto vada bene. No, che si continui come comunità universitaria a tacere, a non prendere posizione PUBBLICA, a mio avviso non è comprensibile né giustificabile eticamente.
Rinvio anche al mio pezzo su Repubblica, finalmente uscito lunedì 5.12, e con il prossimo commento pubblico la lettera che ho letto al consiglio di facoltà di mercoledì 30 novembre.
Milano, 28 novembre 2011
Ai Presidi delle Facoltà dell’Università Vita Salute San Raffaele
Prof. Massimo Clementi
Prof. Michele Di Francesco
Prof. Lucio Sarno
Cari colleghi,
questa comunicazione fa seguito al Consiglio Interfacoltà tenuto mercoledì 23 novembre scorso, ed è una iniziativa di cui mi faccio portatrice a titolo personale, con una proposta che vorrei dapprima sottoporvi, in modo che possa essere discussa in tempi rapidi, e portare eventualmente a una presa di posizione anche pubblica del corpo docente, o eventualmente di quanti la condividono.
La mia proposta è che il corpo docente, se possibile nella sua interezza, e se non sarà possibile in una sua significativa componente, chieda a don Verzé di dare le dimissioni da Rettore dell’Università.
Questa proposta si motiva come segue.
1. A fronte delle numerose indiscrezioni che la stampa fa circolare sulle indagini e i capi di imputazione penali che sarebbero pendenti sul nostro Rettore, si deve certo esprimere il più sincero auspicio che si tratti di ipotesi infondate, che il seguito dell’indagine dimostrerà tali. Questo tuttavia non esime il corpo docente dell’Università, che il Rettore in quanto tale rappresenta, dal dovere di anteporre la lealtà all’istituzione stessa, e l’onorabilità che a ciascuno proviene dall’appartenervi, docente o studente, a ogni altra considerazione. In questo senso sembra non più rinviabile una presa di posizione pubblica del corpo docente, che distingua nettamente, anche di fronte alla pubblica opinione, l’autonomia ideale e morale dell’Università e l’indipendenza dei suoi organi di autogoverno da una dirigenza che l’opinione pubblica potrebbe giudicare – e ha di fatto in molti casi giudicato – non conforme agli standard di etica pubblica, e di estraneità a relazioni improprie con la sfera politica e amministrativa, che si debbono esigere da una così prestigiosa istituzione di formazione intellettuale e morale e di ricerca scientifica. La quale ha in questo momento, d’altra parte, il più urgente bisogno di una direzione autorevole e trasparente, che nelle attuali circostanze non sembra essere esercitata. E’ anzi proprio per sottolineare il valore della visione educativa e scientifica che a questa Università deriva dal pensiero del suo fondatore, che è dovere di chiunque la condivida assicurare all’Università una guida affidabile e sottratta a ogni sospetto di incoerenza fra gli ideali proclamati e la pratica corrente. E questo proprio nella speranza e nell’auspicio che le accuse pendenti sulla persona del Rettore si rivelino infondate.
2. A fronte della proposta che il Consiglio di Interfacoltà ha votato all’unanimità, di accettare un’offerta proveniente da una Charity e intesa a salvare, promuovere e potenziare nelle sue specifiche peculiarità la missione scientifica dell’Università, anche nei suoi aspetti umanistici e ideali, sembra irrinunciabile presentarsi, in quanto Università, con una direzione scientifica e intellettuale (Rettorato) che possa garantire la più cristallina trasparenza delle relazioni e delle procedure attraverso le quali il costituendo steering comittee gestirà e indirizzerà le risorse convogliate dalla Charity in questione. Questo anche e soprattutto per offrire all’opinione pubblica – e quindi, almeno per quanto riguarda la Facoltà di filosofia, al virtuale insieme di futuri studenti, che tenderà altrimenti a ridursi a zero – la più limpida garanzia di una corretta gestione di queste risorse, e di una perfetta responsabilità, nei confronti di chiunque ne chiedesse pubblicamente ragione, delle decisioni relative al loro utilizzo.
3. Infine una direzione scientifica e tecnica dotata di piena autorevolezza sarebbe in condizione di ottenere tutta la necessaria chiarezza, che ancora manca, sull’origine dei fondi di sviluppo della ricerca che alla nostra Università sono stati offerti, e sulle ragioni per le quali la nostra Università è stata selezionata fra altre per questa offerta, che indubbiamente ci onorerebbe nella misura in cui potesse essere attribuita esclusivamente alle nostre capacità e potenzialità di eccellenza. Ma anche su questo punto non sembra esistere ancora quella piena trasparenza, per noi e per l’opinione pubblica, che una direzione rinnovata e radicata nella professionalità della ricerca scientifica saprebbe certamente garantire.
Vi ringrazio dell’attenzione,
Roberta De Monticelli