“Superficialità contro profondità. Inconsapevolezza contro consapevolezza. Doveri verso gli altri contro doveri verso sé. È lo spazio da nulla garantito della possibile fioritura personale. Ma anche della possibile e peggiore degradazione, dell’abbassamento di sé. Pesantezza contro luce, nobiltà contro bassezza, amore contro odio, rabbia, risentimento, brama di vendetta e infine, di nuovo, paura. (Weil). Di qui rattrappimento, angustia, aridità, meschinità, invidia, tendenza al chiacchiericcio malevolo, coltivato con falso senso di giustizia, o all’impulso improvviso – anche gratuito – alla maldicenza svalutante, noncurante e vile; tormentata o smodata ambizione di potere o status, sfrontatezza, ipocrisia, vuoto e gesticolante amore per il giusto e il vero, privo quindi delle luci improvvise e benevole che tradiscono mitezza d’animo verso le proprie e altrui debolezze, lealtà nella contesa, magnanimità nella vittoria, umiltà nella sconfitta, onestà e serietà: responsabilità“.
Trovo queste parole di Stefano Cardini, che riassumono il suo ragionamento su bellezza e moralità, straordinariamente lucide ed esatte. Vorrei porre a tutti quelli che leggeranno questa nota una questione, e ciascuna risposta, soppesata con le altre e con le mie valutazioni, mi aiuterà a capire che cosa debbo fare. La dirigenza del San Raffaele è indagata per associazione a delinquere. L’università, è vero, non è minimamente coinvolta né dal punto di vista anmministrativo né – cosa che però il mondo di fuori non sa – negli eventuali vantaggi della rapina a danno delle risorse pubbliche effettuate dall’amministrazione della Fondazione: come sanno tutti i collaboratori del Lab, non una lira ci è mai venuta dall’Università per alcuna attività di ricerca o didattica.
Tuttavia è un fatto che il Senato Accademico, che comprende i tre presidi delle facoltà (ma non gli altri docenti) ha confermato a) alla presidenza del nuovo cda dell’università, che è l’organo supremo che accentra praticamente in sè ogni potere di nomina, anche della parte docenza e ricerca, la direttrice generale amministrativa Raffaella Voltolini, ovvero forse la persona più vicina a don Verzé, moralmente se non penalmente implicata nelle attività di un gruppo indagato per associazione a delinquere; b) alla carica di rettore il Prof. Scala, che per lunghissimo tempo è stato semplice e passiva espressione delle disposizioni del rettore in carica, cioè don Verzé.
Questo nonostante pochissimi di noi dal luglio scorso si prodighino in interventi pubblici e pressioni interne per ottenere un segno di discontinuità. Ci sarà un’ultima occasione di esprimere questo dissenso da decisioni che, accettate dai due presidi di filosofia e di medicina, i quali sono essi stessi entrati nel nuovo cda, simbolizzano comunque una perfetta assenza di discontinuità dalla gestine precedente. Don Verzé ha 91 anni e si è ritirato designando lui stesso i suoi successori.
A fronte di questi dati la domanda è: se il 21 dicembre, data del prossimo consiglio di facoltà, non si delineerà almeno una posizione di minoranza contraria a questa uscita “soft” dalla situazione – e che solo allora si potrà procedere a cambiarlo: cosa che in effetti l’attuale statuto non permetterebbe di fare prima, che cosa deve fare l’ipotetico docente che fosse rimasto unico a esprimere una posizione più intransigente? Dimettersi e autolicenziarsi, interrompendo quindi anche le attività di ricerca e pubblicazione, basate sull’esistenza del centro di ricerca cui il Lab è associato, anche se coinvolgono anche alcuni collaboratori del Lab? Fare un intervento sulla pubblica stampa in cui esprime il suo dissenso nei confronti dei colleghi? La seconda cosa, che non mancherei comunque di fare, richiede però secondo bellezza e giustizia anche la prima? Ogni opinione sarà benvenuta, e ve ne ringrazio in anticipo.
Professoressa,
non ho i titoli di parlare a nome di nessuno se non di me stesso, ma sono sicuro che la mia riflessione possa essere nell’essenza condivisa da molti miei colleghi studenti.
Anzi, la mia non è una riflessione, ma un appello: non si dimetta, anche se per responsabilità o ‘coerenza’, come direbbero alcuni, sembrerebbe l’esito naturale del suo inascoltato, forse, dissenso.
Non so offrirle ragioni sufficientemente cogenti, ma le chiedo per un’istante – lungi dall’avere l’aspetto di un’argomentazione – di cambiare punto di vista sull’Università in cui insegna e fa ricerca: guardi a noi studenti, ai brillanti ricercatori e ai docenti con cui a volte si innesca una così fervida dialettica; da studente mi permetto di chiederle di ripensare al fervore che mettiamo anche nel nostro ‘scimmiottare’, a volte goffamente, le dialettiche tra le più diverse scuole filosofiche che animano la nostra facoltà.
E’ una facoltà piena di contraddizioni, e forse solo in una facoltà di filosofia come la nostra possiamo permetterci di non averne timore.
Se sceglierà di non rassegnare le sue dimissioni, lo faccia anche per quel nostro fervore che mi permetto di chiamare umano e intellettuale.
Andrea Tito Nespola
Condivido pienamente l’appello di Andrea e sono convinto di non essere il solo.
Per l’università in generale, e in particolare per tutti quegli studenti, ricercatori e docenti che fanno riferimento alla fenomenologia come stile di ricerca filosofica, le sue dimissioni rappresenterebbero una perdita irreparabile.
Luca Settembrino
Non ho grandi titoli per prendere posizione in materia, Roberta, ma anch’io t’inviterei a tenere conto nella tua decisione finale anche del punto di vista dei tuoi studenti, espresso così eloquentemente da Andrea Tito Nespola. In fondo, come ti ha appena ricordato lui, dove dovrebbe stare un filosofo se non in mezzo alle contraddizioni della vita?
Potrà darsi che mi sbagli, ma credo che proceda in questa direzione anche la riflessione sconsolata, ma non scoraggiata di Stefano. La bellezza dell’azione morale, quando c’è, non risiede solo nella sua eleganza, nel suo splendore, ma nella creatività e nel coraggio che spesso richiede l’identificazione di un punto di equilibrio virtuoso (o di “felice disequilibrio”) nelle nostre vite così sballottate tra “limite e illimite, reale e ideale, plausibile e imponderabile”. A questo mi hanno fatto pensare le riflessioni di Bonatti. Non siamo mai totalmente padroni delle nostre vite, nemmeno della nostra moralità. In molti casi solo il tempo potrà dire a quale logica rispondevano i nostri azzardi. In questo abbandono allo sguardo e al giudizio degli altri mi sembra si possa riconoscere anche un riflesso di quel rischio insopprimibile e di quella oscillazione tra pesantezza e grazia di cui ha parlato nei suoi scritti (sconsolati, ma non disperati) Simone Weil.
Mi associo ai miei colleghi Luca e Andrea nell’esprimere forte rammarico al pensiero che possa andarsene dalla nostra Università.
Al di là del danno che sicuramente una tale decisione arrecherebbe a molti di noi studenti, c’è un altro aspetto che a mio modesto parere va considerato, come ci ricorda anche Paolo Costa: sarebbe magra soddisfazione fare filosofia, come lo sarebbe mettere in pratica ‘bellezza e giustizia’ in un mondo privo di storture. Non perchè bellezza e giustizia non esistano fintantochè non si presentino i loro contrari, e neanche perchè in un mondo ‘storto’ possiamo sentirci semplicemente soddisfatti nell’avere un’idea di cosa voglia dire moralità, mentre gli altri non ce l’hanno; ma per dimostrare che il bene esiste, e che protestiamo, firmiamo petizioni, ci indigniamo, ma non rinunciamo a quanto di buono ci può essere- in questo caso all’interno della nostra Università- e a farlo crescere ogni giorno.
Parlo a mio nome ma penso che altri studenti possano condividere: non è sola in questo bisogno di chiarezza e integrità, la sosterremo per quanto possibile, cercando così di salvare almeno un pochino di questa nostra Università, che ci sta formando, nonostante tutto, in modo completo e a un livello davvero alto.
Cecilia Butini
Cara prof,
se si parla di studenti di filosofia del San Raffaele, mi sento chiamata in causa. Certo, non tanto per i risultati accademici, quanto per la ‘fedeltà’ (chiamiamola così) alla Facoltà. Ad ogni modo, anche se “filosoficamente” sono ferma al primo semestre del primo anno, personalmente mi sento di avere fatto molti progressi, e questo non sarebbe stato possibile senza i suoi corsi (così come quelli di alcuni suoi colleghi) e il tempo che ha sempre dedicato ad ogni suo studente che le chiedesse aiuto.
In questi anni ho imparato che la filosofia, oltre (forse ‘prima’) che una materia accademica, una facoltà tra le altre, è una scuola di vita, un ‘atteggiamento’. Ci si iscrive a filosofia perché se ne sente il bisogno. Poi, si diventa filosofi più o meno saggi e non si smette più di esserlo (anche se a volte, diciamocelo, la tentazione di dirsi, “ma non potevo darmi all’ippica?” viene). Si impara a guardare il mondo e le sue cose in maniera diversa, più pacata e più critica; si impara che non ci si può più fermare alla superficie delle cose, ma bisogna andare sempre più in profondità, mettendo sempre tutto in questione, se stessi e gli altri, anche se per farlo ci vuole coraggio. Croce e delizia, si scorgono le più alte vette e si intravedono i più profondi abissi.
Tutto questo lo dico perché mi sembra corretto (forse doveroso), in un momento come quello attuale, affermare apertamente “quel che di buono” ho vissuto durante la mia (lunga) esperienza di studente di filosofia al San Raffaele. Il tempo passato a scrivere dispense e a parlare a non sempre brillanti studenti (ovviamente mi riferisco a me stessa!) non è andato sprecato! Magari i frutti di quel che avete seminato non sono ancora del tutto visibili, però sono lì, e piano piano si mostreranno.
Infatti, al di là delle vicende ‘terrene’ del San Raffaele (un’entità “tra mito e leggenda”, visto dall’oasi di Cesano), a tornare indietro, mi iscriverei nuovamente a filosofia e nuovamente al San Raffaele, nonostante tutto.
Però mi rendo contro della difficoltà che lei (come altri suoi colleghi immagino) sta vivendo… da una parte, continuare a far parte di un’istituzione che non si sente più propria è difficile e fa sentire a disagio (ed attira le critiche degli altri), ma dall’altra fare i “duri e puri” (sebbene sia bello e grandioso) non sempre è la cosa più saggia in quanto spesso non porta a nulla; è difficile scegliere tra l’esser fedeli a se stessi a scapito degli altri e l’esser attenti ai bisogni degli altri ignorando i propri. Mantenersi in equilibrio tra i due estremi è decisamente più complicato rispetto a quanto sembri sui libri.
Ad ogni modo, l’unica cosa che mi sento di affermare è che, in casi come questo, è meglio fermarsi un attimo, eclissare momentaneamente il resto del mondo e il berciare di chi, dall’esterno, sentenzia, ed analizzare la questione “per la prima volta”, indipendentemente da tutto e da tutti… e così capire quel che si vuole fare, quale strada si vuol seguire, quel che ci sta a cuore (ed ora il Dio dei fenomenologi mi lancerà un fulmine per punirmi della mia superficialità!).
Ancora una volta, la mia vuole essere solo una piccolissima testimonianza del fatto che del buono al San Raffaele c’è (e, se proprio la vogliamo dire tutta, spero che ci sarà anche in futuro).
Detto questo, quel che deciderà di fare, se restare o cambiare, dipende solo da lei!
Isabella Rodriguez y Baena
Condivido i commenti precedenti. Un abbraccio. Lisa Gambarelli
Sarebbe davvero un peccato perdere un’occasione di rilancio. Non che non se ne siano perse, dato che “il capo” è sempre lì a contare i pappagalli nella cupola. Sarebbe un peccato non rinnovare quotidianamente l’impegno e la dedizione di chi, a coscienza pulita, sa mantenere l’eccellenza in un posto così ormai – purtroppo – svalutato dall’esterno. E’ un peccato non aver trovato un’azione coesa da parte di Professori che, francamente, pensavo avessero più dignità umana, oltre che accademica.
Dopo i fatti emersi recentemente, senza giri di parole, non provo più quell’orgoglio nel far parte di un’Università che, nonostante tutto, resta sempre grandiosa. Provo un certo brivido nell’immaginare la mia laurea “macchiata” indirettamente da chi, a quanto pare, non è riuscito e non riesce a esprimere minima prova di onestà. Perchè è da truffatori quanto è stato fatto, ed è da truffatori aver rovinato decine, se non centinaia, di piccole imprese che nella costruzione di questo grande progetto hanno dedicato anni di intero lavoro. Perchè un concordato, in situazioni come queste, è una truffa. È degrado umano, oltre che economico.
Nonostante ciò, tralasciando lo sdegno che emerge, penso e continuerò a pensare che abbandonare questa barca sarebbe un peccato. Non si chiede di restare per gratitudine o altro, mi sembra che certi valori qui siano stati superati. Penso si debba restare anche per continuare a far sentire questa voce, fondata e legittima. Sarebbe un peccato perdere un “big” che ha la stoffa di aizzarsi contro chi ha fatto precipitare la situazione. Si può pur sempre farsi sentire, partendo anche dal proprio “piccolo”. Mi auguro che non debbano essere i migliori a lasciare per colpa dei peggiori. Quello sarebbe un vero peccato, forse il vero fallimento.
Come non condividere l’appello di quel bellissimo coro di studenti che sta qui prendendo vita. Cara professoressa, non si dimetta. Per gli studenti, i giovani dottorandi, i ricercatori, per i quali la sua attività e la sua costante dedizione in ogni aspetto della vita universitaria costituiscono un esempio e una guida fondamentale. Ma anche in nome di quella libertà, soprattutto di “dissentire”, di cui lei oggi si sta facendo importante garante.
Francesca Forlè
No, non si dimetta. La sua è una vocazione alla verità. Non potrebbe farlo innanzitutto per se stessa. La vocazione prevale sul ruolo e sulla gloria. La vocazione richiede perseveranza, sforzo, lotta, testimonianza, cura, spesso anche sofferenza, ma alfine vittoria certa. Lei è chiaramente una persona che fa quel che fa perchè vi crede profondamente. Sarebbe un gran delitto se lei lasciasse. Le situazioni non possono che cambiare se più persone si sacrificano con questa autenticità per quella causa di bellezza e giustizia nella verità. Speriamo che altri nel tempo la possano seguire e corroborarla negli sforzi a venire. Auguri.
Accettare un incarico al San Raffaele significa accogliere lo spirito di una missione che non ha connotazioni meramente umane, e per onestà intellettuale questa componente deve essere tenuta in considerazione perfino dal non credente. La missione del San Raffaele è nata in questo spirito di valorizzazione della trascendenza nell’immanenza e dell’immanenza nella trascendenza per mezzo di un sacerdote, che ne dispone nella piena libertà umana. Una volta che i risultati di questa libertà siano messi in discussione da istituzioni giurisdizionali umane – e tenuto conto che tali organi ancora non hanno prodotto risultati definitivi -, ogni ultimo giudizio sulle modalità di espressione della missione resta comunque incardinato nel suo fondamento spirituale, che non è scindibile dalle persone. Non confidare nella continuità a queste condizioni, ossia senza che sia intervenuta l’espressione precisa di chi o coloro che sovraintendono anche alla spiritualità raffaeliana, non sarebbe segno di coerenza rispetto all’ingresso nella stessa missione. Tale coerenza è demandata anche quando si decide nel proprio foro interiore – ed esteriore – di non aderire a determinate modalità di sviluppo del progetto. Nella gestione della missione di ricerca che accompagna il complessivo progetto del San Raffaele il fondatore ha di recente espresso un preciso pensiero sintetico: “Siamo tutti nella stessa barca”. O si accetta la mortificazione del proprio dissenso senza svalutare lo spirito critico, o non ha senso aver accettato quella condizione.
Paolo Masciocchi
Pur non facendo parte del Lab, sono pienamente d’accordo con gli interventi dei miei colleghi studenti. In particolare mi ha colpito una frase apparsa in un commento: “non è sola in questo bisogno di chiarezza e integrità”. Noi tutti (o perlomeno la maggior parte di noi) ci troviamo di fronte ai recenti fatti di cronaca e cerchiamo continuamente di rintracciare un punto di incontro tra la “nostra” onestà intellettuale e l’assetto complessivo dell’intera università di cui noi stessi facciamo parte.
Non è per niente facile, ma senza di Lei, senza la benché minima possibilità di far esplodere – e rendere evidenti – le contraddizioni interne a cui l’intera università va incontro (e cercare di migliorare la situazione dall’interno), ci sentiremo ancora più confusi e ‘fagocitati’ da questa spirale. Non scelga di andarsene di fronte all’abisso che inghiotte la nostra università, ma proprio per tentare di costruire un ponte su questo abisso scelga di restare e lottare insieme a noi. E’ un grosso sforzo, quasi titanico, ma parafrasando la “Vita di Galileo” di Bertold Brecht (scambio di battute tra un giovane allievo di Galileo e Galileo stesso dopo l’abiura) Le rivolgo un ulteriore invito a non dimettersi:
“Ah, sfortunata la Terra che non ha eroi!”
“No, sfortunata la Terra che HA BISOGNO di eroi!”
A volte, è vero, bisogna scendere a compromessi tra la nostra sete di verità e trasparenza e la configurazione di cui facciamo parte, ma è altrettanto vero che a volte “per uno spostamento una linea curva risulta essere più adatta di una linea retta”.
Grazie!
Bellissimo lo scritto di Cardini, e piena di giovanile saggezza la risposta di Isabella Rodriguez y Baena, al punto da trovare difficile, se non inutile, aggiungere qualcosa a quanto da loro scritto, non fosse che per chiarire il senso dei giudizi espressi.
Se il tema dell’identità di bellezza e bontà è un classico del pensiero antico, l’argomentazione di Stefano Cardini è profonda, elegante e produce un sorprendente shock cognitivo con l’accostamento delle parole di Simone Weil a quelle di Walter Bonatti. Ricordo di essere stata colpita anni fa dalla tesi di un filosofo statunitense, Stanley Cavell, che sosteneva di considerare gli scritti di Poe, Emerson, o una tragedia di Shakespeare o “un balletto di Fred Astaire”, “alla stregua di capitoli di filosofia” (Sole24Ore, 1 aprile 2001). Qualcosa di simile fa –almeno così mi sembra- Cardini, citando un grande alpinista che parla con rigore da filosofo “vero” di ciò che conosce perché da lui vissuto.
Che la bellezza “elevi” e conduca al Bene lo spiega Socrate nel Simposio. Nell’alpinismo classico il verbo va preso nel significato più compiuto, concreto e spirituale insieme. “Verum ipsum factum”, secondo la lezione vichiana. Questa convergenza tra l’azione e il pensiero, nel caso di Simone Weil come in quello di Bonatti, è “visibilmente” bella e fortemente etica.
La domanda di Roberta De Monticelli ha a che fare con tutto questo e con la sua personale coerenza di filosofa e docente che si trova –senza sua colpa- entro una situazione indubbiamente scabrosa e deve scegliere in che modo agire. Ma già il suo interrogarsi pubblicamente ha una forte valenza etica, ed è insieme un gesto bello perché vero. Testimonia inquietudine, paura di venir meno a quella coerenza tra pensiero e azione che è la virtù che più ammiriamo in un filosofo. La scelta, come sempre in questi casi, verrà fatta in solitudine. Ma il coro dei giovani studenti suona così bene! Isabella che si rivolge alla “Cara prof.” E scrive: “ personalmente mi sento di aver fatto tanti progressi, e questo non sarebbe stato possibile senza i suoi corsi”. E Nicolò: “mi auguro che non debbano essere i migliori a lasciare per colpa dei peggiori”. E gli altri ancora, spaventati all’idea di perdere un saldo punto di riferimento. Tutti questi “sommovimenti del pensiero” e degli animi indicano – ci sembra- una buona strada!
Non mi pronuncio sul punto: che fare? Difficile mettersi nei panni degli altri e troppo facile dare consigli senza l’onere delle inevitabili ricadute negative che qualunque scelta comporta.
Mi è stato difficile subire silente dieci anni o più di prediche domenicali di EGDL sul Corriere, mono-direzionali (o quasi) e saccenti. Sono (quasi) sempre incuriosito dalla brillantezza degli interventi di MC, soprattutto quando non si occupa del candidato sindaco di Milano. Ho seguito sempre volentieri gli articoli suoi (RDM) su vari giornali.
Mi sono sempre chiesto: come fanno a non capire quale è il loro ‘vero’ ruolo (di belle statuine laiche) alla corte di dLV, adoratore di SB e intrallazzatore con le peggiori Compagnìe (CdO)?
Anni fa Francesco Saverio Borrelli non scese in polemica diretta dLV che lo attaccava a proposito di un’inchiesta sui rimborsi gonfiati dalla Regione al S. Raffaele. Si limitò a dire: ‘Sono stato educato a rispettare la tonaca dei preti, indipendentemente da chi la indossi’. Lo squarcio aperto da quell’indipendentemente meritava qualche curiosità intellettuale. Tanto più, ripeto, che a Milano c’erano già ben due facoltà di filosofia, e non c’era bisogno di correre ad aprirne un’altra. E che la Facoltà stia in piedi con le sue gambe è un’altra favola non credibile. Se non con rette da nababbi, ma si rischierebbe di laureare solo fidanzate di Pato.
Finalmente con l’intervento di Fernando Cantu un poco di sana cattiveria.
Tuttavia, da laico, altamente diffidente verso le istituzioni educative di ispirazione religiosa, mi sento di rispondergli che forse è vero che avere dei pensatori laici di valore al San Raffaele può aver giocato il ruolo di fiore all’occhiello che nobilitava e copriva tutt’altro. Ed è certamente vero (e non abbastanza noto) che le università private in Italia sono lautamente finanziate dallo Stato. Ma, detto questo, e posto che, da quanto ne so, la libertà di insegnamento è stata sempre tutelata al San Raffaele, credo che l’esistenza di un’ulteriore Facoltà di Filosofia di qualità abbia rappresentato comunque un beneficio per la collettività (religiosamente ispirata e non) molto superiore ad ogni eventuale effetto di nobilitazione di trame discutibili. Credo che il rischio di apparire compromessi sia del tutto secondario rispetto al beneficio di educare in modo profondo e libero (di cui mettersi in discussione è parte).
Nota a Paolo Masciocchi.
Mi è risultato lievemente arduo decodificare i meandri altamente spirituali e plasticamente sfuggenti del tuo ragionamento. Mi pare di aver capito però che la sostanza bruta sia: anche se i tribunali umani dichiarano che un’istituzione è un’associazione a delinquere, se questa stessa si fregia di un’alta missione spirituale, le condanne umane sono trascurabili. Ecco, se questo è ciò che vuoi dire, credo che sia una perfetta rappresentanza del peggio di ciò che un’istituzione di ispirazione religiosa può rappresentare. Questa rivendicazione di sovranità parallele e di lealtà diverse pone tra di noi uno iato inconciliabile ed un’ostilità irredimibile.
Consigli per le crisi, quella del San Raffaele e quella dell’Italia. Ad alcuni lo studio scientifico, filosofico o letterario anzichè aprire al mondo, ancora nel XXI secolo, fa uno brutto scherzo. Leggendo alcuni mi sembra di leggere le parole di un disco incantato. Consiglierei di prendere in dotazione una zappa e di imparare a dissodare e a coltivare un orticello. Due saranno gli effetti: primo, ristabiliremmo la verità della nostra nuda natura nella collocazione del nostro essere nel mondo e nel cosmo, e ci riagganceremo finalmente all’uomo reale abbandonando le ipostasi che ci siamo costruite e costituite credendoci chissà chi. Secondo, mangeremo verdure gustosissime, sane e fresche, e nel medesimo momento che lo faremo avremo contezza e sensazione certa di essere stati creatori e partecipi finalmente di qualcosa che avrà raggiunto una verità incontrovertibile! La miglior filosofia è dunque quella che nasce nel nostro orto esteriore ed interiore! La vocazione alla verità sta nel cercarla, non nel ripetere sempre pedissequamente i testi di chi ci ha preceduto. Una mentalità borghese è quanto di più deteriore e distante dall’atteggiamento propizio. Solo chi ha questa natura e questa forza può sconfiggere la corruzione, può sopportare le angherie, può lottare per far prevalere la nobiltà dello spirito!
Personalmente, Roberta, troverei che rassegnare le dimissioni in questo scenario di catastrofe ma anche di rinnovamento possibile sarebbe per l’appunto uno di quei gesti “morali” estetizzanti che alcun beneficio portano alla causa per la quale si adottano e che tendono semmai a rivelare la comprensibile prostrazione cui si è tentati di cedere dopo una lunga, solitaria e infruttuosa battaglia. Certo: ti metterebbe forse per qualche istante nella condizione d’animo rassicurante e un poco gratificante di avere dimostrato il coraggio di “pagare sulla tua pelle per i tuoi principi”. Ma in realtà, sul piano della morale pubblica: 1) le interpretazioni maliziose e strumentali, sempre possibili e ampiamente prevedibili in un milieu morale come il nostro, si sprecherebbero, annullando rapidamente i pochi e comunque non duraturi effetti di un gesto che si vorrebbe grave e solenne per ambire all’esemplarità 2) proprio ora che la catastrofe apre uno spazio, seppur minimo, di rinnovamento, in assenza di una valida e praticabile alternativa, si lascerebbe semplicemente il campo libero alle schiere sempre vigili di mediocri intellettuali e morali che, subito dopo averti stretto le mani in segno di solidarietà, si sfregherebbero le proprie giubilando per l’opportunità di avvantaggiarsi di uno spicchietto ancora in più di pallido sole accademico. Sul piano dell’agire morale più intimo e personale, invece, che però non dovrebbe tenere in particolare conto o comunque non dovrebbe lasciarsi più che tanto condizionare dagli effetti pubblici delle proprie prese di posizione, una decisione del genere potrebbe invece giustificarsi, come presa d’atto di un limite cui non si vuole più sottostare, del bisogno indifferibile di accedere a un livello più elevato e pieno della propria vita intellettuale e morale, che il contesto accademico che ci si è scelti logora e frustra in maniera ormai non più accettabile. In questo caso, però, non è più in gioco l’alternativa tra il rispetto formale dello statuto accademico o dei più sostanziali principi di libertà e indipendenza morale, e neppure l’annuncio pubblico del proprio dissenso nella speranza di testimoniare una via d’uscita alternativa e migliore del corpo accademico del San Raffaele da una situazione di crisi. Semplicemente, si prenderebbe atto che dietro la retorica (a questo punto definitivamente riconosciuta come vuota) dell’università libera e indipendente votata al sapere dell’uomo per l’uomo, si nasconde in misura inaccettabile e irredimibile una sterile filiera senza speranza di officianti e ossequianti, fedeli al proprio torbido “mecenate” e alle sue mediocri linee di comando più che alla ragione teorica e pratica, e ci si costruisce pazientemente e faticosamente un’alternativa per sé e per coloro, studenti e ricercatori, verso i quali ci si sente ancora obbligati. Questo genere di scelte, però, avvengono generalmente, se non proprio nel silenzio, in solitudine e con la massima compostezza pubblica, senza che vi sia la necessità di aggrapparsi a questo o a quell’episodio di contrasto, se non come a un’occasione come un’altra di esercizio ultimativo della propria libertà, perché implicano la sconsolata seppur non disperata ammissione anche di un errore proprio, generalmente coincidente con una sopravvalutazione di sé, oltre che dell’organizzazione e forse della causa per cui ci si è spesi. Ma siccome confido tu non sia (ancora) arrivata a questo punto, resta al tuo posto, dichiara il tuo dissenso, attenta soltanto a che il tuo legittimo sdegno non si trasformi in un alibi, nell’organizzazione in cui spontaneamente continui a operare, per isolarti irrimediabilmente.
In replica alla nota di Andrea Zhok
Ben lieto di considerare una critica, temo tuttavia che l’esegesi di quanto criticato sia del tutto fuori strada, a partire dalla ricognizione del tema centrale.
La questione sollevata dalla titolare del blog è pertinente tanto alla forma, quanto alla sostanza contingente delle relazioni istituzionali in cui è immerso l’esercizio di una certa professionalità. In tale ambito ella ha inteso esplicitare un problema personale, di coerenza col proprio foro interiore ed esteriore nell’agire nel contesto didattico-formativo di cui è parte. Chi scrive ha deciso di fornire – peraltro senza pretese di immediata e onesta comprensione – qualche strumento di riflessione con sintesi ritenuta sufficiente alla qualità intellettuale e al desiderio di confronto – e conforto – dell’interroganda.
Per specificare meglio il punto contestato, non si è affermato che l’ispirazione religiosa di un istituto formativo assurga ad usbergo giustificativo contro qualunque azione discutibile ed eventualmente sanzionata di chi la sovraintende.
Si è solo ricordato che assumere un incarico presso un Ateneo che fonda la propria mission su specifiche condizioni ultime di esercizio del personale libero orientamento didattico-scientifico comporta necessità di coerenza rispetto a tale scelta. E’ vero infatti che l’Ateneo non prevede restrizioni all’esercizio del pensiero ed all’estrinsecazione didattica delle convinzioni personali, tuttavia tutto ciò non cancella la portata complessiva della sua missione, che ha anche una connotazione spirituale – e consequenzialmente operativa – posta liberamente nelle mani del fondatore e delle istituzioni fondative, fino “a nuovo ordine”.
Sempre sul piano della coerenza argomentativa, nemmeno si è detto, d’altra parte, che tali condizioni pregiudichino un dissenso verso le scelte operative degli organismi istituzionali sovraintedenti, ovvero verso le modalità di perseguimento della mission. Solo, si è aggiunto che in virtù dell’accettazione dell’esercizio libero del proprio agire didattico-formativo è legittimo e perfino moralmente responsabile mortificare (e non certo mutilare) tale dissenso di fronte agli scopi e agli strumenti del sistema cui si è aderito, fintanto che chi è responsabile del giudizio sulle modalità esplicative della mission non intervenga con proprio provvedimento.
E, sia ben inteso, sarebbe altamente disonesto riferire tale ultimo giudizio esclusivamente agli organi giurisdizionali civili e penali, dato che il fondatore è un sacerdote che esercita la missione non certo con separatezza di funzioni rispetto all’ecclesialità istituzionale, religiosa e morale di cui è parte.
In tal senso, proprio in virtù di uno spirito laico e raziocinante, farebbe difetto di onestà intellettuale un pregiudizio sostanzialmente omissivo della propria consapevole condizione di subordine rispetto alla missione cui si è liberamente accettato di aderire, e per la quale il fondatore non ha previsto – per coerenza di sistema in cui anch’egli è inserito – una possibilità di revisione dal basso.
Con l’auspicio che ogni ulteriore appunto e riflessione volga su un piano maggiormente dubitativo, e nella buona disposizione verso qualunque nuovo approfondimento risultasse utile, giunga benevolente saluto.
Paolo Masciocchi
Innanzitutto grazie a Paolo Masciocchi per la superfuffaprematurataconusbergogiustificativoadestra.
Mi ha messo di buon umore, e di ciò lo ringrazio sentitamente.
Moltissime cose potrebbe essere estratte dalle sue righe con diletto, ma mi limito a due osservazioni. La prima di natura effimera ed estetica: l’accostamento nel giro di poche frasi dell’usbergo giustificativo e della ‘mission’ spirituale dice più cose di quante se ne possano estrarre da un’esegesi morfema per morfema. Ecco, di fronte a tale accostamento ho avuto la visione mistica dell’abate Galiani che faceva il broker a Wall Street.
Venendo invece al nocciolo esegetico, beh, ad averne il tempo sarebbe bello poter farne un commento interlinea integrale, ma il testo parla così bene da solo che forse basta commentarne in modo minimale qualche riga:
“È vero infatti che l’Ateneo non prevede restrizioni all’esercizio del pensiero ed all’estrinsecazione didattica delle convinzioni personali, tuttavia tutto ciò non cancella la portata complessiva della sua missione, che ha anche una connotazione spirituale – e consequenzialmente operativa – posta liberamente nelle mani del fondatore e delle istituzioni fondative, fino “a nuovo ordine”.
EEHH!??
COSA SAREBBE STATO ‘POSTO LIBERAMENTE NELLE MANI DEL FONDATORE’ FINO A NUOVO ORDINE? LA MISSIONE? LA CONNOTAZIONE SPIRITUALE? E ANCHE FINGENDO CHE LA FRASE ABBIA UN SENSO COMPIUTO, SI STA FORSE SOSTENENDO CHE ANDANDO AD INSEGNARE PRESSO UN’ISTITUZIONE UNIVERSITARIA IL DOCENTE SI CONSEGNA IN UN QUALCHE SENSO ALL’ISTITUZIONE E, DI PIU’, AL SUO FONDATORE? MA COSA STA DICENDO? QUESTA E’ ROBA CHE FA SEMBRARE METTERNICH UN FIGLIO DEI FIORI …
Sì, Andrea Zhok, è esattamente quello sto dicendo, e mi rendo conto che non è nello spirito di tutti pensarsi secondi a qualcosa come buon argomento per valorizzare ciò che si ha da dare, figuriamoci pensarsi ultimi. Peraltro, non credevo si potesse offendere qualcuno in questi spazi fino al punto da perdere il minimo della propria compostezza, e in tal senso mi scuso con tutta la serietà di cui sono capace per le reazioni suscitate. Queste forme di alterazione confidenziale e il desiderio di etichettamento – nei tipici schemi della psicologia – paiono forme di rassicurazione che avrebbero senso di fronte a persone con contenuti ben più autorevoli di quelli proposti. Non merito tanto. Peraltro, anche a voler dare giustizia e credito al senso di tali reazioni verso la pochezza intellettuale di chi scrive, non capisco cosa ci sia di utile – o forse trendy? – nel fare della filologia spiccia e conservativamente anticonformista sui commenti nei blog diretti ad altri, specie se non vi si trovi nulla di interessante. Quasi ancor più incomprensibile del desiderio di decostruire la casa di cui si è ospiti.
@ Paolo Masciocchi
Insomma, dallo spirito di servizio allo spirito di servitù, in confidente attesa dello spirito di servizietto. Complimenti per la mission.
Tutto è puro per i puri.
Ringrazio tutti coloro che si sono espressi in questo spazio, contribuendo, lo ricordo, a mantenerlo vivo proprio in questi giorni: ed è uno spazio di libertà, al confine della nostra Università. Siamo nel mondo, potenzialmente in contatto con ogni suo luogo: ma basta aprire una porta – cliccare sul logo – ed entriamo in Università. Questa discussione è una prova del bene che anche dentro esiste, perché è una prova della libertà che nessuno, da dentro, ha mai messo in questione, e soprattutto del suo esercizio sereno e tranquillo anche e soprattutto da parte dei più giovani fra quelli “di dentro” cioè di quelli che hanno di più – da perdere: e non se ne curano. Lasciamola ancora aperta, questa bellissima e simbolica porta. Le parole di ciascuno di voi, in questa varietà di toni e sfumature in cui posso riconoscere l’unicità di ognuno, non sono preziose solo per me, ma lo sono per tutti noi e per quelli fra noi che stanno operando perché “lo scenario di catastrofe” si trasformi in “uno scenario di rinnovamento possibile”. Domani pubblicheremo il testo del documento che alcuni di noi hanno sottoposto al corpo docente, e che domani verrà letto pubblicamente e discusso di fronte alle tre Facoltà: spero di potervelo presentare come documento approvato dalla maggioranza, e in questo caso sarebbe la base di quel rinnovamento che auspichiamo. E fino a domani non voglio pensare ad altro. Solo una piccola precisazione debbo a chi ha espresso la strana opinione che accettare la chiamata a insegnare in un’università (su conferma del Consiglio Universitario Nazionale ovviamente) sia stato mettere il proprio cervello nelle mani di un Fondatore e il proprio senso morale negli ingranaggi della sua “missione”: ecco, quel documento stigmatizza con una certa durezza la… come dire, chi avrebbe potuto trovare parole tanto spaventosamente inquisitoriali da parere una burletta… “la propria consapevole condizione di subordine rispetto alla missione”. E prevedono per la governance dell’istituzione esattamente quella “possibilità di revisione dal basso” (piuttosto radicale, anche) che “il fondatore non ha previsto”. Appunto. Dunque, amici, a domani.
Professoressa,
ho letto con ansiosa preoccupazione la sua nota e con rinnovata fiducia ogni commento che ne è seguito. Anche l’ultimo, che proprio Lei ha scritto.
Ciò che, nella sua richiesta, doveva essere soltanto un’ “opinione”, nelle parole di noi studenti è diventato un appello: non si dimetta.
Resti, non “nonostante tutto”… Ma per il “tanto di buono” che c’è in questa facoltà e che Lei stessa non ha mai mancato di riconoscere.
Resti, per tutti coloro che sentono viva, in questo momento più che mai, quella vocazione alla verità che li ha condotti ad iscriversi ad una facoltà di filosofia… Per tutti noi che, in nome di questa “chiamata”, usciti dal liceo abbiamo deciso di affidare al San Raffaele la nostra formazione, umana forse ancora prima che accademica.
Resti, affinché l’espressione del dissenso (che anche noi studenti condividiamo) sia non solo una chance di rinnovamento, ma anche un’occasione per confermare che qua dentro qualcosa per cui valga la pena di lottare c’è… Ed è la fioritura personale (morale prima che universitaria) di chi, giorno dopo giorno, in questi anni, si è reso conto di voler (e poter) costruire la propria vita su quel bisogno di giustificazione (che è necessità di chiarezza) che sta al cuore della filosofia.
Con l’auspicio che oggi il consiglio di facoltà decida per il meglio, resto in attesa di leggere quanto Lei ci comunicherà.
Federica Valbusa