I fatti deprecabili e contorti di Piazza San Giovanni, che tradivano lo sguardo speranzoso di un’indignazione ancora non propriamente produttiva, mi suggeriscono di prendere le distanze non soltanto da un primitivo e sempre più isolato giustificazionismo iscritto nel sistema anti-sistema (no-global, estremismi devianti da centro sociale, contro-cultura frivola e conformistica, slogan perniciosi di una paradossale ‘violenza pacifista’), ma anche e soprattutto dalla consueta retorica ‘equilibrista’ che abita nel salottino ‘conservatore’, il quale si ritrova puntualmente a seguito della ‘sventura’ trasgressiva e a-politica di quel gruppetto ‘armato’ di spade e privo di parole.
I salottieri di professione – politici, giornalisti, intellettuali – timbrano il biglietto dal Signor Vespa e colleghi per riproporre una reazione scontata e ufficiale che suona più o meno così: “Questi facinorosi vanno puniti; la violenza andrebbe sempre condannata senza ambiguità; non si risolvono in questo modo i problemi …”.
Questi uomini che con il loro cravattino vogliono a tutti i costi apparire come quel ‘genitore educante’ caro allo ‘Stato etico’ di Gentile, non sono alternativi alla violenza tout court; al massimo, trapelano atteggiamenti alternativi alla violenza manifestata da quattro ragazzacci probabilmente senza basi culturali e indole morale, ma non sono atteggiamenti completamente anti-violenti. Altrimenti si sposerebbe una definizione di violenza del tutto riduttiva, ‘corta’ nel suo incommensurabile potenziale; in parole povere, nella violenza lato sensu i Signori della ‘buona’ televisione che reagiscono ad un evento inconsulto, quasi deterministico come lo sfascismo dei nuovi ‘apprendisti’ della fisica violenza, producono egualmente violenza con il loro formalistico irrigidimento e con essi fa violenza pure l’establishment politico-manageriale nella condizione contemporanea: la tecnocrazia dei poteri forti, i mercanti post-moderni. I marxisti di un tempo parlerebbero, in tal caso, di una palese violenza del capitale.
Non esiste solo la violenza orizzontale dei sassolini o dell’estintore, esiste altresì quella verticale di chi risiede nei gradini alti della società, muovendosi senza far ‘rumore’, ma non per questo agisce senza violenza!
Il terrorista che uccide il giuslavorista Marco Biagi perché non condivide il suo progetto eccessivamente ‘libertario’ nel campo del lavoro, è un criminale perché fisicamente violento; allo stesso tempo, quella classe dirigente irresponsabile che, in particolare, vuol cancellare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori senza aver dietro una proposta costruttiva di riformismo democratico e che, in generale, ‘uccide’ volontariamente o meno la speranza di una vita degna di essere vissuta per milioni di giovani (inclusi i devianti dei Black-block), in uno Stato di diritto come il nostro non finisce in galera, ma è pur sempre violenta perché in assenza di minacce primitive e brutali, impiega tuttavia un codice ‘egoistico’ indegno per l’incarico ricoperto.
Tornando agli ‘amici’ di Bruno Vespa, essi risultano violenti perché con le loro ridicole, superficiali opinioni non scavano nel profondo di una situazione talmente aggrovigliata e ricca di ostacoli; si fermano alle immagini di un bancomat distrutto e non pensano alla ‘multinazionale’ di riferimento con la rispettiva (violenta) e anti-giuridica lex mercatoria. Nella direzione rawlsiana si scopre, in proposito, un concetto di violenza, ma tante concezioni e il tentativo di occuparsi organicamente del ‘molteplice’ anziché dell’episodico e spettacolarizzante momento (fisico) di violenza, può essere utile ai fini di una maggiore comprensione; cioè di una diagnosi che, se correttamente individuata, permette di sollevare nella multi- direzionalità interpretativa prognosi plausibili: lo dobbiamo ai ‘figli dell’umanità’, un modo solenne ed elegante per affermare che l’egoismo individualista dei padri borghesi e degli odierni neo-capitalisti rischia “uccisioni (violente) in famiglia”.
Francesco P.
Prendete una noce.
Brandite un martello e frantumatela.
Questo ha tutta l’apparenza di un atto violento e può fungere da immagine-modello della qualità ‘violenza’.
Ora prendete una seconda noce.
Mettetela in una morsa e girate la vite della morsa di 5 gradi al giorno.
Dopo qualche settimana la noce è frantumata, ma nessuno ha visto una rappresentazione plastica di violenza.
C’è una sola buona ragione per tener separati i due casi. Nel primo non c’è tempo di perorare la causa della nostra povera noce, nel secondo sì. La violenza secondo il modello archetipico non consente, diremmo, riflessione e dialogo.
Giusto.
E questo è però proprio tutto e solo ciò che differenzia i due casi. Se nel secondo caso ipotizziamo che la morsa sia azionata in remoto da forze trascendenti (i mercati) o da forze presenti ma totalmente impermeabili alle ragioni della noce (dittature, democrazie in polietilene come la nostra) i due casi si sovrappongono senza resti.
Chiedo perdono per l’apparente pignoleria, che sembra non cogliere il punto dell’immagine proposta da Andrea Zhok. Forse infatti è solo apparentemente pignolo obiettare che spaccare una noce non è in alcun senso possibile un’immagine di violenza, non avendo nessuno dei requisiti di valore negativo che associamo alle azioni e ai comportamenti che diciamo violenti. Naturalmente l’immagine di Andrea può ben essere efficace lo stesso, perché ci mettiamo noi spontaneamente ciò che manca, proiettando nella noce la capacità di soffrire violenza.
Oppure – più complesso – pensiamo la noce come possibile res soggetta a devastazione, tipo vetrine e altri BENI. Beni, vale a dire cose di valore, in qualche aspetto; oppure cose che hanno la proprietà di essere care a qualcuno (valore “affettivo”); oppure cose che, a prescindere dalla circostanza se abbiano o meno valore, sono possedute da qualcuno (persona fisica o giuridica) e come tali non disponibili a chiunque.
È solo un inizio. Ma a questo punto, volendo tener conto di tutte le distinzioni e relazioni che qualificano un atto o un comportamento come “violento”, non sarebbe un po’ più difficile argomentare l’analogia proposta da Andrea, fra due comportamenti che sembrano toto genere diversi e invece hanno di diverso solo la scala temporale?
Il che, attenzione, non necessariamente significherebbe che non abbia valore “altrettanto” o “più” negativo il comportamento delle persone e delle organizzazioni (qui c’è un ulteriore problema, naturalmente non è mai un’organizzazione che può compiere atti moralmente valutabili) simbolizzate dalla procedura di schiacciamento lento della noce; significa che, a supporre che si possano identificare concezioni assiologicamente erronee o indifferenti,e responsabilità personali (“l’egoismo individualista dei padri borghesi e degli odierni neo-capitalisti”), bisognerà trovare altre categorie di valore negativo di cui imputare i loro comportamenti, rispetto a quella di violenza.
La vera indignazione che si potrebbe trarre da questa serie di riflessioni è che nessuno di quanti frequentano i salotti bene hanno la volontà la voglia la capacità di andare al fondo delle situazioni che generano violenza. Certo l’esempio di Andrea sembrerebbe semplicistico, ad un primo esame, ma proprio perchè ognuno di noi ci mette ciò che la propia esperienza suggerisce e riesce ad attualizzare, questi comportamenti prendono valenza e mettono ognuno di noi in grado di crearsi una propria idea. Resta assolutamente importante per ognuno attraverso queste esperienze riuscire a creare una propria identità morale in grado di confrontarsi, rispetto a tutti i pecorsi necessari per un cambiamento graduale ma fondamentale.
Il termine ‘violenza’ è notoriamente tra i più abusati e distorti nel dibattito pubblico, alla stregua di ‘libertà’; negli ultimi decenni si è sentito parlare in postmodernese, con non risibile frequenza, persino di ‘violenza della ragione’.
Ma, buaggini a parte, quello che la similitudine di cui sopra voleva illustrare è solo la parzialità dell’immagine mentale che guida i nostri giudizi (e le nostre condanne) relativi alla ‘violenza’ di un atto. Ora, che l’immagine dello schiacciamento a martellate della noce fosse metaforica e che dunque possa essere efficace o meno, ma certo non vero o falsa, va da sé e non mi pare sia da argomentare. Che però un tale gesto NON sia un’adeguata simbolizzazione dell’area semantica violenta, questo mi sento di contestarlo. In una sua prima accezione ‘violenza’ è qualcosa che non riguarda rapporti intenzionali di tipo antropico, ma andamenti del moto: se un’automobile è trasportata da un fiume in piena e va a sbattere contro un furgone (come visto ieri nell’alluvione di Genova), l’urto si dice in senso proprio ‘violento’. Nel termine ‘violenza’ le connotazioni di ‘prevaricazione’, ‘prepotenza’, ecc. non sono quelle dominanti, anche se lo sono spesso nell’uso del termine in contesto politico.
Ciò che mi premeva illustrare con quella metafora è semplicemente che la reazione di rigetto che noi tendiamo ad avere di fronte a stati di cose giudicati come ‘violenti’ è in verità indirizzata alla componente di ‘prevaricazione’, tuttavia spesso essa viene RAPPRESENTATA INTUITIVAMENTE da eventi che hanno il carattere di ‘moti violenti’ (‘lanciare un sanpietrino’ simile a ‘urto tra automobili’). Questo spostamento prospettico tende a sottacere il fattore ‘prevaricazione’ nella violenza a favore di sue manifestazioni dinamiche inessenziali.
In questo senso, con un esempio veteromarxista della cui semplicità mi scuso:
1) A sta morendo di fame;
2) B ha cibo in abbondanza e si rifiuta di darlo ad A;
3) A avvia un moto dinamicamente violento per sottrarre del cibo a B;
In che senso saremmo legittimati a dire o pensare che LA VIOLENZA HA AVUTO INIZIO nel momento (3)?
Non c’è qualcosa di intollerabilmente ipocrita, peloso ed in malafede nel sostenere questa idea? E se è così, non dovremmo forse riservare la nostra indignazione alla ‘prevaricazione’ piuttosto che alla violenza? (O meglio, anche alla violenza, ma nella misura in cui include prevaricazione).