Malcolm Gladwell, The New Yorker, Stati Uniti
Il mouse, la stampante, le canzoni dei Rolling Stones. Malcolm Gladwell cerca di capire in che modo nascono le idee rivoluzionarie. E racconta di quando un imprenditore di vent’anni che si chiamava Steve Jobs visitò lo Xerox Parc nella Silicon valley e vide il primo personal computer.
Lo Xerox Parc era la divisione della Xerox Corporation dedicata all’innovazione. Si trovava, e si trova ancora, in Coyote Hill road, nella periferia di Palo Alto, ai piedi delle colline, in un edificio di cemento lungo e basso con enormi terrazze affacciate sui gioielli della Silicon valley. A nordovest c’era la Hoover tower della Stanford university. A nord, il campus sempre più grande della Hewlett-Packard. E tutt’intorno, schiere di altre aziende di software, società d’investimento e fabbriche di hardware. Chiunque visitasse il Parc poteva immaginare di trovarsi nel castello che dominava la valle del mondo dei computer. E all’epoca la realtà non era molto diversa. Nel 1970 la Xerox riuniva i migliori ingegneri e programmatori del mondo, che per dieci anni produssero un flusso d’innovazioni e invenzioni senza precedenti. Negli anni settanta chi era ossessionato dal futuro era ossessionato dallo Xerox Parc: ecco perché il giovane Steve Jobs andò in Coyote Hill road.
La Apple era già una delle aziende tecnologiche più interessanti del paese. Nella valley tutti ne volevano un pezzo. E così Jobs propose un accordo: avrebbe permesso alla Xerox di comprare centomila azioni della sua azienda per un milione di dollari – all’attesissima quotazione in borsa mancava solo un anno – a patto che il Parc “gli aprisse un po’ le sue stanze segrete”. Seguirono contrattazioni infinite. In fin dei conti Jobs era la volpe e il centro ricerche della Xerox il pollaio. Cosa potevano lasciargli vedere? E cosa no? Qualcuno pensava che quell’accordo fosse una follia, ma alla fine la Xerox accettò. Uno degli scienziati del centro ricorda Jobs come un tipo “esuberante”, una versione più fresca e adrenalinica dell’austero imperatore digitale che conosciamo oggi. Gli fecero fare un giro e Jobs si ritrovò davanti a uno Xerox Alto, il prestigioso personal computer del centro. (prosegui la lettura sul sito di Internazionale).
Qualcun altro ha notato il tenore vagamente simmeliano dell’articolo di Gladwell? Il carattere disordinato ed eccessivamente fecondo della creatività (vita) e le sue inevitabili e produttive ossificazioni (forma). Simmel la vedeva come la “tragedia della cultura”. Negli ultimi tempi mi scopro sempre più spesso a pensare che la Lebensphilosophie non muore davvero mai. Sarà un caso? A parte il fatto che forse ci ha preso (chi lo può dire…), il suo successo deve sicuramente avere un legame con la straordinaria fortuna di cui godono oggi gli immaginari biologici. Ma qualcosa mi fa supporre che tra le righe ci sia spazio anche per un pizzico di revanche filosofica. In fondo, qual è l’attività intellettuale più simile a una (apparentemente) infruttuosa “open-ended search for knowledge”? Bello immaginarsi nei panni di Mick Jagger che scrive il testo di “Brown Sugar” con Keith Richards (!) che cerca di “chiudere il rubinetto” della tua creatività. Suggerisco a tutti i docenti di filosofia di usarla come reclame per la loro materia. La filosofia come i Rolling Stones!