Un breve saggio di analisi politica della lettera di Trichet-Draghi

lunedì, 10 Ottobre, 2011
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Letta la lettera, viene spontaneo considerarne e discuterne le varie prescrizioni. Io qui vorrei considerarla, o meglio considerarne l’invio, come atto politica economica internazionale, e più precisamente europea.

Da questo punto di vista, la prima questione che si pone è quella dei presupposti istituzionali di questo atto. La seconda riguarda la natura dell’atto. Tali due domande sono strettamente intrecciate, ma credo che sia possibile e desiderabile tenerle distinte. La prima domanda è: ha la BCE l’autorità, la competenza, per inviare, per via più o meno riservata, un simile elenco di richieste a un governo membro? Fanno la BCE e il governo italiano parte di un’organizzazione, la Comunità Europea, nel cui ambito è normale, è previsto dalle regole, che si svolgano rapporti di questo genere?

Potrebbe darsi che i mittenti parlino in veste di finanziatori a cui viene richiesto, almeno in forma implicita, del credito. Come tutti i creditori, enumerano delle condizioni al cui soddisfacimento vogliono legare l’esaudimento della richiesta: il governo italiano godrà del sostegno della BCE al corso dei titoli del debito pubblicano italiano se… eccetera eccetera. Prestazione e contro-prestazione sarebbero qui l’oggetto di una trattativa, come quelle che si svolgono tra parti private. Questa ipotesi viene incoraggiata dalla frase d’esordio, vaga e allusiva: «Il Consiglio direttivo della BCE il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani.»

Oppure la BCE si pone come un organo politico della Comunità Europea, in qualche misura sovra-ordinato gerarchicamente al governo italiano, e dunque in grado di emettere atti normativi, ordini, direttive? Anche questa ipotesi potrebbe trovare una conferma nel richiamo che gli autori fanno immediatamente dopo agli impegni assunti da tutti i paesi membri, nel vertice dei capi di stato e di governo del 21 Luglio 2011. Qui dunque i mittenti agirebbero come responsabili di un organo che avrebbe, tra gli altri compiti, quello di vigilare l’attuazione degli impegni presi in quell’occasione, o magari in altre, dagli stati membri. Non mi consta che la BCE abbia, nel suo statuto, la previsione di tali compiti. Però bisogna ricordare che la Comunità europea è una costruzione largamente incompleta, ed è possibile che le istituzioni che esistono svolgano un ruolo di supplenza di quelle che non esistono.

Questa ambiguità dei presupposti istituzionali si riflette sulla natura dell’atto: passo intermedio di una trattativa, o ingiunzione? Ecco la frase di esordio dell’ultimo paragrafo della lettera: «Vista la gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011.» Questa sembra proprio un’ingiunzione!

Il contenuto dell’ingiunzione, è un mix di riforme strutturali e manovre di bilancio. Non intendo qui passare ad un’analisi delle singole riforme e misure prescritte. Tuttavia, un’osservazione va fatta: le riforme costituirebbero il programma di un governo di legislatura. Nessuna riforma del mercato del lavoro, o dell’amministrazione pubblica, o dei servizi pubblici locali, può essere fatta con un decreto-legge, o una raffica di decreti-legge. Si tratta di materie che richiedono processi deliberativi complessi, un susseguirsi di atti legislativi ed amministrativi, che, certo, l’attuale governo non hai mai neppure messi in moto. Non lo ha fatto perché non li riteneva necessari o addirittura li riteneva indesiderabili. Come non ricordare le dichiarazioni della coppia Sacconi-Brunetta secondo cui l’Italia avrebbe «il miglior mercato del lavoro d’Europa, quello che tutti ci invidiano»? È anche dubbio che l’attuale governo, anche se ne avesse la volontà politica, abbia uomini con le capacità per attuare tali riforme. Un governo che, in cinque anni, ne realizzasse anche una sola si renderebbe benemerito davanti al Paese.

Ora questo fatto salta agli occhi, credo, di qualunque persona ragionevole. Come è possibile che due signori dotati di tanta esperienza, e capacità di riflessione, come Draghi e Trichet si illudano di poter imporre l’attuazione di questi compiti difficili e di lunga durata «per decreto legge, da ratificare entro la fine di Settembre»?

(Pisa, 6 Ottobre 2011)

Sull’argomento vedi anche La scienza triste (parte prima). Sulla teoria economica e i suoi corifei

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2 commenti a Un breve saggio di analisi politica della lettera di Trichet-Draghi

  1. Andrea Zhok
    martedì, 11 Ottobre, 2011 at 09:00

    Io ho avuto un’impressione differente, soprattutto tenendo conto che i mittenti non hanno richiesto che la lettera rimanesse segreta (richiesta che è stata posta solo da parte italiana). Le indicazioni della lettera sono indicazioni molto convenzionali, piuttosto astratte e talora manualistiche. Sono in effetti cose che ordinariamente sarebbe non tanto ‘inopportuno’ dire ad un partner europeo, ma soprattutto INUTILE, perché, per l’appunto, non si tratta di richieste di particolare ingegno, ma di ortodossia economica banale (spesso ottusa).

    Il punto dell’invio della lettera è che Trichet, Draghi e più in generale le alte sfere della gestione politico economica europea sono convinti che ad un governo come il nostro devi dire esplicitamente e senza lasciare margini per menare il can per l’aia ciò che in altri casi potresti assumere come sfondo condiviso. L’intento della mossa è quello di non consentire ai minus habens che ci governano, e che sono considerati tali in tutto il mondo che ha contezza della loro esistenza, di continuare a parlar d’altro. E per ottenere questo risultato hanno ritenuto, credo correttamente, di usare toni ed argomenti prossimi all’esplicita minaccia. – Ovviamente, nel contesto italiano, abituato a ben altro, anche ciò è passato con un lieve aggrottar di sopracciglia.

  2. Roberta De Monticelli
    martedì, 11 Ottobre, 2011 at 11:52

    Io per Giacomo Costa avrei la domanda seguente: ma infine le indicazioni o suggerimenti o ingiunzioni della lettera erano quelle giuste? Questa a me pare una questione cruciale, e prioritaria rispetto a quelle di opportunità e utilità. Questo non perché in sé le forme e il rispetto delle competenze istituzionali non siano importanti, ma perché, per quanto riguarda le questioni di politica economica, l’esistenza di un’Europa a moneta unica sembra legittimare una riduzione di sovranità su quegli aspetti di politica economica che sono consustanziali all’accettazione e al mantenimento di una moneta unica. In questo caso avere accettato un patto e poi non onorarlo configurerebbe un caso nel quale l’intervento della comunità istituita dal patto è più che legittimo, è doveroso (pacta sunt servanda). Ma per questo è importante sapere per certo se quelle indicazioni erano giuste, vale a dire precisamente quelle la cui esecuzione sarebbe necessaria per restare nel patto (europeo), o se invece sono per qualche verso infondate o arbitrarie (come sembrano credere pezzi della sinistra). Nel primo caso la questione dell’opportunità è superata. Nel secondo caso (che non siano le indicazioni giuste) la questione è superata lo stesso: non l’inopportunità ma l’infondatezza sarebbe stata una buona ragione per non intervenire. Su questo attenderei ansiosamente risposta da chi sa….

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