Circoscriviamo il dominio in cui si tenterà di vedere come passi decisivi della ricerca vareliana potranno essere assunti per lo sviluppo di strategie efficaci: il dominio è quello dell’educazione e dei processi formativi correlati. Il titolo di questo scritto doveva essere più circostanziato nell’ estendere quella possibile teoria dell’ istruzione alle sue dimensioni di pragmatica didattica. D’altra parte si osserverà che Francisco Varela non si è occupato esplicitamente di nessuno di questi fatti o di tali dimensioni di problemi E che comunque una didattica implica sempre che vi sia una teoria, magari implicita, da cui far discendere prassi empiriche.
E’ appena il caso di rilevare che Francisco Varela non ha avuto il tempo di occuparsi neanche di una parte di tutto questo; ma è molto probabile che scritti come quello di Maturana e Dàvila (2006) sull’educazione e la politica, e che implicano molte considerazioni didattiche, avrebbero potuto avere altre configurazioni autoriali. Le descrizioni di fatti educativi richiedono sempre decantazioni e la intensa ricerca di Varela lo attendeva, perché non poteva essere altrimenti, in una futura fase di quiete che, vi è stata, invece, in forma estrema. Ma Egli vive e vivrà nel tempo, attraverso quanto ha prodotto per l’umanità.
Ancora una precisazione limitante il campo delle fonti che hanno indotto a cercare di produrre descrizioni di evidenze intuite: la neurofenomenologia, l’enazione, l’accoppiamento strutturale, e la nuova biblioteca dell’Autopoiesi. Su quest’ultima dimensione c’è subito da rilevare che tutti gli studiosi che hanno, in vari ruoli e talora espressi in più piani, reso possibile la pubblicazione di “Neurofenomenologia” (Cappuccio 2006), hanno condensato un’esperienza culturale e scientifica di raro valore, costituendo una miniera di nuclei preziosi di sapere che ne fanno un testo emblematico di quella nuova biblioteca preconizzata da Maturana e Varela.
<<Se dobbiamo comprendere un mondo più nuovo e tuttora in via di evoluzione; se dobbiamo educare la gente a vivere in quel mondo; se dobbiamo legiferare per quel mondo; se dobbiamo abbandonare categorie e istituzioni che appartengono a un mondo scomparso, come è anche troppo chiaro che dovremmo, allora la conoscenza deve essere riscritta. L’Autopoiesi appartiene alla nuova biblioteca>> (Maturana e Varela 1988, p. 116). Così la Neurofenomenologia, nel senso più ampio, costituisce un elemento cardine della biblioteca che, in particolare, potrà aiutare a rivedere il sistema delle pre-comprensioni spontanee: quelle che oscurano la percezione del nuovo, che veicola nella ripetitività il già noto, ma che ha possibilità di aprire nuovi percorribili orizzonti. Sapendo sempre che qui l’orizzonte è il dominio della pragmatica del fare istruzione.
Proviamo ad analizzare le parti di un elenco di cardini di una possibile pedagogia di derivazione neurofenomenologica:
1-assunzione del primato dell’esperienza vissuta, mediante la quale rivolgerci al legame mente e
coscienza;
2-sospensione degli assunti abituali (riduzione fenomenologica);
3-capire che tipo di conoscenza rappresenti il sistema delle pre-comprensioni (gli assunti abituali);
4-assumere principi teorici che colmino il divario tra cognizione ed esperienza;
5-avviare un’indagine di nuovo tipo, che porti a un aumento di evidenza intuitiva;
6-costruire strumenti pragmatici per lo sviluppo dei passaggi 1-5, ivi compreso il problema
difficile della coscienza.
Sgombriamo il campo dalla possibile obiezione che il termine formazione può suscitare per gli ambiti di libertà che il sistema di pensiero vareliano implica. Formare sembra comportare un qualche grado di forzatura. Qui la nozione è riferita semplicemente ai processi formativi che in ambito scolastico si attivano solo e soltanto mediante l’attività di istruzione ed educazione e che richiedono proprio quello che Francisco Varela chiama “un impegno disciplinato” da assumere anche se riferito, in Varela, alla riduzione fenomenologica. Talvolta userò l’espressione trattamento fenomenologico, invece di riduzione fenomenologica, volendo intendere comunque le prassi che questa applicazione comporta.
1-ASSUNZIONE DEL PRIMATO DELL’ESPERIENZA VISSUTA:
E’ noto l’aforisma riferito a quell’insegnante che andava sostenendo che la sua ventennale esperienza doveva essere sufficiente a garantire la bontà di talune sue decisioni; come è nota la risposta di chi avanzava il dubbio che quelle sue decisioni potevano essere anche la ventennale replicanza degli stessi errori. E, tuttavia, senza quell’esperienza da assumere primariamente, non sarebbe possibile indagare il suo significato e la natura di quella probabile replicanza. Fermo restando il possibile valore di quell’aforisma, mi rifarò a un frammento della mia esperienza di insegnante di Scuola elementare alle porte di Firenze. Eravamo alla vigilia dell’avvento dei Decreti delegati. Primo insegnante laureato in quella scuola, con nessuna esperienza empirica d’insegnamento, vincitore di concorso, entusiasta della lezione cognitivista di Bruner, ma anche di Merleau-Ponty, affascinato dagli utopisti, fiero del mio massimo dei voti avuto dalla massima autorità pedagogica del tempo, quale era Roberto Mazzetti, vengo assegnato a una sede che vedeva il fior fiore tra i docenti anziani dell’area fiorentina, per niente contaminati né dalla pedagogia di Lorenzo Milani, né dai fermenti del vicino Isolotto. Le risposte erano del tipo:- E’ la nostra tradizione, abbiamo fatto sempre così e così è bene. Voi potreste rappresentare il disordine. Nel giro di due mesi, vengo chiamato in direzione. Il direttore mi dà un avvertimento, in termini imperativi: -I genitori si lamentano di te, o cambi sistema o rischi molto. Bada bene, tocca a me confermarti in ruolo. Bene, io non cambio, sicuro che le conoscenze di scienze umane come allora venivano definite le competenze dell’area filosofica, pedagogica e psicologica, mi sostenevano nella ricerca di costruzione di un curricolo localmente specificato, sulla base della conoscenza che mi andavo formando dei bisogni dei bambini. Sullo sfondo, era forte la lezione di Lorenzo Milani che Mazzetti aveva innalzato al rango di autorevole pedagogista nel suo corso all’Università di Salerno, esperienza riportata nel volume “Don Milani e la ristrutturazione della scuola di base” (Mazzetti 1968).
Soprattutto, quelle prassi da me avviate erano auspicate nella Premessa agli allora vigenti programmi ministeriali. Non avendo a che santo votarmi, mi era aggrappato, e non solo per dovere d’ufficio, alla normativa di gestione. Sta che chi prova da solo questa via può avere qualche sbandamento, rispetto a chi usa sicuri curricoli preformati da applicare in classi dove non si sentiva volare nemmeno un alito di vento. Oltre il novanta per cento gestiva un’organizzazione d’ordine di questo tipo. Un’area conventuale che, però, si rompeva al suono della campanella dell’intervallo. Allora l’allegria naturale, biologicamente espressa, dei bambini riportava la scuola ad un clima per me più accettabile. Organizzo un’assemblea di classe. Mi accorgo che una parte, molto minoritaria, dei genitori sosteneva quell’andamento. Il particolare più interessante era che una mamma, tra le non più giovani e che aveva avuto altri figli a scuola negli anni precedenti, condusse una vera e propria arringa, e ponendo tutta una serie di domande, a difesa di quelle procedure. Si era sparsa la voce. Tutti attendevano che capitasse qualcosa di clamoroso: non si era mai visto niente che turbasse un così stato stabile di quiete. Si volgeva al termine dell’assemblea e la situazione registrava grosso modo un equilibrio; andavo convincendomi che non avevo il diritto di dividere una piccola comunità. A un tratto, chiedono di entrare i componenti dell’Usl dell’equipe medico-psicopedagogica che avevano seguito un paio di alunni più volte bocciati e che si erano rifiutati di certificare, ritenendo che avessero bisogno di altro. Dopo l’intervento della psicologa e soprattutto della logopedista che conosceva meglio di tutti la storia tortuosa di molti di quei bambini, la situazione si ribalta decisamente in favore del proseguimento di quell’esperienza. Una storia finita bene, si fa per dire; e solo perché altre storie analoghe in quella drammatica fase di transizione in cui i Decreti sembravano minacciare l’establishment, non erano finite nella stessa maniera. Apprenderò solo molto tempo dopo che la logopedista si era sottoposta in prima mattina a chemioterapia e si era fatta portare a scuola quel pomeriggio, al limite della sofferenza ancora in corso. Ricordo solo il suo fiero atteggiamento nella difesa di quei bambini a cui poteva essere sottratta una speranza di fuoriuscita dalla stagnazione. Basti ricordare che uno di quei bambini era stato bocciato ben tre volte tra Sicilia e Toscana, in prima classe, e sarebbe giunto, allora in terza classe, già quasi adulto in quinta.
Eravamo agli ultimi drammatici bagliori di una scuola a sostanziale struttura preventiva? Così sembrava in quei tempi. Cambieranno molti aspetti in ordine al miglioramento del quadro della democrazia formale, come ad esempio l’introduzione del Comitato per la valutazione del servizio dei docenti, sostanzialmente governato dalla componente docente, sottraendo al dirigente una potestà d’imperio, priva di legittimazione tecnica e culturale; spariranno gradualmente anche le bocciature, a cui corrisponderà però un abbassamento della qualità formativa, invece che un innalzamento delle prestazioni docenti. Si è osservato, poi, facilmente che quel Comitato non è mai riuscito a distinguere tra un insegnante che si trovava per caso in una scuola da chi vi spendeva l’anima.
L’aspetto più grave di quella invarianza attraverso decenni stava e sta nell’immutabilità della struttura preventiva, che ha continuato ad imperare con le sue pre-comprensioni, e il loro status di credenze e prassi abituali
2- SOSPENSIONE DEGLI ASSUNTI ABITUALI (RIDUZIONE FENOMENOLOGICA)
Anche se in quella scuola si era avviata organicamente la mia prima esperienza d’insegnamento, la conoscenza delle pratiche usuali, mi era ben nota. Non solo attraverso frequentazioni di insegnanti supplenti e del loro affanno nel cercare di inseguire i titolari nell’assegnazione e correzione di compiti, ma anche mediante un certo numero di riviste che pubblicavano e pubblicano ancora curricoli ripartendoli per mesi e settimane, dall’inizio alla fine dell’anno scolastico. Ed, inoltre, attraverso la consultazione di imponenti guide didattiche che, aggiungendo ai libri di testo enormi quantità di nozioni, fornivano il cemento della struttura preventiva della conoscenza. E che determinavano e determinano ancora ritmi di lavoro infernali sia per i bambini che per gli stessi docenti. Era tutto questo che andava ripensato e che in sintesi può essere così espresso nei termini
degli assunti abituali dei docenti di ruolo:
-Apprezzamento dell’autorità, da ritenere indiscutibile.
-Trasferimento su se stessi dell’atteggiamento di autorità e indiscutibilità delle proprie decisioni.
-Assunzione assoluta del programma perché quantitativamente rassicurante, rispetto alle notazioni
teoriche di Premesse o Indicazioni che ponevano astratte digressioni sulla Persona, pure posta teoricamente al centro dei processi, per essere dimenticata nel turbinio di quelle pratiche quantitative.
-Assunzione dei curricoli preformati, rispetto alle strategie di elaborazione curricolare.
-Concepire la valutazione come misura della volontà dell’alunno, invece che dell’adeguatezza del proprio intervento rispetto alle possibilità e bisogni dell’alunno.
Tutto questo era ed è da mettere tra parentesi, non rinunciando a farne oggetto di indagine, a partire dalla considerazione che quei docenti, in qualsiasi epoca abbiano raggiunto il ruolo organico, hanno dovuto scrivere -nei temi dei concorsi e nei colloqui- della Persona alunno e della dignità che tocca a loro difendere, riempiendosi di forbite citazioni tomistiche, fatte apposta, allora, per incantare gli esaminatori: -<<Persona significat quod est perfectissimum in tota natura, quam scilicet …>> (cfr. Maritain 1948). La citazione è fatta sulla base di ricordi di eventi vissuti. Le citazioni di oggi sono certamente diverse, ma non smentiscono la mancanza di coerenza di minima tra principi affermati e prassi perseguite.
3-CAPIRE CHE TIPO D I CONOSCENZA RAPPRESENTI IL SISTEMA DELLE PRE-COMPRENSIONI
Quale era il tipo di conoscenza rappresentata dal sistema delle pre-comprensioni nei docenti di quella scuola?. Eravamo nei bagliori di una scuola a sostanziale struttura preventiva è la risposta a questa e alla domanda di cui sopra. Nel senso che era una conoscenza prevenuta, orientata da una sommatoria di pre-considerazioni, invece che dall’attitudine a valutare nuovamente quanto nuovamente andava valutato. Non vi era solo il richiamo a una tradizione e alla circostanza che si era fatto sempre così. Le pre-comprensioni agivano nell’assunzione delle pratiche disciplinari di pure resa input-output, dell’io insegno (nella maggioranza dei casi anche molto bene) e tu apprendi, perché a te tocca apprendere quello che io ti insegno. E per far bene questo ti pianifico tutti gli apprendimenti in anticipo. Che tipo di conoscenza rappresentano quelle determinazioni curricolari che attivano quei processi già incapsulati? La risposta è già in questa notazione di rigidità. Che implica convincimenti del tipo “io so di sapere”, dunque allineati.
Da dove provenivano quei curricoli, nell’esperienza di cui trattasi, e quali erano i principi a cui si ispiravano? La risposta non era difficile, difficile era accettare che persone così tecnicamente preparate a svolgere una buona lezione disciplinare, non si accorgevano di perdere di vista i processi delle persone, individuando quei processi esclusivamente nella capacità di replicare i contenuti trasmessi e nel grado di fedeltà a quella replicanza. Quella risposta trovava radici nella tradizione dei cosiddetti “programmi ministeriali” e della logica quantitativa che li ispirava. Ma a ben vedere, vi erano spazi per non incappare in quel diabolico meccanismo dell’ <<io insegno e tu apprendi e taci; e rispondi alle domande quando sei interrogato; perché le domande le fa l’insegnante>>. Il tutto, beninteso, innaffiato da sobrie tonalità che però non diminuivano il carattere di impartizioni.
Quegli spazi vitali per un’alternativa erano da leggere nelle righe della “Premessa” ai programmi scolastici vigenti che indicavano le finalità da raggiungere e il loro valore primario, rispetto al programma. Il fatto che quelle “premesse” venissero scritte da fini intellettuali e, dunque, con un linguaggio che avrebbe richiesto adeguate interpretazioni e confronti interpretativi, hanno fatto prevalere, alla lunga, la più immediatamente percettibile sovrabbondanza del programma. Che non è stata mai tecnicamente e culturalmente espressa come scopo del fare scuola. Sono stati gli assunti abituali a prevalere, a fronte dell’assenza di un aiuto che esplorasse la filosofia di quei programmi ministeriali, per l’individuazione delle mete, delle finalità formative.
Resta drammaticamente ancora oggi da risolvere la questione di come si individuano quelle finalità e come nella prospettiva si possano usare i contenuti disciplinari indispensabili; dunque non tutti, né necessariamente tanti, per tendere, nella libertà di ciascuno, a quelle mete formative, che sono di alto profilo. Quelle pre-comprensioni rappresentano dunque una metodologia di distruzione dei valori implicati nei saperi, la cui evidenziazione esige tempi distesi e liberi confronti interpretativi, rigorosamente gestiti, tra pari alunni e tra pari docenti, per ovviare alla predominanza dell’etica del docente che, a fronte di nessun confronto, si trasforma inevitabilmente in ideologia. Il sistema delle pre-comprensioni riferite alla pragmatica del fare istruzione, è così coacervemente resistente e pervasivamente diffuso che le speranze di una presa di coscienza dell’esistenza di un’alternativa a fare istruzione è residua. E per riuscire a rendere evidenti intuizioni di questo tipo occorrerà che una comunità di ricercatori, come auspicava Varela per affrontare il problema difficile della coscienza, si ponga all’opera di un’impresa di portata gigantesca. Una delle poche speranze per rendere evidenti le ragioni di una tale impresa risiede nel tentativo, tutto da dimostrare, che proprio attraverso una didattica a fondazione etica, assumendo questa sia dalle finalità che dai valori implicati nei saperi, sia possibile attrezzare i nostri bambini perché possano pervenire gradualmente nel tempo, curandone la fragilità (cfr. De Monticelli e Conni 2008), ad una consapevolezza, ad una coscienza alta.
4-ASSUMERE PRINCIPI TEORICI CHE COLMINO IL DIVARIO TRA COGNIZIONE ED ESPERIENZA
Punto di partenza è l’assunzione del fatto che, nella biologia vareliana, i sistemi viventi umani non sono sensibili a impartizioni; seguito dal superamento integrale della separazione tra ragione ed emozioni e del fatto che “L’evidenza sperimentale sottolinea l’importanza di strutture specifiche come l’amigdala, la lateralizzazione del processo e il ruolo dell’eccitazione nella memoria emozionale>> (Varela 2006, p.83). Le neuroscienze , fin dal suo sorgere, hanno evidenziato che il modo in cui funzionano le connessioni sinaptiche favorisce l’apprendimento; a sua volta , l’incidenza della dinamica delle connessioni sinaptiche sull’apprendimento dipende dalla crescita di nuove connessioni. Successive ricerche, come quelle condotte da Wolfgang Köhler e da altri gestaltisti, avanzarono l’ipotesi che l’apprendimento inducesse modificazioni nei campi elettrici e nei gradienti chimici che ritenevano circondassero le popolazioni dei neuroni e dipendessero dall’attività aggregata delle cellule attivate dal processo di apprendimento (cfr. Kandel 2007, pp.139-150).
Tuttavia, i processi non sono così lineari. Searle (Searle 2006) ha teorizzato i condizionamenti dati dallo S(fondo), ovvero dal fatto di come il sistema delle precognizioni ostruisca la comprensione degli elementi di novità. Per cui docenti e discenti partecipano di condizionamenti, diversamente quanto similmente invalidanti: i docenti non colgono le novità in una riforma nuova e gli studenti canalizzano schematicamente le novità presenti in una lezione. E, ritorniamo così alle pre-comprensioni spontanee di Varela che costituiscono il macigno da rimuovere.
Con Libet (Libet 2007) si è compreso tecnicamente il grave condizionamento a cui è soggetta la cognizione umana: le nostre percezioni e le nostre azioni sono canalizzate, predeterminate, anticipate prima di averne un qualche grado di consapevolezza. La questione era già stata posta con la teoria modulare della mente (Fodor 1988) per cui le nostre conoscenze sono incapsulate stupidamente nei domini specifico. Perché sia possibile spostare tali conoscenze nel dominio centrale, vale a dire in direzione talamocorticale, al vaglio cioè dei lobi frontali, occorrono strategie RR, (Karmiloff-Smith 1993), cioè quelle ridescrizioni rappresentazionali che Husserl chiama rimemorazioni. Insomma è il ricorso all’ermeneutica, ai confronti interpretativi, eticamente guidati.
Trasferendoci nel sistema teorico di Damasio (Damasio 2000), che Varela chiama a sostegno della sua neurofenomenologia per le dimensioni di ragione e ed emozione, significa rendere possibile la transizione dalla coscienza nucleare, il luogo delle conoscenze nozionistiche, alla coscienza estesa, il luogo delle raffinate inferenze. Per Damasio sono i sentimenti a svolgere un ruolo decisivo e poiché è l’emozione che fa sorgere i sentimenti, è utile determinare nelle descrizioni dei mondi dell’uomo, insomma nel fare lezione, vibrazioni tali da attivare un’alta intensità sinaptica di derivazione emozionale. Dunque l’intensità sinaptica è funzione dell’intensità dello stimolo. In altri termini, la qualità dello stimolo può favorire una diversa comprensione dei dati dello stesso stimolo. Edelman chiama questa prospettiva un’ epistemologia basata sul cervello (Edelman 2007, p. 5). Che sorge dalle macerie della crisi delle epistemologie oggettivistiche e assume il fatto che noi non siamo osservatori distaccati del mondo, che operano attraverso rappresentazioni mentali. Riassumendo più posizioni teoriche, da Varela ad Edelman, noi siamo invece agenti immersi nel mondo, che acquisiscono la conoscenza attraverso l’azione nel mondo. Il nostro cervello, inoltre, è incarnato e per poter interpretare il suo funzionamento nell’acquisizione della conoscenza è essenziale tenerne conto. Una didattica enattiva con la quale la conoscenza si fa mentre si fa è la possibile risposta empirica, il grano, per attivare meccanismi del cervello non attivati dalle didattiche preventive, ripetitive. Purché l’azione sia percettivamente guidata dall’etica. Nel caso della scuola: dall’etica implicata nelle finalità istituzionali. E’ con tali strategie da inventare localmente che è possibile limitare gli impedimenti all’esercizio del libero arbitrio, e all’emergere di una coscienza alta.
5-AVVIARE UN’INDAGINE D I NUOVO TIPO, CHE PORTI A UN AUMENTO D I EVIDENZA INTUITIVA
Avviare un’indagine di nuovo tipo comporta l’assunzione della prospettiva di superamento di ciò che la riduzione fenomenologica dell’esistente ha rivelato, e che viene così ulteriormente specificato:
-l’idea di un apparato cognitivo che funziona secondo uno schema input-output;
– l’uso di pacchetti di curricoli preesistenti ,
-la tendenza a replicare copie del mondo esterno,
-assunzione di conoscenze astratte, prive di coloriture emozionali,
-assunzione di percorsi privi di intenzionalità progettuale e indipendenti dall’azione.
Questa condizione di vicarianza richiederebbe una immediata proposta di correzione costitutiva; ma forse si configura come più prudente ricorrere a una complementarità generativamente coordinata. Si tratta di vedere cosa è salvabile e a quali esiti possa portare l’indagine da avviare e a quale chiara evidenza intuitiva possa questa pervenire.
Iniziamo col dire che l’intuizione è <<una fondamentale capacità umana che è costantemente all’opera nella vita quotidiana e che è stata studiata in molte ricerche sulla creatività>> (Varela 2006, p.78). Così l’evidenza intuitiva <<non nasce dall’argomentazione, ma dalla creazione di una chiarezza che è totalmente convincente >> (id.). Naturalmente, l’intuizione avviene a seguito di processi di ragionamento e produce nuove idee. E’ l’esercizio delle inferenze che può portare all’aumento di evidenze intuitive. Che proprio perché tali, non sono il prodotto di argomentazioni; ma devono essere intuite. E questa competenza intuitiva è del docente che si fa ricercatore, in vista dell’organizzazione del suo lavoro, o è possibile anche nell’allievo? In Varela, come in Maturana, viviamo in domini di accoppiamento strutturale. Così le intuizioni le ha il docente che si interroga su come l’alunno conosce e se questo nel conoscere usa le intuizioni; e non può non averle mentre si interroga come lui stesso conosce la conoscenza. Pure in regime di complessità, i problemi è bene affrontarli uno alla volta. Circoscriviamo qui l’interesse per la nuova funzione docente come preliminare ad ogni futuro cambiamento che possa attuare quell’accoppiamento strutturale in funzione autopoietica alunno-docente.
L’avvento di una simile alta soluzione della crisi dei processi formativi è rinviata al futuro perché questo comporta un cambiamento sociale e i cambiamenti sociali avvengono dopo che siano intervenuti cambiamenti nelle persone (Maturana e Varela 1988, p. 41 )
Ritorniamo a quella severità claustrale della scuola che non era dissimile da quella che vigeva a Barbiana. Solo che erano due concezioni diverse del rigore, del modo di orientare alla serietà dello studio. Vi era autorità contro autorevolezza, esecutività contro confronto delle interpretazioni, solipsismi contro cooperazione, replicanza contro ricerca. Si radica qui l’inizio della evidenza intuitiva, però tutta ancora da generare. Per poterla generare vi è bisogno di ricorrere ad un altro radicamento, più convincente, di indubbia evidenza come può essere un cominciamento assoluto, assolutamente ineludibile. Cosa può costituirsi in ciò di così forte e vincolante necessità? E perché un simile vincolo non ha agito finora? Come può giustificarsi una così grave dimenticanza, se detto radicamento contiene una condizione di necessità? E come si può fare a meno di una necessità inderogabile? Come si può eluderla?
Quel vincolo risiede semplicemente nella norma che istituisce il servizio pubblico di istruzione ed educazione. Ed è possibile eludere tutto ciò perché, bisogna necessariamente avanzare una simile ipotesi, si è generato gradualmente un sistema sociale di elusione dai doveri e da tutto quanto costituisce vincolo normativo. Eppure quei docenti si consideravano solerti attuatori di un servizio pubblico di buon livello. Era il sistema delle credenze abituali a far ritenere ciò.
Paradosso vuole che la fonte culturale primaria di quei docenti, come quella mia, era e resta il Personalismo pedagogico di Maritain, prima e di Ricoeur dopo, per quanto mi riguarda. Come si rende possibile che fonti comuni portino a così differenti sistemi di pensiero? E’ che, per dirla nei termini di George Kelly (Kelly 2004), la costruzione è personale. C’è che vi legge delle cose e chi altre. Nei concorsi per accedere a cattedre nella Scuola primaria era inevitabile che nella bibliografia vi fosse Maritain, con il suo “La persona e il bene comune “ e l’altro “L’educazione al bivio”. Proprio in quest’ultimo libro viene considerato un grave errore dell’educazione non mettere in stretta relazione il rapporto fini e mezzi. Che equivale a dare fondamento etico all’azione istruttiva, nel senso che i valori etici indicati come fini devono orientare le opzioni curricolari e, queste, concorrere alla realizzazione tendenziale dei fini, svuotando, in tal modo l’ottusa messa in cantiere di grandi quantità di nozioni, ad effetto bulldozer sulla possibile rielaborazione personale.
Era ed è questo effetto, dato dalle prassi della struttura preventiva del fare istruzione, che merita il trattamento fenomenologico qui operato in breve; e se questa condizione ha qualche evidenza intuitiva per la quale occorre ricercare un’alternativa meno vicariante ai processi formativi, lo sbocco è da ricercarsi nella nuova istituzione della didattica enattiva. Perché? Forse perché lo comanda qualcuno? Naturalmente, no. Si potrebbe dire che lo comanda la ragion pura e la ragion pratica in combinato disposto. Così se la didattica della struttura preventiva non prevede -perché non le ha cercate- alcune finalità formative, che pure costituiscono un vincolo della funzione della scuola; e tenuto conto che le finalità -per la propria natura- delineano il quadro etico entro cui devono essere agite le pratiche didattiche, si può comprendere da dove provenga il comandamento di un approdo a una struttura enattiva. Perché la visione enattiva assume l’azione come modo di fare conoscenza, nella consapevolezza che la conoscenza implica l’azione. E quale azione e quale conoscenza vi è in un’assunzione di pacchetti curricolari costruiti altrove da chi non conosce gli alunni di una determinata classe? Vi è piuttosto un nascondimento della conoscenza dei bisogni degli alunni e una elusione delle conoscenze necessarie per indagare quei bisogni.
6-COSTRUZIONE D I STRUMENTI PRAGMATICI PER LO SVILUPPO DEI PASSAGGI 1-5, COMPRESO IL PROBLEMA DIFFICILE DELLA COSCIENZA
La costruzione di strumenti idonei per rendere effettivo il cammino verso una struttura del fare istruzione, che sia enattivamente caratterizzata, prevede l’accettazione di evidenza delle ragioni di cui ai punti 4 e 5; ma anche la presa d’atto che esistono vincoli normativi che non possono essere surrogati da credenze abituali, e che devono essere oggetto di nuova interpretazione per leggervi –se vi sono- passaggi che auspicano proprio il superamento di quel sistema delle precognizioni. Come? Sviluppando analisi che devono nuovamente prodursi anche in sede di confronti interpretativi. Se questa evidenza viene assunta non solo intuitivamente, ma fattualmente ammessa come ineludibile, allora ha senso pensare a costruire strumenti pragmatici che aiutino a vedere meglio quei passaggi che richiedono, talora, ponti comunicativi.
L’ipotesi di lavoro della neurofenomenologia di Varela così si propone: <<Le analisi fenomenologiche sulla struttura dell’esperienza e le loro controparti nella scienza cognitiva sono correlate fra loro attraverso vincoli reciproci>> (Varela 2006, p. 84).
L’ipotesi più ricca di possibili sviluppi è quella connessa al problema di come contribuire allo sviluppo di una coscienza etica, dopo o contestualmente alla formazione di una coscienza razionale, considerando la prima come più socialmente e personalmente auspicabile della seconda, al cui stadio solitamente si interrompe –nei casi migliori- l’evoluzione della scuola a struttura preventiva.
Una strumentazione di base è costruibile sui seguenti asserti:
-si può assimilare la conoscenza dominio specifico, quella che i teorici definiscono come incapsulata stupidamente (Fodor 1988), alla conoscenza derivante dalle prassi della struttura preventiva, perché prive della colorazione emotiva e degli effetti sorprendenti derivanti dalla ricerca e dalla scoperta ;
-si può assimilare la conoscenza dominio centrale, quella che per la teoria postmodulare della mente di Annette Karmiloff-Smith (1993) consente fertili inferenze e intuizioni creative, alla conoscenza derivante dalle prassi enattive. Non a caso, Varela quando perora la pratica delle intuizioni evidenti assimila queste alle prassi da cui possono emergere insight creativi (Varela, op. cit., p. 78).
Se queste due assimilazioni possono essere accettabili, si pone subito il problema di quali strumenti sono da costruire: quelli che possano rendere possibile la transizione delle conoscenze a struttura preventiva (la conoscenza dominio specifico, priva di fertilità dei curricoli preformati) alla conoscenza a struttura enattiva (elaborata localmente sulla base dei bisogni degli alunni, accertati con test costruiti ad hoc) In quest’ultimo caso si realizzata una condizione fondamentale del paradigma enattivo. Si insiste: ogni conoscenza è azione e ogni azione è conoscenza, purché il tutto venga percettivamente guidato dall’etica implicata nelle finalità formative.
Da queste si muove il cominciamento assoluto husserliano, previa riduzione fenomenologica che può produrre <<nuovi fenomeni all’interno del dominio esperienziale, con uno schiudersi di molteplici possibilità>> (Varela, id., p.89).
Se questo è, si comprende come lo strumento cardine da costruire è quello di come superare le difficoltà a far condividere quelle che appaiono intuibili evidenze. Tali difficoltà sono simili a quelle che Varela esprime in merito alla comprensione e possibilità rivoluzionarie che possono emergere dalla riduzione fenomenologica, e cioè dall’interrogarsi se le prassi correnti abbiano ancora senso e se valga tentare di superare una struttura preventiva della conoscenza che nel proprio orizzonte non prevede insight e la felicità di un <<Ah, ecco!>> (Varela, id., pp. 75-78).
E’ bene, tuttavia, che resti il dubbio sulla chiarezza percepibile di quelle evidenze e che ciascuno valuti se quanto viene asserito si configuri anche come convincente. Purché lo si faccia però, e non finisca tutto nell’oceano delle indifferenziazioni.
Conclusioni
Una volta precisato che il concetto di formazione è riferito all’attività di istruzione ed educazione e all’effetto che queste attività determinano nella persona alunno, nel senso del suo essere nel mondo, è legittimo chiedersi quale sia l’evoluzione dei suoi gradi di consapevolezza di questo suo essere, nella libertà e nell’autonomia. Non porsi questa domanda e lasciare che le cose vadano nelle forme casuistiche e illiberali in cui vanno, per la dominanza delle prassi della struttura preventiva della conoscenza, significa dissipare le potenzialità della persona come individualità essenziale, nella sua unicità e profondità (cfr. De Monticelli 2006). Ma significa anche distruggere le risorse ambientali e artistiche del nostro pianeta, per gli effetti dell’agire inconsapevole o della consapevole azione di rapina. Per ridurre tali disastri, in corso di crescenti deflagrazioni, sarebbe sufficiente iniziare ad applicare il trattamento fenomenologico alle attuali prassi della struttura preventiva dominanti le prassi formative; ed eventualmente chiedersi quali siano le possibili altre alternative. Insieme a quest’azione, percettivamente guidata dai dati nuovamente emersi, chiedersi quali contributi possano essere attinti dagli esiti della “Scienza della coscienza”, preconizzata da Varela, e la cui evoluzione sta registrando progressi di ricerca a livelli esponenziali. Le pratiche di una struttura enattiva della conoscenza, assumendo le finalità etiche emerse dall’indagine di nuovo tipo, dopo aver analizzato la natura delle pre-comprensioni, possono consentire una selezione dei saperi che sia qualitativa e non quantitativa; possibilmente utilizzando le strategie dei dilemmi morali, per seguire i processi evolutivi personali. La condivisione teorica su queste dimensioni di problemi può essere facile. Il difficile è assumere il cominciamento in quell’analisi di nuovo tipo, da condurre sulle Indicazioni nazionali per il curricolo, sospendendo il giudizio sulle pratiche correnti. Solo se una comunità di ricercatori si porrà in avanscoperta di questi nuovi territori, sarà possibile bussare alle porte delle scuole per invitare i loro componenti a confronti interpretativi. Che una tale opera possa un giorno partire direttamente dalle scuole è per ora impresa a bassa probabilità. Troppo forte e pervasiva è la pedagogia asservita alla struttura preventiva. Quando si afferma che la crisi ormai irreversibile delle istituzioni formative italiane è tale perché è mancante una visione neurofenomenologica. Vale a dire che è mancante il valore dell’esperienza, dell’azione percettivamente guidata dall’etica e come questa, attraverso le ridescrizioni rappresentazionali (che può essere sintetizzata dall’uso dei dilemmi morali), possa favorire l’innalzamento delle conoscenze dominio specifico, che restano prive di potere formativo, al dominio centrale. E questo può avvenire in forza delle intensità sinaptiche generate dalla qualità emotiva e razionale della didattica. E’ da questi nessi che si va profilando un’ipotesi di didattica enattiva come avvio empirico ad una futura teoria dell’istruzione di derivazione vareliana.
Bibliografia
Aprile F. (1999), Contributo a una teoria dell’azione scolastica, in “Scuola & Città”,1, Firenze,
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COSCIENZA ALTA |
Conoscenza Dominio centrale |
Intervento didattico Mediante Ridescrizioni Rappresentazionali |
Conoscenza Dominio specifico |
Correlati neurali |
Da inserire
La sua esperienza descritta al punto 1 mi fa venire in mente un libro come “Un anno a Pietralata” di Bernardini, difficile da reperire. Vorrei chiederle se per caso ha mai letto questo testo, contenente una esperienza di lavoro didattica fatta in una borgata della periferia di Roma degli anni 70, in un ambiente sociale denso di fattori sociali negativi (ragazzini di 12 – 13 anni che si dedicavano al furto, famiglie disastrate, etc.etc.).
Vorrei dire a Claudio che la mia esperienza descritta nel punto 1 è – se ricordo bene- antecedente a quella a cui si riferisce. Non rammento di aver letto il libro “Un anno a Pietralata”, almeno non interamente. Confondendosi i ricordi con la preziosa realizzazione televisiva di quella storia con un ottimo attore, Cirino, che interpretava il ruolo del maestro. So, per certo, che il libro mi è passato tra le mani, consapevole che quel tipo di esperienza era abbastanza frequente in quel periodo. Quasi da apparire, per me, una litania per piangerci addosso. Mi spiego bene: erano così numerosi i tentativi di rispondere alla struttura preventiva e replicante e così reattive le risposte del potere scolastico che sembravamo generazioni votate al sacrificio. E non ci passava neanche per la testa prendere contatti , o riflettere, per creare una qualche sorta di reciproca difesa. Col senno di poi, devo ammettere –per quel che valgono e consentono i ricordi- che l’esperienza descritta da Bernardini era –alla luce dei punti 1-6 del mio articolo- una apprezzabile forma di didattica enattiva. Che significa –concretamente- non rifarsi al già saputo, ma partire daccapo davanti a situazioni nuove. Allora le decisioni erano prese per il sentimento di poter essere almeno utile a qualcuno, magari i più deboli; ma devo dire -sulla base dell’esperienza (Aprile 1991)- che i forti crescevano in perdita di arroganza e in acquisizioni di capacità di analisi che andavano nella profondità degli eventi. Sono grato a Claudio perché mi suggerisce di effettuare, quando mi sarà possibile, una ricognizione su quelle esperienze , come quella narrata da Bernardini, che hanno il carattere non solo rivoluzionario rispetto a quanto veniva messo in discussione, ma perché anticipavano prassi che solo teorie di alta e progredita scientificità come la neurofenomenologia possono consentire oggi. In comune resta –ora come allora- il farsi carico della funzione allopoietica come Maturana e Varela chiamano, per mezzo di Beer, l’azione di critica del già saputo e di costruzione di alternative, a cui corrisponde quasi sempre una reattività punitiva. O, nella migliore delle ipotesi, una fatica enorme a cui fa regolarmente seguito lo svuotamento del portato innovatore. Per concludere, magari solo provvisoriamente, mi corre l’obbligo di affermare che oggi occorre qualcosa in più di una buona disponibilità all’innovazione; occorre farsi carico della fatica di cercare, per capire, quale possa essere il punto d’attacco di prassi enattive in sede di lavoro scolastico e di svolgere un coerente cammino coerente con quelle premesse. Grazie a Claudio.
F. Aprile
Riferimenti bibliografici
Aprile F.(1991), Come realizzare gli obiettivi formativa, Roma, Skema.
Maturana H. e Varela F. (1988), Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio