Se mai la celebre definizione di Carlyle dell’economia come ‘scienza triste’ (dismal science) ha corso il rischio di passare di moda, questo periodo storico è esente da tale rischio. Ci sono molte ragioni per cui la scienza economica può essere giustamente detta dismal (triste, deprimente). Le ragioni più note sono legate al pacchiano ma influente modello antropologico che sta alle radici della microeconomia, il famoso Homo Oeconomicus. Ragioni meno note, ma non meno significative sono quelle legate ai reali effetti diseducativi che lo studio della scienza economica in quanto tale tende ad avere su chi la pratica. (A questo proposito può essere divertente ricordare un celebre esperimento di psicologia del comportamento svolto in un’università americana: soggetti dell’esperimento erano studenti di varie facoltà; il test era legato al presentarsi apparentemente occasionale di una situazione dove si poteva scegliere tra un’azione ‘altruista’ ed una egoista’, come restituire un portafoglio trovato a terra o intascarlo; ebbene, a partire dal secondo anno di studi, gli iscritti ad economia si trovavano in testa con distacco rispetto a tutti gli altri nell’adozione di strategie egoiste. – Erano stati attenti a lezione.)
Ma tutto questo è folclore introduttivo. Perché la vera tristezza della scienza economica contemporanea sta altrove, e precisamente nella sua capacità di essere vocale ed influente sempre solo quando si tratta di fare la faccia feroce con i più deboli, siano essi nazioni, ceti o individui. Già, perché invero la scienza economica, anche se intessuta inconsapevolmente di parecchia fuffa ideologica, fornirebbe anche saperi reali ed utili, saperi che possono persino essere adottati talora contro gli interessi dei ricchi e dei potenti.
Ma com’è, come non è, le voci che si odono perentorie quando si tratta di privatizzare la nonna e liberalizzare il lato B degli operai diviene sommesso mormorio per addetti ai lavori quando si tratta di toccare interessi di sostanza. (Sì, certo, eccezioni ci sono – vedi http://www.letteradeglieconomisti.it – ma esse non sono rappresentative del nerbo pubblico della professione.)
Ora, l’intenzione di chi scrive sarebbe quella di commentare alcune tesi economiche, ortodosse quanto spudorate che, anche di recente, sono risuonate nei pochi programmi rimasti dove non ci si occupa solo di cronaca nera e gnocca. (Ovviamente avrei preferito anch’io girare canale e godermi una nuova puntata delle imprese priapiche del nostro Benny Hill nazionale, ma fastidiosi residui di coscienza intellettuale mi hanno indotto a non girare canale). Essendoci bisogno di un certo spazio per commentare tali tesi, mi limiterò per intanto a prenderne in considerazione una sola, riservandomi di discutere le altre in occasioni successive.
La prima tesi in questione è stata esposta qualche giorno fa da quel noto luminare in incognito che risponde al nome di Antonio Martino. Si tratta niente di meno che la vecchia tesi cara a Ronald Reagan del trickle down, per cui l’arricchimento dei già ricchi ha un effetto benefico sull’intera economia, perché la ricchezza dall’alto ‘sgocciola’ sugli strati inferiori e tutti ne traggono beneficio. La tesi del trickle down è ovviamente la negazione diretta di qualsiasi tesi redistributiva, in quanto ci dice che se i ricchi ridono tutti sono quantomeno di buon umore.
Ora, questa è una di quelle tesi per cui la storia economica fornisce biblioteche di controesempi, ma se fossimo in una situazione economico-politica ordinaria e stessimo discutendo pigramente ad un convegno, questa sarebbe semplicemente una delle consuete corbellerie neoliberiste, di cui tacere è bello. Purtroppo però questa tesi viene sostenuta, e non solo da Martino e non solo in Italia, nel bel mezzo di una delle crisi economiche più gravi della storia (e che potrebbe diventare la più grave di sempre). E quel che è peggio è che, se proprio si dovesse nominare un’idea singola come colpevole della situazione in cui siamo, l’idea del trickle down sarebbe il candidato di gran lunga migliore. Perché? Provo a riassumere (in modo necessariamente semplificato ed assertorio, e me ne scuso) ciò che è successo e sta ancora succedendo nell’economia mondiale degli ultimi anni.
A partire dal 1972 negli USA e dal 1989 in Europa abbiamo assistito ad una riduzione progressiva di tutte quelle politiche redistributive che gli Stati avevano derivato dalla lezione del ’29 (e dall’uscita dalla IIa Guerra Mondiale). Il ridursi delle politiche redistributive ha consentito negli ultimi vent’anni una polarizzazione economica che un tempo veniva con disprezzo chiamata ‘brasiliana’: 5-10 per cento di persone ricche o ricchissime a fronte di un abbassamento progressivo e talora molto marcato dello standard di vita della ‘classe media’. Questa tendenza ha avuto, innanzitutto negli Stati Uniti e poi anche in Europa, un ovvio effetto generale: si è creata un’enorme capitalizzazione da parte di (relativamente) pochi privati, un colossale capitale fluttuante che vagava alla ricerca di opportunità di investimento. Ora, per quanto nei manuali di Macroeconomia si insegni a trattare risparmio ed investimento come se fossero una dimensione unitaria (S & I, Savings & Investments), il risparmio è investimento solo quando può essere impiegato in un’attività produttiva che dà rendimento positivo. Ergo, in presenza di una grande massa di capitale ad un capo dell’economia (finanza) c’è bisogno che all’altro capo ci sia una grande attività produttiva capace di impiegare utilmente questa disponibilità di liquidità. Gli ultimi vent’anni hanno visto una crescita progressiva di questo fenomeno, con enormi masse di capitale alla disperata ricerca di una promessa di rendita. Il fenomeno dei mutui subprime negli USA non è comprensibile se non in questa cornice, che precede e consente le politiche espansive adottate dopo il 2001 dalla Federal Reserve: in soldoni, c’è parecchia gente molto molto ricca, che per avere una garanzia futura nella preservazione del proprio standard di vita ha bisogno di preservarne un’ampia fetta dal consumo immediato, ma non vuole neanche tenerseli sotto il materasso (sarebbero erosi dall’inflazione); questi perciò premono sui propri gestori patrimoniali perché trovino sbocchi dove farli fruttare.
Ma ovviamente un’attività produttiva dà un rendimento se può vendere il prodotto. E perché si possa vendere c’è bisogno di qualcuno che compri. E per comprare bisogna avere sufficienti margini per farlo. Ora, cosa accade quando c’è una forte polarizzazione nella distribuzione di capitale? Accade qualcosa di ovvio e ben noto: si ha una crisi di sovrapproduzione (o meglio, di sottoconsumo). E perché accade ciò? Ma per una ragione nota, oso pensare, persino ad Antonio Martino. Perché in rapporto al proprio reddito i più ricchi ne consumano una percentuale inferiore rispetto ai meno abbienti. Ci sono molte ragioni e condizioni ulteriori che si dovrebbero produrre per mostrare come questa tendenza non sia occasionale, ma fatale; ma qui basti notare come si tratta di una tendenza al tempo stesso facilmente comprensibile ed empiricamente registrata con puntualità (se ci sono economisti in ascolto, mi risparmino ridicole tirate sulla conspicuous consumption dei mecenati). Ora, se qualcuno desidera mettersi con carta e penna a fare due conti, potrà notare come, sotto queste premesse, quanto maggiore è la forbice tra una minoranza di ricchi ed una maggioranza di (sempre) meno abbienti, tanto minore risulta essere la disponibilità di danaro totale rivolta al consumo. (Si salva tipicamente, fino ad un certo punto, il circoscritto settore dei beni di lusso).
Ora, però, fino a quando ciò accade in un paese solo o in pochi paesi, esiste sempre la possibilità di vendere i propri prodotti sui mercati esteri. Questo è ciò che rappresenta il sogno mostruosamente proibito del Capitalista versione Georg Grosz: poter comprimere arbitrariamente i costi di produzione all’interno (salari innanzitutto), potendo contare sull’acquisto delle proprie merci all’estero. In questo caso anche se la forbice è amplissima la domanda continua ad essere vitale. Malauguratamente, questo giochino che permette di avere la botte piena e la moglie ubriaca funziona finché a fronte di un Brasile anni ’80 che fa questo gioco, ci stanno America, Europa e Giappone che acquistano le sue merci. Quando però a nutrire queste condizioni di disparità interne sono i pesci più grossi dell’economia mondiale, allora il problema è serio.
La situazione presente è dunque questa: il tentativo di mantenere artificialmente viva la domanda mondiale pur in presenza di una sempre più ridotta disponibilità di danaro rivolto al consumo ha prodotto bolle speculative ed indebitamento. Questo di solito viene tradotto dagli economisti accreditati con l’espressione moraleggiante “Abbiamo (avete) vissuto al di sopra delle nostre (vostre) possibilità”, espressione che di fatto nomina cose come: pretendere irragionevolmente di avere un tetto sulla testa pur essendo solo dei salariati medi. Ne è seguito che i maggiori protagonisti dell’economia mondiale, dagli Stati Uniti al Giappone, passando per l’Europa (Cina esclusa, che però tiene artificialmente basso il proprio potere d’acquisto svalutando la moneta), si sono ritrovati sommersi dai debiti, parte pregressi e parte dovuti a salvataggi pubblici di banche private troppo grandi per fallire. Per far fronte a questi debiti gli Stati devono comprimere le spese interne e/o aumentare le tasse: entrambe le cose riducono la disponibilità di danaro volto al consumo e agli investimenti. Siccome ciò accade nella maggior parte dei paesi, non è possibile accedere in modo adeguato a mercati esteri. Dunque si riducono i consumi, di conseguenza cala la produzione e perciò cala anche la base imponibile (meno introiti da tasse). Questa spirale produce stagnazione e nel peggiore dei casi default statali.
Ora, qualcuno si potrebbe impudentemente chiedere: se tutti sono indebitati, chi sono i creditori? Si tratta di perfidi extraterrestri? I Klingon sono tra noi? Rammento sommessamente che l’ultima volta che l’opinione pubblica si è posta domande del genere, nella Germania del 1930-1933, la risposta ha portato non a dichiarare guerra ai Klingon, ma a sterminare sei milioni di Ebrei. Ma oggi, come allora, la risposta è semplice anche se scarsamente spendibile sul piano politico: gli Stati sono indebitati con gli stessi privati benestanti cui gli Stati hanno permesso di arricchirsi indefinitamente (perché tanto poi c’è il trickle down: vuoi che non caschi qualche osso di pollo dalla tavola?). E siccome, poi, nei governi degli Stati la rappresentanza di quelli che sono nella posizione di lasciar cadere gli avanzi sotto la tavola è di solito robusta, tendenzialmente decisiva, il cerchio si chiude e a difesa delle gated communities dei VIP si liberano dalle gabbie gli economisti alla Martino, pronti a giurare che più i ricchi ridono e più siamo tutti allegri. (E se poi si arriva malauguratamente ad un default, checce frega, noi previdenti formichine che non vivono al di sopra dei propri mezzi c’abbiamo il conto in Svizzera).
Dio non voglia che la maggioranza di beoti che lavorano per vivere prenda mai consapevolezza di quello che sta succedendo. C’è da temere che le pulsioni a ripristinare le funzionalità della filantropica invenzione di Monsieur Guillotin sarebbero irresistibili. Ma in attesa che ciò accada, forse si potrebbe tentar di metter mano, in tempi celeri e possibilmente in modo coordinato tra più paesi, ad un intenso e strutturale intervento redistributivo, a partire da un meditato, ma rigoroso intervento una tantum. (Se poi non la si vuole chiamare patrimoniale, perché ciò ferisce le sensibili orecchie dell’evasore medio, propongo di chiamarla Pippo, che fa tanta simpatia). In alternativa, consiglio l’acquisto di forconi per tempo, prima che la domanda faccia salire i prezzi.
Di economia me ne intendo poco. Forse per questo da sempre leggo quanto sui giornali ne scrivono gli economisti. Il ventaglio è ampio, come è giusto. Rimango perplesso, però, quando ho l’impressione si mimetizzino sistematicamente tra alcune considerazioni di carattere tecnico e scientifico, innumerevoli altre d’ordine psicologico, sociologico, morale, politico, per non dire squisitamente ideologico, con disinvoltura (ovvero acriticamente o peggio: inconsapevolmente).
Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sono, da questo punto di vista, i miei preferiti.
Il loro ultimo articolo sulla crisi italiana, pubblicato sul Corriere della sera il 19 settembre scorso, muove da questa domanda:
« (…) perché i mercati sono tanto preoccupati per il nostro Paese (…) », nonostante nel 2012 la Francia paia destinata da avere un disavanzo pari al 2,4% del prodotto interno lordo, e l’Italia un avanzo del 2%?
« (…) Una risposta è che il debito italiano è molto più elevato di quello francese: 120% del Pil, contro 85 in Francia. Ma è una risposta solo in parte convincente. Quando un Paese ha accumulato molto debito non può ridurlo in pochi anni. Nessuno chiede all’Italia di fare miracoli: l’importante è che anno dopo anno il livello del debito scenda, e che la riduzione non si interrompa. Ciò che conta non è il debito in sé, ma il rapporto fra il debito pubblico e il Pil. Anche se il debito rimane stabile, ma l’economia non cresce, il rapporto aumenta: la crescita (al denominatore) è importante quanto i conti pubblici (al numeratore). È la nostra incapacità di crescere e di attuare politiche che favoriscano la crescita ciò che davvero preoccupa le agenzie di rating e gli investitori. La storia dà loro ragione. (…) ».
Fin qui, poco da eccepire, almeno in prima istanza: i numeri sono numeri. E per fortuna gli economisti sui giornali ce lo ricordano.
Proseguendo la lettura, però, si arriva a questa tesi; e ci si arriva senza neppure chiarire (bene e prima!) se ci s’intenda riferire a una patrimoniale secca (una tantum) o ordinaria (strutturale):
« (…) Molti oggi auspicano un’altra tassa, la patrimoniale: sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un’imposta inutile, nella peggiore fatale. (…) Se l’Italia riprendesse a crescere il rapporto debito-Pil comincerebbe a scendere, anche senza patrimoniale. Questo è ciò che si chiede all’Italia, non di dimezzare il debito di colpo. Una patrimoniale che riducesse il debito anche al 100% del Pil sarebbe totalmente inutile se non cambiasse il ritmo di crescita dell’economia. Ma una patrimoniale sarebbe esiziale per la crescita perché diffonderebbe la falsa impressione che le riforme non sono poi tanto urgenti. È proprio ciò che spera chi le riforme non le vuole perché metterebbero a rischio i propri piccoli e grandi privilegi. È questo il motivo per cui anche la Confindustria sta convertendosi alla patrimoniale? (…) ».
Ora, su quale esoterica scienza economica si fonderebbe la previsione in base alla quale una patrimoniale sempre e comunque «diffonderebbe la falsa impressione che le riforme non sono poi tanto urgenti»?
Giavazzi ed Alesina sono talmente intenti ad abbaiare contro i Cosacchi a San Pietro che non riescono neache per un attimo a far posto all’idea che parte del danaro recuperato con un intervento patrimoniale potrebbe eesere utilizzato per tagliare le tasse sul lavoro salariato, producendo, con un intervento redistributivo mirato, esattamente quella spinta alla crescita che loro vagheggiano come se dipendesse dagli astri.
Sulla questione, può essere interessante leggere anche questo articolo di Guido Rossi, pubblicato su Il Sole 24 ore il 25 settembre: Se la finanza troppo avida calpesta i diritti umani.
Comunque la si pensi sulla performance (si fa per dire) di questa compagine di governo in politica economica, questa lettera a firma Jean-Claude Trichet e Mario Draghi fa impressione. È un commissariamento. Ma anche un vero e proprio manifesto politico. E dietro il paravento tecnico della Bce, rivela quanto unico sia ormai il pensiero economico globale dominante.
La richiesta dell’UE per bocca di Jean Claude Juncker al governo greco di abolire i minimi salariali del settore privato può essere valutato in due modi.
Moralmente è un atto politico vigliacco, che non può non mettere un governo con le spalle al muro: sospetto che, se c’è una ratio dietro ad esso, non possa essere che l’intenzione di creare una scusa per bloccare l’erogazione ulteriore di prestiti.
Economicamente è un atto che sancisce in modo definitivo, se ce ne fosse ancora stato bisogno, l’incapacità manifesta di chi muove la politica economica europea. La ratio economica tipica per l’abolizione del salario minimo è quella di consentire una flessibilizzazione del salario verso il basso in modo che, in una crisi, si possa ridurre indefinitamente il costo del monte salari, fino al punto in cui i beni prodotti hanno di nuovo prezzi appetibili. Questa è una paginetta di manuale di economia. Calata nella realtà greca questa è un’idiozia sadica. Infatti:
1) in Grecia la produzione industriale (prevalentemente agricola) rivolta all’esportazione e dunque soggetta ad un abbassamento dei costi di produzione è una parte esigua del PIL a fronte del mercato interno e del settore turistico estivo;
2) I salari minimi greci sono sanciti per legge ad un livello talmente basso da non consentire già ora la sopravvivenza di chi volesse affidarvisi, dunque non sono sensatamente comprimibili;
3) Per ottenere un abbassamento dei costi di produzione sensibile in una cornice di flessibilità di mercato bisognerebbe ci fosse anche l’opzione di svalutare la moneta, che però in tale caso è operazione impossibile perché il paese non ha sovranità sulla sua moneta;
4) L’abolizione del salario minimo è da sempre una tipica battaglia ideologica neoliberista e chiunque conosca la realtà sociale greca sa che il suo valore simbolico è tale da creare nulli effetti economici, ma gravi disordini sociali.
A fronte di una risoluzione così stupida, visto che all’UE non manca certo l’expertise per capire che tale atto è controproducente, ci si può chiedere perché si è arrivati a tanto. Una risposta può essere quella tentata sopra: vogliono creare un casus belli per giustificare un blocco degli stanziamenti. Una seconda risposta possibile è quella classica: tale richiesta non è fatta per portare benefici all’economia reale, ma per ‘tranquillizzare i mercati’ come si dice. Ed i mercati, è noto da lungo tempo, sono tranquillizzati sempre soltanto da politiche che fanno la faccia feroce con i più deboli, perché sono quelle che garantiscono nel breve termine (l’unico che interessa davvero ai mercati) un mantenimento od una crescita del capitale fluttuante disponibile. I mercati, si dice giustamente, non sono né buoni né cattivi, non hanno motivazioni malvage nei confronti di nessuno. Questo sembra lasciare implicitamente spazio all’idea che i mercati sono equanimi ed obiettivi. Purtroppo però c’è un ulteriore opzione: i mercati sono INFINITAMENTE STUPIDI, perché rappresentano la media dei giudizi di una immensa pluralità di operatori individuali che devono prendere decisioni di acquisto o vendita sulla base di informazioni gestibili nell’arco di pochi minuti o più spesso di pochi secondi. Di fatto, e questa è una tragedia del nostro tempo con cui è irresponsabile non fare i conti, tutte le politiche democratiche mondiali sono da tempo ostaggio di una mandria dispersa di operatori che non hanno né la POSSIBILITA’ né l’INTERESSE a prendere decisioni intelligenti.