di Roberta De Monticelli
in “il Fatto Quotidiano” del 23 agosto 2011
Dalla Val di Susa alla Sicilia, dall’Altopiano a Pantelleria, dalle isole toscane al Salento il paesaggio naturale e il paesaggio storico della penisola sono sottoposti a dissipazioni, cementificazioni e sconvolgimenti artificiali che non solo hanno aumentato la loro scala e intensità negli ultimi vent’anni in modo esponenziale, ma vedono proprio ora un’accelerazione improvvisa, a dispetto di ogni crisi, come se ci fosse nell’aria un presagio di diluvio incombente e un’esplosione come di furia rabbiosa, una sinistra pulsione a rapinare tutto quello che si può, finché si è in tempo. Ho accennato a disastri di genere diverso: c’è l’opera di Stato, difesa dall’esercito contro la popolazione locale, senza che un solo argomento ragionevole, in mesi e mesi di polemica, sia stato avanzato dai suoi sostenitori bipartisan (e nonostante libri interi di argomenti contrari e relative cifre, economiche e gestionali oltre che ecologiche, siano inutilmente a disposizione del pubblico); ma ci sono anche le rapine multinazionali di quelli che vanno a trivellare a un costo ridicolo il Mediterraneo sotto Lampedusa, alla ricerca del petrolio, con i rischi enormi denunciati recentemente da Luca Zingaretti su Repubblica. CI SONO gli scempi dei litorali, beni pubblici per eccellenza regalati dai comuni e dalle regioni ai privati e alle mafie, alcuni dei quali, ad esempio in Toscana, denunciati a più riprese da Salvatore Settis sulla stampa nazionale, come molti altri dalla Liguria alla Calabria lo sono quotidianamente da Ferruccio Sansa su questo giornale. In Toscana del resto Altiero Matteoli dopo aver imposto, a prescindere dal tracciato successivo ancora da decidere, l’enorme cantiere del pezzetto dell’autostrada “Spaccamaremma” che sta sotto casa sua (a Cecina), si avvia nel silenzio generale a metter le mani dei lottizzatori su quel gioiello del Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano che era l’isola di Capraia. Nel Lazio è appena stata approvata una normativa che permetterà di costruire trentacinque cosiddetti porti turistici nell’arco di un centinaio di chilometri, come fossero distributori di sigarette.
MA LE MIGLIAIA e migliaia di stupri consumati in ogni angolo del Belpaese resteranno probabilmente ignoti ai più, come quello, criminoso, che prevede un immenso parcheggio dove erano solo erba e silenzio d’alta quota, in quel paesaggio di Marcesine di cui Meneghello scriveva – ne I piccoli maestri – che “Le forme vere della natura sono forme della coscienza”. “La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni (…). Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa hanno preso le armi”. Così scriveva Albert Camus nei suoi Saggi letterari. È un tema profondo della riflessione di Camus, che viene dal suo studio della tradizione neoplatonica e dal suo amore per Simone Weil. Ma oggi la realtà fa riemergere l’idea di bellezza con la prepotente attualità delle catastrofi. Oggi e qui, in Italia, si sta consumando il più gigantesco crimine contro le anime che la nostra storia – tutta intera – ricordi. La distruzione della bellezza è un crimine senza pari, un crimine di cui in troppi siamo complici: con questa tesi, che ora cercherò di illustrare, vorrei rilanciare la riflessione aperta dal mirabile articolo di Roberto Gramiccia, “Bellezza e rivoluzione: il mondo ha bisogno di entrambe” (Liberazione, 24/07/11). Oltre a Camus, Gramiccia cita James Hillmann, che in due opere recentemente tradotte, La politica della bellezza e La risposta estetica come azione politica, coglie a distanza di sessant’anni la stessa idea – il nesso fra bellezza e rivoluzione, postulato da entrambi. “La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei” scriveva Camus. Gli fa eco Hillmann: “Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione”. Eppure quando si parla di rivoluzione non si centra a mio avviso il cuore della tragedia che stiamo vivendo, che è anche la ragione per affermare che viene commesso un crimine senza pari, o forse paragonabile a quello degli istigatori di quegli spaventosi suicidi di massa cui la storia dell’Occidente ha assistito al tempo delle rapine coloniali. La distruzione della bellezza è come un suicidio di massa delle nostre anime. E i morti non fanno una rivoluzione: né politica, né tanto meno interiore. La rivoluzione cui ci invitava Camus è un’interiore rinnovata guerra di Troia, per liberare la bellezza – Elena che ne è simbolo. “Il viso amato, la bellezza insomma, è questo il terreno su cui ci ricongiungeremo ai Greci… Ammettere l’ignoranza, rifiutare il fanatismo, porre limiti al mondo e all’uomo”. Guai a leggere in questa metafora un atteggiamento estetizzante. C’è veramente il cuore del pensiero greco, invece: la bellezza, cioè l’ordine del cosmo, è la forma visibile della giustizia. CAMUS ci chiedeva di non relegare la giustizia nelle mani degli ideologi, o anche soltanto dei filosofi politici, per non parlare dei politici di mestiere, dei capipartito o dei sindacalisti. Tutte queste persone vedono solo alcuni aspetti della giustizia. Non ne vedono il fondo, cioè il valore che la giustizia è, come esatta misura del dovuto a ogni essere: il rispetto agli umani, il respiro ai viventi, la pietà alla memoria dei padri e alla loro eredità, la custodia ai beni comuni, la difesa ai paesaggi storici, che sono il nostro stesso volto, la nostra identità culturale e spirituale. “Quando la giustizia perisce, non ha più alcun valore l’esistenza degli uomini sulla terra” – scriveva Kant. Ma la bellezza è lo splendore di ciò che è prezioso, è l’essenza del valore che si fa visibile. Ecco: come possiamo sentire, percepire che la nostra esistenza non ha più valore se abbiamo ucciso in noi il sentimento della bellezza, se non soffriamo più di fronte alla sua distruzione? Per questo quella cui stiamo assistendo è la tragedia del suicidio morale di una nazione. Per questo tutti gli istigatori di questo suicidio stanno commettendo un crimine senza pari.
“La distruzione della bellezza è come un suicidio di massa delle nostre anime” scrive Roberta, mettendo in guardia dal giudicare questo un atteggiamento estetizzante. Ecco come hanno risposto i sindaci dell’Altopiano di Asiago a chi criticava la furia cementificatrice che si sta abbattendo sui paesaggi cari a Rigoni Stern e a Meneghello: “Voi cittadini (le solite anime belle…) volete lasciarci vivere come cent’anni fa, per godere egoisticamente delle nostre bellezze”.
L’incapacità di pensare “veramente” impedisce loro di capire che è proprio il benessere ANCHE materiale che la bellezza del paesaggio può garantire, oggi e in futuro ai loro figli. Almeno ciò dovrebbe renderli custodi attenti, se non amorevoli, del patrimonio naturale e storico ricevuto.
In uno dei film che più ho amato: I CENTO PASSI (1998), molto più di una semplice seppur classica storia di mafia, sono quasi profeticamente indicati aspetti e nessi che Roberta illumina nel suo articolo: l’ingiustizia va di pari passo con l’avidità, la bruttezza, l’infelicità. La salvezza non può scaturire che dal Giusto e dal Bello.
C’è una scena da cui partire, piuttosto isolata dal resto del film, ma significativamente posta circa alla metà della narrazione. Si vede Peppino Impastato (la mafia lo farà saltare in aria di lì a poco) seduto su un pianoro, dall’alto del quale osserva lo scempio ambientale che si sta consumando ai suoi piedi per la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi. Parla a se stesso, anche se in apparenza si rivolge all’amico seduto accanto a lui. Sembra patire insieme di solitudine e nostalgia. Nostalgia di una bellezza che è stata brutalmente violata. Dice: “Non ci vuole niente a distruggere la bellezza…Bisognerebbe ricordare alla gente che cos’è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. E’ importante la bellezza! Bisognerebbe RIPARTIRE DALLA BELLEZZA”.
Mi è stato facile pensare a Platone, in particolare nella lettura che ne dà Simone Weil, che dal canto suo scrive:
“Il criterio che permette di riconoscere che in qualche luogo i bisogni degli esseri umani sono soddisfatti è una fioritura di fraternità, di gioia, di bellezza, di felicità. Dove esistono ripiegamenti su di sé, tristezza, bruttezza, vi sono delle privazioni da guarire”.
Il pezzo di Roberta ci costringe a guardare l’abisso in cui stiamo per cadere se ignoreremo come “l’ordine del cosmo sia la forma visibile della giustizia”.
cito : ” “Voi cittadini (le solite anime belle…) volete lasciarci vivere come cent’anni fa, per godere egoisticamente delle nostre bellezze”.
Bisognerebbe accertare se simili cementificazioni tengano conto o meno di vincoli ambientali e se questi sindaci siano invischiati o meno a livello economico,in una sola parola,a certi sindaci che prendono in giro la popolazione si può rispondere solo ponendo questioni di legalità,di vincoli ambientali,insomma,cercando di mettere alla berlina chi calpesta volutamente i beni collettivi
TAV a parte, sono completamente d’accordo con le drammatiche considerazioni della Prof. De Monticelli sulla distruzione sistematica della bellezza messa in atto negli ultimi 20 (ma anche 40-50) anni in Italia. Concordo anche pienamente sull’equivalenza tra bellezza e valore poiché appunto “la bellezza è lo splendore di ciò che è prezioso, è l’essenza del valore che si fa visibile”.
Per deformazione professionale psichiatrica, mi trovo però meno d’accordo sul termine di suicidio, sia pure morale. Il suicidio presuppone un atto di volontà, più o meno riflettuto od impulsivo. Qui ci troviamo piuttosto di fronte ad una tendenza autodistruttiva che mi ricorda più l’etilista o ancor di più il cocainomane. Anch’egli pensa di aver trovato con la cocaina la scorciatoia per una grandezza, che si rivela solo illusoria, mentre del tutto reale è la distruzione che egli perlopiù inconsciamente si infligge, sulla scorta di una profonda autosvalutazione di sè stesso. A parte i delinquenti ed i corrotti, che pure non mancano, mi sembra che nella disruzione della bellezza – ma anche della cultura – italica, svolga un ruolo determinante proprio l’autosvalutazione – che si esprime in forma di negativismo, indifferenza, trascuratezza, sarcasmo etc – cui segue conseguentemente l’autodistruzione. La droga, nello scempio ambientale, è il denaro, che si pensa essere la scorciatoia, oltre che per il tornaconto personale, anche per l’illusorio benessere della popolazione, senza rendersi conto che viene intaccata l’anima stessa della nostra nazione e di tutti noi. Io vedo questo pertanto questo processo come una sorta di dipendenza – che è certo un suicidio dilazionato – la quale a sua volta rinvia alla scarsa identità nazionale. Dietro quella retorica ed altisonante di facciata, vi sono la diffidenza, il sospetto ad oltranza, la faziosità, il particolarismo, l’incapacità di riconoscersi in valori e opere comuni; in definitiva una scarsissima autostima nazionale che prende le forme divertentemente tragiche del sarcasmo e/o di un negativismo così distruttivo, da voler spazzar via ogni entusiasmo giovanile. In questo crimine contro la bellezza ci sono sicuramente, per rimanere in metafora, gli spacciatori, ma anche tutti noi, come rileva anche la Prof.ssa, rischiamo di essere in qualche modo complici o collusi. Forse però proprio da questa consapevolezza non manichea può nascere un’efficace forma di resistenza.
Grazie a Giuliano Castigliengo per questo illuminante commento sul suicidio morale e l’autosvalutazione nazionale: che mi stupisce perché, dopo il pezzo, avevo sviluppato questa idea dell’autosvalutazione in un convegno ad Assisi, dal quale è poi partita la lettera aperta-appello al Presidente della Repubblica, che è ora sul sito
http://ospitassisi.cittadella.org
dove si può aderire con la propria firma, e che si può diffondere!
Grazie, saranno le convergenze parallele dell’inconscio… cui si apparenta anche questo passo da “Fuoco su Napoli” (pag. 110) di R. Cappuccio:
“Davanti agli occhi Portici, la città che si disse era il giardino di Napoli, adesso esibiva finestre murate che gridavano ancora la grazia di un Settecento dai sorrisi spenti. E fra i secoli, come una bestemmia, i falansteri degli anni cinquanta, sessanta, settanta; tristezze di tapparelle, alberghi dell’infelicità condominiale. Sulla destra il palazzo del Lido Dorato, un cortile con colonne e il giardino stuprato da un parco di villette per buone famiglie. Più avanti, il palazzo del principe di Bagnara nel rossastro della facciata che sembrava implorare il bacio di altri tramonti. La piazza di San Ciro. La via dell’Universitä, il Palazzo Reale, con la cappella dove un giorno si esibì Mozart bambino. Villa Maltese nel lattecaffè della facciata gentile. L’ingresso agli scavi di Ercolano, Villa Aprile, Villa Campolieto, la chiesetta di Santa Maria del Pilar, Villa Materazzi.
Tutto questo, pensava Luce, un tempo si chiamava Miglio d’Oro. Ci siamo giocati ogni cosa. Tra quello che crollava, tra quello che periva e quello che era ancora in piedi le sembrò di attraversare il lungo viale di un cimitero dove, che fossero ben tenute o squassate, le pietre erano lapidi, tombe.”