Gentile Roberta De Monticelli,
leggo con condivisione totale il suo bell’articolo già uscito sul “Il Fatto quotidiano” di Domenica 10 Luglio. Per confermarle la piena sintonia di “comune sentire” le mando l’articolo che ho scritto sul quotidiano locale di sui sono collaboratore. E, ci tengo a sottolineare, uscì prima dell’ottima iniziativa del “Fatto”. Io ero un dirigente del Pci di quegli anni e ricordo bene l’isolamento di Berlinguer dentro il suo partito: fummo in pochi a sostenerlo. Fra l’altro, sulla scia di quell’intervista, io ed un piccolo gruppo di dirigenti locali Pci, denunciammo uno scandalo di una forte cooperativa rossa ferrarese: perdemmo la battaglia e fummo costretti ad uscire dal partito.
Mi permetto un’ultima osservazione di carattere storico-politico-culturale: il Berlinguer della “questione morale” si sporge fuori dalla tradizione del Pci e si trova più in sintonia con la cultura minoritaria di un certo liberalismo radicale e dell’azionismo: Gobetti, Carlo Rosselli, Calamandrei, A. G. Garrone ecc. E qui c’ è una spiegazione non solo “opportunistica” sul suo isolamento dentro il Pci.
Fiorenzo Baratelli
Berlinguer e i silenzi della politica
Fiorenzo Baratelli
(Apparso su “La Nuova Ferrara” 3 luglio 2011)
Luglio 1981: intervista di Eugenio Scalfari ad Enrico Berlinguer sulla questione morale. Ecco alcuni passaggi. “I partiti non fanno più politica, hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia. I partiti di oggi sono macchine di potere e di clientela: scarsa conoscenza della vita e dei problemi della società; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Non sono più organizzazioni che promuovono iniziativa e maturazione civile: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. I partiti hanno occupato tutto: gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali. Insomma tutto è lottizzato e spartito. Gran parte degli italiani è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più.” Conclusione: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei corrotti, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale nell’Italia d’oggi fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato. Ecco perché dico che è il centro del problema italiano.” Sono passati trent’anni! Nessuno raccolse quella sfida e Berlinguer fu inascoltato e isolato anche dentro il suo partito. Le etichette si sprecarono: moralismo, fondamentalismo, settarismo. Cosa è accaduto da allora ad oggi è sotto gli occhi di tutti! Anche nella Federazione del Pci di Ferrara ricordo l’ostilità della sua dirigenza nei confronti di quella denuncia. Non poteva essere diversamente: si apriva il decennio che avrebbe visto la scalata di un presidente di cooperativa, Giovanni Donigaglia, giungere al punto di avere il potere di decidere la scelta dei sindaci nella provincia di Ferrara. Ancora oggi quegli anni sono tabù. La conferma è fornita dal processo in corso: il convitato di pietra è il silenzio della politica. Nessuno parla delle responsabilità della crescita anomala di quel mostruoso soggetto cooperativo che travolse ogni principio di rispetto delle autonomie politiche e istituzionali, dei diritti sindacali dei lavoratori e della fiducia accordata da intere famiglie di soci. Anche questa era questione morale! Un’argomentata intervista di Paolo Mandini, sulla “politica che non poteva non sapere”, cadde nel vuoto; ci fu solo un isolato riconoscimento dell’ex segretario Roberto Montanari verso un gruppo di dirigenti che denunciò inascoltato quella degenerazione e poi uscì dal partito. Ancora oggi gli interventi del professor Viviano Toti, autorevole iscritto del Pd di Argenta, sono arrogantemente ignorati da Andrea Giacomoni (segretario comunale Pd) e dall’ex presidente della Lega Egidio Checcoli. Non è giusto che quella pagina nera venga archiviata senza una riflessione pubblica; ed è un dovere dei protagonisti politici di quel tempo rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Per questo, come Istituto Gramsci, prepareremo in autunno un momento seminariale a trent’anni dall’intervista di Enrico Berlinguer.
L’intervento di Baratelli chiarisce molto concretamente, dal di dentro, il problema. Ci fu un momento, prima ancora del crollo del muro di Berlino, in cui lo slancio ideologico nei maggiori partiti italiani venne meno — certo senza rimpianti, sia chiaro: nel bene e nel male, perché non vanno certo dimenticati gli elementi negativi — e venne sostituito da una logica dell’affarismo e dell’occupazione dello stato. In questa situazione gli amministratori locali presero il sopravvento sulla nomenclatura ideologica dei partiti. Berlinguer a mio avviso, sia con il concetto di austerità sia con quello di “questione morale”, non era ricaduto in un anacronistico moralismo minoritario, ma si era reso conto che la politica non può essere ridotta al mito pragmatico della “buona amministrazione emiliana”. Cercava una terza via fra ideologia della nomenclatura e autonomia della politica da tutti i valori. Invece nella cultura progressista negli anni Ottanta s’impose la tesi di una autonomia della politica coniugata a una repulsione nei confronti del concetto stesso di valore (nel senso di Schmitt nella “tirannia dei valori”). O nel migliore dei casi una visione “cinica” della politica, per cui se osavi porre una connessione fra politica e questione morale venivi automaticamente guardato con un lieve sorriso di compassione. Il tragico è che non solo queste culture vennero poi interpretate dall’amministratore locale come semaforo verde per l’affarismo (prima alla Greganti in favore del partito e poi oggi nel senso degli amministratori che, imitando quelli di Parma, si mettono “direttamente in tasca” i rotoli di banconote). La beffa tragica è che tale strategia politica “disincantata” si è dimostrata pragmaticamente inefficace e fallimentare su tutta la linea. Ha fallito sul suo stesso terreno, incontrando dall’altra parte uno che era ancora più furbo e spregiudicatamente postmoderno.
È questa la ragione (mi riferisco alla conclusione del commento di Guido Cusinato) per la quale il massimo bene che possiamo fare, io credo, ai partiti dell’opposizione e in particolare a quello maggiore, è quello che si è fatto a Milano: che cioè la società civile esprima non solo spezzoni di programma per un riscatt o della nazione, come sta facendo, ma una figura anche simbolica, di persona che sia: animata da ideali di giustizia e libertà ma anche dotata di conoscenza profonda della teoria e della pratica politica; non pregiudizialmente ostile ai partiti esistenti purché capaci di vero rinnovamento e vere primarie; che goda di una stima inalterabile, come era il caso di Pisapia a Milano; che abbia come massima e palese, già dimostrata, virtù la capacità di ascoltare chi conosce la questioni e quella di scegliere chi ha competenze ad affrontarle; infine, che abbia un piccolo di più simbolico, che assomigli cioè per qualche verso alle caratteristiche migliori dei movimenti di società civile: giovinezza relativa, femminilità, creatività….
È una specie di gioco, forse serio. Chi potrebbe soddisfare tutte queste condizioni? Ce ne sono altre da aggiungere? Io qualche idea ce l’avrei, ma sarebbe bello se ne venissero molte.
Pisapia, appena eletto, ha subito disatteso alcune sue “promesse”, ne parlava un suo attento osservatore sul forum Uaar. Personalmente ritengo che manchi completamente la volontà politica di risolvere la cosiddetta questione morale, se qualcuno ci prova (come Berlinguer oppure come qualcuno dei giorni nostri, tipo Flores D’Arcais), o viene ignorato, oppure snobbato.