Che tuffo al cuore, quelle parole di Giovanni Berlinguer sulla questione morale, che questo giornale ha tanto opportunamente ripubblicato in questi giorni. Già allora avevano suscitato alcune aspre reazioni proprio in quella sinistra di cui Berlinguer è stato l’ultimo grande leader, voci che si levarono dal cuore del suo stesso partito. Da allora, è curioso, tutto è cambiato fuorché il genere di argomenti, anzi per essere onesti di non-argomenti, che i critici del “moralismo” accampano contro ogni rinnovata denuncia della questione morale. E non parlo di quei “servi liberi” che hanno inventato per la parola “moralismo” un paio almeno di nuove accezioni negative, oltre a quella corrente di atteggiamento ipocrita, caratteristico di chi predica bene per razzolare male. Non parlo dei vessilliferi delle mutande, che hanno inventato addirittura una versione omertosa del vangelo, dove “chi è senza peccato scagli la prima pietra” vuol dire “se faccio schifo io fai schifo anche tu, e allora sta’ zitto perché non ti conviene”, o che hanno sostituito nella loro mente la parola “giustizia” con l’opaco spregiativo “giustizialismo”. Parlo proprio, e con dolore, della convinzione ancora diffusa a sinistra che usare in politica argomenti morali sia appunto cosa da non fare, come confondere le categorie. “Moralismo”, appunto, in questa ulteriore versione di machiavellismo veramente troppo spicciolo, sarebbe giudicare amici e avversari non sull’aspetto “politico” delle loro idee o dei loro atti, ma su quello “morale”. Con un corto circuito bizzarro, per cui (primo non sequitur) l’aspetto “morale” sarebbe necessariamente quello “privato”, e dunque (altro non sequitur), politicamente irrilevante. Così a quell’epoca persone degnissime – lo riporta Luca Telese nel suo articolo su Berlinguer (“Il Fatto Quotidiano”, 5.7.11) lessero nelle parole di Berlinguer un “pericoloso” attacco alla “politica” – dove semmai c’era un attacco ai partiti, che però testimoniava dall’interno di uno di essi di una residua possibilità di riscatto, che si sarebbe dovuto accogliere con gratitudine e rinnovata speranza. Così oggi c’è chi, come Fassino, sembra presentare l’isolamento in cui si trovò Berlinguer come una colpa (questo è un argomento che usò anche Scola nei confronti di don Sciortino), e poi per tirarsi di impaccio dice, ancor peggio, che la “colpa” non è una categoria politica. C’è chi, come Livia Turco, addirittura nega l’esistenza di una questione morale anche nel Pd – cioè nega l’evidenza (Wanda Marra, Berlinguer, la rimozione democratica, “Il Fatto Quotidiano, 8.7.11). E non tanto o soltanto per la dovizia di fatti accertati, alcuni di rilievo addirittura penale, che coinvolgono politici e amministratori, e che, qualcuno potrebbe obiettare, sono bazzecole in confronto ai crimini in grande scala nella logica bisignanesca del “mangia tutto quello che puoi mangiare”, con la quale siamo arrivati al paradosso inaudito di un governo che distrugge i beni della nazione per nutrirne il suo personale. Ma molto più si nega l’evidenza se torniamo al senso profondo delle parole di Berlinguer, che non denunciava fatti spiccioli, ma la riduzione dei partiti a “macchine di potere e di clientela”: dove l’accento va posto su ognuna delle parole, e forse in particolare sulla prima. Tornano in mente i meccanici ritornelli cui s’è ridotto l’eloquio politico dei leader del Pd, ai logori cliché che continuano a significare, proprio come diceva Berlinguer, mancanza di ideali, programmi vaghi e soprattutto “passione civile zero”. Come l’ossessivo ripetere “agli italiani non importa nulla”, “non sono questi i problemi degli italiani” quando un capo di governo stava per metter mano a una riforma della giustizia che era semplicemente eversiva della democrazia. Espressione pigra e meccanica poi corretta, ma tardi.
Qual è dunque il filo che lega questa enorme sottovalutazione della questione morale attraverso le generazioni della sinistra? E’ – e chiedo perdono se ripeto cose dette, come si ripetono le occasioni di dirle – la nefasta e interessata confusione fra autonomia e indifferenza della politica rispetto all’etica. L’autonomia della politica è una scoperta (sacrosanta) della modernità, ma è resa possibile dalla comprensione del fatto che l’ordine sociale è un bene medio e non un bene ultimo, un mezzo e non un fine. Fine e bene ultimo è la libera fioritura degli individui, nel rispetto reciproco della loro pari dignità e dei loro eguali diritti. La politica è l’arte di governare la convivenza in modo che questa fioritura diventi sempre meno impossibile a ciascuno e a tutti. Dunque la sua autonomia è legata alla sua natura di mezzo e non di fine: come un’arma che bisogna saper maneggiare secondo le sue regole. Proprio per questo il maneggio non può essere indifferente al fine, dunque alle condizioni per realizzarlo. Saper maneggiare la pistola (autonomia) non basta, bisogna maneggiarla a difesa della giustizia nella libertà (non indifferenza). Separate queste due cose e avrete i nostri mali: o la rapina della cosa pubblica (della ricchezza, del nutrimento, della disciplina, della verità e della libertà dovuti a ognuno per poter vivere da uomo libero e soggetto morale responsabile): ecco la banda B &B. Oppure la subordinazione del fine al mezzo, della buona politica alla logica degli apparati, all’autoriproduzione dei partiti e di tutte le altre consorterie. E se il maggior partito dell’opposizione non capisce questo, chi tradurrà in buona politica il risveglio delle coscienze?
Come nota a margine a queste considerazioni, che meritano ampia riflessione, mi sento di mettere in guardia circa una possibile lettura distorta della questione morale nel vecchio PCI. Questa puntualizzazione è rivolta soprattutto ai più giovani, che potrebbero non avere fonti di prima mano sugli eventi.
Da queste osservazioni di Roberta De Monticelli i meno accorti potrebbero trarre una lezione, questa sì davvero tipica della sinistra, che va nella direzione del morettiano: “Continuiamo a farci del male”. Infatti, a fronte di una costante accusa di moralismo, proveniente dagli eredi del PSI e della DC, trasferitisi quasi in blocco in Forza Italia ed oggi nel PDL, da queste righe sembra che la sinistra tradizionale debba anche accollarsi il peccato di scarsa attenzione alla moralità. Risultato finale, il vecchio PCI deve fare atto di contrizione per aver esagerato il peso attribuito alla morale e anche per aver sottovalutato il peso della morale. E continuiamo a sparare sul sarcofago di Lenin, che tanto non esce!
Ora, però, è importante sottolineare che le critiche (peraltro minoritarie) che vennero rivolte all’utilizzo delle categorie morali da parte di Berlinguer (e non solo), erano critiche che partivano dall’idea di autonomia della politica, che è toto coelo altra cosa rispetto all’idea della legittimità dell’affarismo in politica. L’idea di autonomia della politica è di derivazione machiavello-hegeliana, e quando pensa alla morale pensa essenzialmente alla CONVENZIONALITA’ degli sdegni benpensanti, privi di capacità di valutare il nesso tra atto, contesto ed esiti. La politica di Machiavelli, così come lo Stato di Hegel, non sono entità teoriche indifferenti a valori morali, ma rivendicano una propria irriducibilità rispetto alla miopia delle stereotipie morali. Per molto tempo le critiche ‘morali’ alla politica del PCI erano critiche che ricercavano nella storia delle scelte politiche di una forza nata come rivoluzionaria istanze di doppiezza e violenza da stigmatizzare. Tali critiche erano generalmente sterili sul piano storico e spesso in malafede. Che un rivolgimento sociale dovesse avvenire rispettando l’etichetta, non raccontando bugie, e porgendo l’altra guancia era cosa che poteva far comodo per la propaganda, ma a cui nessuno che avesse una qualche conoscenza della storia o della vita poteva dare credito.
E’ però essenziale sottolineare che questa ‘autonomia del politico’ era autonomia di un politico che era al tempo stesso etico in senso hegeliano, era moralità storicamente incarnata. Paradossalmente furono proprio quelle parti della sinistra (PSDI, PSI post 1979) che avevano più aspramente criticato l’autonomia dell’etico-politico rispetto al morale-convenzionale a farsi alfieri della ‘laica’ legittimità del business in politica, sostituendo ad un machiavellismo per fini collettivi superiori (magari utopici) un machiavellismo privatistico in cui la politica era mediazione tra interessi plurali (localistici, familistici, infine individuali).
Che poi una considerazione troppo disinvolta dell’autonomia del politico abbia portato spesso a giustificare l’ingiustificabile e ad ottundere la sensibilità morale individuale, questo è un dato storico ineludibile: dire che la regole morali devono essere implementate in costesti storici non implica affatto l’immoralità dei giudizi storici, ma è indubbio che talvolta questa implicazione è stata tratta. Tuttavia questa problematicità della rivendicazione dell’autonomia del politico non ha alcuna parentela con la sacralizzazione del business in politica avvenuta negli anni ’80.
Bravissima Roberta! Leggendo il “Fatto” di qualche giorno fa su questa questione mi ero andato a ripescare un vecchio video del 1981. Sono cinquanta secondi, ma penso che anche i più giovani possano capire benissimo e senza problemi che cosa intendeva Berlinguer con “questione morale”. Il problema è che la tesi dell’autonomia della politica dai moralismi ha finito per diventare, a partire dagli anni Ottanta, autonomia da tutti i valori. Da qui all’affarismo il passo è breve, certo non per un professore universitario di filosofia, ma sicuramente per chi amministrava la cosa pubblica e sentiva parlare quel professore. Di quella stagione di Berlinguer recupererei proprio queste riflessioni, come anche quelle sull’austerità, sul rapporto con il mondo cattolico e sulla presa di distanza dal “socialismo reale”. Il marxismo invece era già morto nel 1959 a Bad Godensberg.
Replica a Guido Cusinato, dove scrive “Da qui all’affarismo il passo è breve”:
Non so se il passo sia da dirsi breve o lungo, può essere questione di predilezione semantica, ma esso equivale precisamente alla differenza tra porre come vertice assiologico una dimensione di valore intersoggettivamente valida, mirante all’universalità e alla durata intertemporale, e attribuire priorità assiologica a valori autoriferiti, di validità solo individuale e privi di validità permanente. Che tale differenza sia importante solo per un professore universitario e trascurabile per gli altri, mi permetto di dubitarlo.
Caro Andrea, si comprende meglio quello che volevo dire leggendo anche il pezzo precedente: “autonomia da tutti i valori. Da qui all’affarismo il passo è breve”.
La differenza che espliciti, che è alla base anche del ragionamento di Berlinguer nel video che ho postato, è fondamentale anche per me. Il problema che ponevo infatti era: fino a che punto tale distinzione è stata importante anche per la filosofia postmoderna?
Guardando il video postato ho sentito la frase “questione morale come fondamentale perchè i partiti diano prova di sapersi rinnovare”… Difatti, attualmente, non si punta davvero ad un rinnovamento, si tira dritto e a testa bassa verso una quasi suicida preservazione dello status quo, da parte di quei tanti, troppi davvero, che ne traggono beneficio, che si assolvono dai sensi di colpa nel loro essere in gran numero e nel poter solo immaginare, e quindi minimizzare, la crisi su tutti fronti in una società nella quale non sono mai scesi. Parlamentari che un normale stipendio non sanno neanche come sia fatto, ma che se non si tengono il gioco potrebbero scoprirlo. Sento un Tremonti che dà del cretino a Brunetta perchè promuove ad alta voce qualcosa di improponibile, e penso: quale maggiore tranquillità morale potrà mai dare il fare le cose sperando di non essere visti o sentiti? E come può questo bisogno di etica essere deriso e ritenuto…”fuori tema”? Si parla di morale come se ad offenderla fossero gli “affari di letto” del Premier, le sue preferenze nel vestiario delle debuttanti ad Arcore…Tutto fumo per distrarre dall’arrosto, disgustoso fumo, ma è a tutto quello che c’è dietro il “bunga bunga” che va l’indignazione. Allo stesso modo, la società che sta sotto, fatta da tante persone, da giovani come me che non sanno granchè di politica ma che per sopravvivenza se ne sono fatti un’idea e per avvilimento se ne sono fatti una coscienza, non è indifferente,non “se ne frega” per disinteresse. La cosa è più semplice: è distratta! Distratta dal come andare avanti, dal cosa inventarsi per trovare un lavoro, dall’impegno creativo che ci vuole per non restare delusi quando le proprie aspirazioni sembrano diventare sempre più piccole e irraggiungibili, e dal pensiero dei tanti genitori appesantiti, che non se la sentono di andare in pensione senza aver visto i non più giovanissimi figli avere una parvenza di sistemazione. Guardandosi intorno si ha la sensazione che la crisi, per quanto per i più fortunati non sia “la crisi del cosa mettere in tavola” (e forse purtroppo, perchè allora non basterebbe uno tsunami a distrarre!) abbia un immenso potere distraente, che non dovrebbe essere scambiato per indifferenza, e che solo talvolta si riesce a vincere, perlopiù per il troppo sdegno. Per questo,per quello che vedo io, il risveglio delle coscienze è lento, e il rinnovamento di un partito sembra così utopistico! Chiedo scusa se ho approfittato di questo spazio per uno sfogo…ma viene tanta rabbia al pensiero che non c’è niente di più lontano dall’immagine della fioritura individuale di cui scrive la professoressa De Monticelli, della nostra attuale società!
Note limpide e analisi a mio avviso lucidissime in questo intervento di Carla Maria Giacobbe. Invito tuitti a leggere il libro di Nando dalla Chiesa – La convergenza- Politica e mafia nella seconda repubblica, Melampo 2010. L’affresco che risulta di questo nostro Paese è agghiacciante. Non perché non conoscessimo ciascun singolo fatto (ma sono una massa tale che molti erano rimasti ignorati), ma perché le CONNESSIONI e il quadro d’insieme che ne risulta tolgono davvero ogni alibi all’attendismo delle opposizioni. E’ una lettura veramente traumatica, o almeno tale è stata per me. Il che vuol dire che nessun “I care” è ancora abbastanza profondo, che c’è – per sopravvivere – in ciascuno di noi un residuo di indifferenza. Ma la diagnosi di dalla Chiesa è la stessa di Carla. E’ la nostra distrazione e la nostra indifferenza l’ultimo inespugnabile bastione del crimine. E se proprio vogliamo studiare ontologia sociale, ebbene la sola cosa veramente utile sarebbe studiare le cause, le ragioni e i modi di quella “intenzionalità collettiva” che dalla Chiesa chiama “convergenza”, inintenzionale, involontaria, ignara – verso la tolleranza, lo sdoganamento, l’accettazione del crimine come forma di vita. E in ultima analisi la complicità con esso.
QUESTIONE MORALE, BERLINGUER, ma anche ZACCAGNINI, LA PIRA, etc…;
ricordo -e per me è sempre una inaudita sofferenza- le parole di Bettino, grande corruttore cui tutti si piegavano prima di tangentopoli, secondo cui la coerenza dovrebbe esser la virtù degli “imbecilli”.
Perchè parto da questo ricordo?
Perchè c’è una logica dell’etica, o, se vogliamo, un’etica della logica, cui si deve acccompagnare memoria, perchè è solo con la memoria che si può ottenere verifica della giustezza delle proprie asserzioni, della correttezza etica delle proprie scelte.
Da decenni ormai nel nostro paese si è fatta prevalente un’eresia logico-culturale, di cui tanta sinistra senza bussola (mi riferisco alla nota critica avanzata da Bobbio a certi intellettuali impegnati nel far accettare la convinzione che non possa esistere verità alcuna), ma non solo, si è invaghita, e che è testimoniata dalla sempre più frequente ricorsività di appelli a persuaderci che tutto sia non sottoponibile a riscontro veritativo, e che perciò tutto sia ammissibile de facto, ma soprattutto de jure (penso alle posizione di Vattimo ad es.)
Lavoro nella scuola e verifico, da due decenni ormai, che la normatività è sempre più calpestata, e non si pensi semplicemente al rispetto di leggi e regolamenti, ma penso alla grammatica ed alla sintassi di qualunque disciplina…tutto va bene, tutto deve andar bene, correggere risulta eticcamente invasivo, d’ostacolo alla crescita della libera personalità del discente o dello stesso collega, che non posson mai esser sottoposti a controllo, a verifica, a procedura che dia ragione del loro operare. Perciò negli anni, e c’entran ben poco i Governi, i Ministri, tutti siamo andati avanti, nella logica del TODOS CABALLEROS, che, non permettendo distinzioni del merito del singolo discente come del singolo docente, consentiva che il vero fattore di differenziazione sociale, e poi economica, fosse la conoscenza, il sapersi relazionare agli altri nella maniera più adulatoria e servile possibile….
ed ecco fuori allora gli uomini buoni per tutte le stagioni, i La Ganga che a Torino vengono tranquillamente ricandidati come se non avessero sulla coscienza alcunchè in relazione al rispetto che si deve alla cosa pubblica, i D’Alema che fanno la Bicamerale piuttosto che la regolamentazione per legge del conflitto d’interessi, avendo frequentazioni e stili di vita che non c’entran niente con qulli di chi, avendo fatto scelte d’onestà, si trova costretto a tentar di resistere con 1500 euro al mese -quando va bene- e magari avendo azzardato il metter su famiglia…
se non ricordo male si tratta di Pareto e di Mosca, ma anche di Weber…le strutture burocratiche, se non sottoposte ad un forte controllo etico-politico, se non democraticamente rinnovate ed animate, divengono parassitarie e si autoriproducono indefinitamente, divenendo veri e propri tumori sempre più difficili da estirpare…
perciò, molto semplicemente e sinteticamente: se la politica non torna ad esser pensata come servizio, per poi esser esercitata come tale, avremo scenari sempre più ributtanti e squallidi; se non sottoponiamo la politica ad una terapia d’urto di ossigenazione etico-logico-storica, non avremo affatto miglioramento.
Oggi sentir che il futuro del nostro paese è affidato al patto Bersani-Casini sulle riforme fa piangere…Casini, chi è costui? Uno che ha fatto il Presidente della Camera su indicazione di Silvio, uno che fino al 2006 gli ha dato i suoi voti, uno che annnovera come segretario del suo partito tal Cesa, il quale, in occasione dello scandalo in cui venne coinvolto un suo parlamentare trovato in compagnia di due squillo in un albergo di Via Veneto a Roma (e la cosa venne fuori perchè una delle due fu costretta a ricorrere alle cure dei sanitari per eccesso di cocaina), sostenne che si dovevan garantire ai nostri parlamentari anche i biglietti aerei con cui le legittime compagne dovevan raggiungere gli stessi nel weekend parlamentare-romano per poter soddisfare le voglie sessuali dei loro consorti, altrimenti sarebbero stati giustificati nelle loro fantasiose trasgressioni…e aggiungo che l’UDC ha come riferimento cultural-elettorale il mondo cattolico….ahahahahah, in questo paese non solo non c’è più religione -in senso spirituale e quindi di libertà-, ma anche l’etica del pensare e del dire stanno messe molto male…
Vorrei porre l’attenzione su quanto scrive il cardinal C.M. Martini sul Corriere della sera di domenica 1/07/2011. Titolo: La crociata del bene con la forza degli onesti (sic!). Il cardinale si dice dispiaciuto e amareggiato per quello che succede, vorrebbe, dice, la fine dell’ipocrisia e del buonismo… Ma poi aggiunge che la gente non dovrebbe scandalizzarsi più del giusto quando un rappresentante della Chiesa (uno?) viene coinvolto in affari loschi… la Chiesa infatti non ha come suo primo dovere quello di sostenere il comportamento morale degli uomini… ma quello di proclamare il Vangelo… e a questo punto mi sono persa… Dice sempre il ns. cardinale che basta spiegare che bisogna rifarsi al modello di povertà cristiana e tutto vien di seguito… e che la Chiesa deve dissociarsi dunque da coloro che sostengono “etiche di servizio” (?) … Gli uomini, continua, non si cambiano con le prescrizioni etiche… e ancora sostiene che la Chiesa deve proclamare il Vangelo della misericordia senza badare a chi ne approfitta per i suoi comodi… e vai con questa incredibile serie di argomentazioni. Niente di nuovo, per carità. È tutto disperatamente già visto e sentito… con una punta acida, mi pare, verso chi scrive autorevolmente da queste pagine, verso chi va scrivendo appelli appassionati sulla necessità dell’etica intesa in senso laico, da vivere come imprescindibile valore dell’azione della politica e di quanti hanno responsabilità verso il bene comune… (ma la Chiesa no?). Vuoi mettere come è più evangelico crocifiggere mediaticamente il padre di una ragazza in coma da 17 anni perché parla di vita come qualcosa di più di un puro evento di natura biologica? E scambiare con la legge contro il biotestamento una totale tolleranza verso B. e i suoi scherani? Senza contare lo spirito evangelicamente imprenditoriale di Comunione e Liberazione e delle sue alleanze politiche impresentabili ma utili… Già… ma forse io non essendo un adepta alla setta… non posso capire. Chiedo dunque… qualcuno può spiegare?
Il cardinale penso stia prendendo un po’ per i fondelli, come è possibile che la Chiesa si disinteressi dell’etica? Non si capisce come mai allora contestano a piè sospinto certe proposte legislative (eutanasia, testamento biologico, i Dico, etc. etc.).
Va da sè che certi personaggi sono dei veri maestri dell’ambiguità e del nichilismo (nel senso,di voler annichilire l’etica laica proposta per esempio da Maurizio Mori, tanto per citare uno dei grandi personaggi contemporanei).
Ahimé caro Claudio… “Certi personaggi”, dici tu. Ma il cardinal Martini è stato per molti l’ultima testimonianza e speranza di una chiesa diversa, non dimentica degli aspetti di apertura ai fondamenti della modernità (dunque ai fondamenti ETICI più che alle ideologie sociali: autonomia, libertà di coscienza, laicità, cristianesimo adulto). È davvero un triste segno dei tempi, e parrebbe da dire del declino di ogni speranza, che anche lui sia diventato l’ennesimo signore dell’ambiguità. Ricordo la frase di Simone Weil che forse più amo: “Il vero male è la mescolanza del bene e del male”.
Sull’articolo del Cardinale Martini, CdS 01-08-2011
Cari Amici, per prima cosa vi ringrazio: senza la vostra segnalazione e i vostri preoccupati commenti, l’articolo mi sarebbe sfuggito. Una facile considerazione potrebbe essere: basta questa mezza pagina a cambiare il senso del percorso di un’intera, ultra-ottuagenaria esistenza? Invece, il punto, per me, è un altro, del tutto stupefacente: stiamo rischiando di restare, tutti, vittime di Babele.
Letto da me, che, a torto o a ragione, mi sento “dentro” la Chiesa, i messaggi di questo breve, forse ellittico, scritto del Cardinale sono questi.
La Chiesa – specie nella sua componente chierico-religiosa – faccia un passo indietro dall’agone etico, sociale e politico, in cui è completamente immersa e di cui cerca di dettare, o almeno influenzare, agenda e soluzioni legislative. Ritorni alla sua prima vocazione, che è quella dell’evangelizzazione, dell’annuncio di una salvezza che è altra anche rispetto alla più nobile delle etiche laiche (è critico il passaggio “etica, che appare come la spiaggia della salvezza”). Il “Non avrai altro Dio all’infuori di me” non tollera alcuna idolatria, fosse anche una idolatria dell’etica o della santità. Sebbene sia immensamente interessata all’etica, in tutte le sue declinazioni, non è lì lo specifico della Chiesa. Lo specifico è nell’offrire “quel tanto di più che ci vuole per fare dell’uomo onesto” (già onesto, perché essere onesti è impresa a cui l’uomo è chiamato anche se nessun Dio esistesse, o se a esistere fosse una divinità maligna) “uno che si ispiri alla povertà di Gesù.”
Vi prego, fermiamoci un attimo qui e passiamo mentalmente in rassegna tutto quanto di penoso, ridicolo, indegno, codardo, ingiusto, volgare, illegale, avido, violento, malvagio, ecc. abbiamo visto accadere in questi anni. Saremmo qui a far un certo tipo di discorsi se tutta la Chiesa fosse stata rigorosamente fedele alla sua specifica missione di far sì che gli uomini- e se stessa, in quanto composta da uomini fra gli uomini – si ispirino “alla povertà di Gesù”?
E ovviamente c’è una differenza fra un “discepolo del Cristo” e un “sostenitore delle etiche di servizio”. Differenza che non implica per nulla un giudizio negativo o dispregiativo di queste ultime, anzi. Semplicemente, da conoscitore dell’animo umano, il Cardinale sottolinea che ci vuole un qualcosa oltre alle prescrizioni etiche, che, per il credente, è “la forza che Dio dà”, ” che fa sussultare il cuore dell’uomo” e lo dispone “a quello spirito di povertà” che è “la forza di tutti i leali servitori dello Stato, anzi di tutte le persone oneste”. Tutti e tutte, cioè credenti e non credenti, che, agli occhi del credente Martini, hanno uguale, immensa dignità perché partecipano di una forza di origine divina.
Perdonatemi, Amici e Amiche: è questo “l’ennesimo signore dell’ambiguità”? O non è forse questo l’ennesimo appello alla sua amata Chiesa di un uomo che, giunto alla sera – ed è una sera di sofferenza – della sua vita, rinnova la profezia di una Chiesa discepola di Gesù e ispirata alla e dalla povertà del Cristo?
Tutto trito e ritrito, si dirà. Forse, ma sicuramente – uso un eufemismo – dimenticato. Martini ci ricorda che l’uomo è stato capace di riconoscere le virtù cardinali, fra cui c’è la giustizia, prima che Gesù nascesse. Le virtù specifiche annunciate (annunciande?) dalla Chiesa di Gesù sono le virtù teologali. Alla fine, per Martini (e per tanti cristiani, credetemi), siamo mendicanti della Grazia, la “Grace”. E l’etica senza la “Grace” può rimanere sotto il dominio della “Pesanteur”, come direbbe Simone Weil, che anche io amo.
Ringrazio Riccardo Bonadonna per aver colto e reso esplicito in modo così chiaro il senso più profondo delle parole del cardinale Martini, che, se malintese, smentirebbero in effetti la sua intera vita pastorale. Ogni grande civiltà e cultura ha avuto e ha i suoi uomini “spirituali”, credenti e no, la cui umanità fiorisce e fa fiorire oltre i limiti (pur importantissimi) dell’etica. Quest’ultima, infatti, che è scienza dell’agire per il massimo bene possibile in un contesto definito, non può in linea di principio esaurire interamente il senso di una vita giusta. Mi piace illustrare la cosa con una storiella cinese, riportata e commentata, se non sbaglio, da un altro grande “spirituale”: Dietrich Boenhoffer. Un maestro chiese a un suo alunno: «È vero che tuo padre torna a casa ogni sera ubriaco?». Era vero, ma il bambino abbassando gli occhi rispose di no. Allora un compagno si alzò e disse: «Signor maestro, lei ha ragione, è vero, io lo vedo spesso». Ma intervenne un altro compagno: «Signor maestro, io abito proprio accanto, e le assicuro che non è vero». Quale dei due ragazzi ha servito la verità? Detto questo, la difficoltà in merito alle parole del cardinale, a mio parere, nasce dal fatto che da molti anni abitualmente ci s’imbatta in “credenti” e “porporati” d’ogni congrega i quali, convinti d’essere stati investiti o di partecipare di una qualche missione superiore, rimproverano a quanti rivendichino le ragioni dell’etica e della giustizia terrena, la hybris di cui in verità sono rigonfi. Martini s’è sempre mosso e si muove ben al di sopra di questa misera sofistica da bestemmiatori simoniaci. In questo momento, però, una sua parola più terrena ci sarebbe forse stata di maggior conforto…