Premetto che sono sempre molto restio a recensire libri perché la mia propensione all’ipercriticità, condita da un filo di connaturata bastardaggine, credo mi renda il peggior recensore che uno scrittore si possa augurare. Mi sento però di fare un’eccezione (l’autore non me ne voglia) per un libro appena uscito da Mimesis. Si tratta di Fenomenologia Eretica. Saggio sull’esperienza immediata della cosa di Luca Taddio.
L’autore dedica un volume di quasi 400 pagine ad un’analisi di fenomenologia della percezione concentrata sul tema del ‘completamento amodale’, tema introdotto da Husserl con le celebri analisi delle lezioni del 1907 su Ding und Raum. Non ve ne faccio qui il riassunto, anche perché il volume non è facilmente riassumibile: si tratta di una molteplicità di analisi che insistono più o meno sempre sullo stesso nocciolo fenomenico e lo fanno richiamando a proposito un gran numero di autori e prospettive.
Ci tengo però a segnalare sommariamente difetti e pregi.
A mio avviso il testo ha un solo difetto, che però rischia di fargli perdere l’affetto di molti lettori potenzialmente interessati. Nelle prime pagine subito dopo l’introduzione Taddio piazza un’analisi dal titolo Severino vs. Husserl. E qui, per chiunque conosca bene sia Severino che Husserl, la tentazione di riporre il libro sullo scaffale è forte. In effetti Taddio disbriga con l’aiuto filologicamente discutibile di Severino la pratica Husserl in poche pagine, per far posto alla figura di Merleau-Ponty, con la quale manifesta un’evidente maggiore affinità. Ora, per un testo che voglia confrontarsi su questo tema fenomenologico capitale, la sostanziale assenza di Husserl dal confronto è un difetto serio. Anche quando c’è, Husserl è trattato un poco come il vecchio nonno cui si deve rispetto purché ci lasci in pace.
Se però il lettore riesce a perdonare questa mancanza al libro di Taddio, poi può entrare in una lettura di singolare interesse. Il libro infatti si dipana al tempo stesso con grandissima libertà teorica, passione e un vasto e intelligente utilizzo di fonti. Ciò che mi preme segnalare è soprattutto l’inusuale libertà del lavoro, che è libertà stilistica e teoretica. È un libro di filosofia che va con rigore e intensità dietro alla cosa stessa cui è rivolto, e riesce a farlo pure con una prosa piacevole e viva.
Una buona lettura.
Professor Zhok, potrebbe riassumere molto sinteticamente qualche tesi o qualche argomento, tanto per avere un’idea più precisa?
Beh, molto sinteticamente, come dicevo, si tratta di un’indagine che verte sul problema del completamento amodale, ovvero sul problema di come sia possibile (e di quale sia il suo significato) che noi continuamente vediamo interi percettivi esistenti in uno spazio tridimensionale (plena), laddove al nostro occhio non si dà la maggior parte dell’informazione che consentirebbe un’identificazione diretta dell’oggetto nella sua realtà. Il tema è sviluppato in quasi tutte le direzioni che tradizionalmente si sono da esso dipanate, ovvero in direzione ontologica, con il problema della natura reale/illusoria del completamento, in direzione ermeneutica, con l’introduzione del tema wittgensteiniano del ‘vedere come’, in direzione psicologica, con l’esame di molte teorie che con questo fenomeno si sono confrontate (Gestalt, Gibson, molto Paolo Bozzi). Le mancanze maggiori, come sottolineavo, sono legate ad alcuni snodi cruciali dell’analisi husserliana (in particolare il ruolo costitutivo di temporalità ed intersoggettività) Le conclusioni di fondo sono ontologicamente realistiche. Personalmente non mi sento di concordare con diversi passaggi, ma il punto rilevante, a me pare, è che sono argomentazioni che è interessante provar a confutare (il che non è ovvio).
Egregio Zhok, non voglio entrare nel merito del libro di Taddio (credo mio compaesano) giacché non avendolo ancora letto, non posso giudicare; ciò che mi preme invece evidenziare è la sua poco elegante supponenza nei confronti dell’emerito prof. Severino. È sempre antipatico liquidare qualcuno con poche battute, ancor più se le sparute parole dedicate risultano essere di forte critica. Ora non è il caso qui di dibattere sull’autenticità (e serietà!) del pensiero del filosofo bresciano (non c’è niente di meglio che la testimonianza dei suoi stessi scritti), (non dico offendere) ma sminuire uno dei più grandi filosofi viventi, lo trovo poco rispettoso nei confronti del diretto interessato e di tutti coloro che ammirano un uomo di tale levatura morale e naturalmente filosofica. Per scrivere e giudicare il libro di Taddio non occorreva evidenziare un suo capriccio ma attenersi strettamente all’oggetto indicato.
Con rispettoso ossequio.
Caro Federico,
sono lievemente perplesso. Dov’è che avrei offeso o sminuito l’opera di Severino? L’unica cosa che ho detto, e che non ho difficoltà a ribadire, è che Severino, come molti autori di spessore teoretico rimarchevole, non si è mai distinto per soverchio scrupolo filologico nei confronti degli autori sottoposti ad analisi. Vorrei quasi dire, se ricordo le reazioni all’uscita della sua Storia della Filosofia Moderna, che la, come dire, peculiarità del suo sguardo sulla storia del pensiero è considerata quasi proverbiale (un poco come lo è quella di Heidegger). Il suo esame di Husserl non fa eccezione, per quanto mi ricordo dalle mie letture di prima mano. Con ciò nessuno, e certamente non io, ritiene sia detto che Severino (o parimenti Heidegger) siano autori scadenti, sciocchi o privi di interesse. Il problema che ho sollevato nei confronti del bel libro di Taddio mirava a segnalare l’inopportunità di usare Severino come base per una discussione critica del tema in oggetto. Siccome il senso dell’uso di Severino nel testo di Taddio è quello di giustificare la necessità di ‘andare oltre Husserl’, il che è ciò che in concreto avviene nella trattazione testuale successiva, questo uso, insisto, per chiunque conosca Severino e Husserl, è ingiustificato, nel metodo e nel merito.
Di questa precisazione ero debitore a lei e ad eventuali altri, giacché la brevità del mio invito alla lettura poteva prestarsi ad ambiguità. Le consiglio, però, di non essere così suscettibile, soprattutto a fronte di critiche che, credo nessuno possa accusare di essere men che garbate.
Comprendo bene la sua perplessità per la mia veemenza, ma evidentemente ha toccato un mio nervo scoperto: troppi pensatori hanno l’abitudine di sminuire l’operato di grandi autori con battute di supponenza, credendo in tal modo di aumentare la propria visibilità: non era il suo caso. La mia reazione è stata evidentemente troppo impulsiva. Me ne scuso.
Gentile prof. Zhok,
mi sono imbattuto casualmente in questo suo resoconto critico del mio lavoro di cui la ringrazio sinceramente. Sono onorato di rappresentare un’eccezione rispetto al suo essere restio nello scrivere recensioni e sono felice che lei sia riuscito a resistere alla forte tentazione di riporre il volume sullo scaffale. Mi sento gratificato per la sensazione di non aver scritto inutilmente un libro e quindi di aver offerto un contributo a riflessioni che occupano da tempo i miei pensieri e di cui sentivo il bisogno di “liberarmi”.
In effetti, la possibilità che uno studioso di filosofia ha di adottare altri punti di vista rappresenta un vantaggio e forse anche una forma di rassicurazione, dal momento che in questo modo ci si sente sollevati e deresposabilizzati nell’affermare qualcosa se ci si può porre al riparo dietro le spalle dei grandi filosofi del passato. Tuttavia, prima di tutto per un fatto caratteriale, ho sempre avvertito un certo timore nell’utilizzare i pensieri altrui, poiché non sono mai certo di averli compresi in tutta la loro ricchezza e complessità (almeno finché sono in vita possono smentirmi direttamente!). Le scrivo quindi non per “difendere” il mio lavoro, anzi: sono consapevole di non aver dedicato spazio sufficiente a Husserl, rispetto a quanto meriterebbe. Sono così convinto di ciò che sto finendo di preparare un libretto dedicato unicamente − sempre sul tema dell’apparire della cosa − alla fenomenologia husserliana.
Vorrei precisare però che nell’obiettivo di delineare una fenomenologia altra rispetto a quella “canonica” husserliana non potevo soffermarmi troppo in questo libro sul pensiero di Husserl: mi sono limitato, nell’analisi della sua riflessione, quasi allo spazio di una premessa, per proseguire nel ragionamento che, da un punto di vista metodologico, è ben circoscritto ad una singolarità percettiva, ovvero la percezione di un cubo. Questo è stato un esempio paradigmatico per la fenomenologia (lo ritroviamo non solo nelle Meditazioni di Husserl, ma anche in Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty etc.) che ho ulteriormente esteso anche alla parte relativa alla fenomenologia sperimentale. Non era quindi mia intenzione sfruttare Severino come trampolino per balzare oltre Husserl (e sbarazzarmi così in modo sbrigativo della sua filosofia): il mio proposito consiste nel riflettere su un caso concreto e circoscritto di percezione come se ci trovassimo tutti attorno allo stesso tavolo a discutere della stessa cosa e a cercare di rispondere ai medesimi problemi che il caso in esame solleva (compresa la possibilità di poter dubitare del suo apparire). Così, attorno a tale tavolo curiosamente ritroviamo due pensatori eterogenei come Merleau-Ponty e Wittgenstein osservare il medesimo fatto, in questo caso il cubo di Necker (esempio che, guarda caso, fa parte della psicologia della Gestalt che entrambi conoscevano, quella tradizione fenomenologica di stampo non husserliano da me ripresa a partire dall’analisi del concetto di esperienza immediata).
A partire da queste premesse i problemi erano e rimangono tuttora numerosi: è infatti necessario almeno provare a rispondere allo scetticismo, tracciare un metodo e un raccordo tra logos e fenomeno (percetto e concetto), far emergere la nozione di sistema di riferimento (come presupposto per affermare verità) e infine pensare il fenomeno iuxta propria principia (come qualcosa di necessario e non di contingente)… Inanellare questi ragionamenti è una sfida che mantengo aperta nel dialogo con diversi interlocutori, in un gioco continuo di rinvii a ciò che direttamente osserviamo e a ciò che pensiamo sulla cosa e sul mondo esterno (e che cerco di affrontare per quello che mi è dato comprendere in prima persona).
Il mio vuole essere un invito rivolto in questo caso tanto a Husserl quanto a lei, a Severino e al sottoscritto a discutere questa cosa: una singolarità percettiva ove pare si annidino una serie di problemi infatti, colto uno, paiono scendere tutti a grappolo. Prima di giungere a discutere le tesi di fondo del libro ho trovato metodologicamente più efficace riferirmi a fatti osservabili e circoscritti così da costringere i miei argomenti alla logica stessa di tali fatti. Ma una volta apprese le mie tesi di fondo, possiamo ancora parlare di fenomenologia? Può esistere una fenomenologia “senza” soggetto? La sfida: Vediamo se riusciamo a far parlare la cosa, anzi il fenomeno in quanto tale, dove soggetto-oggetto, a seconda del sistema di riferimento assunto, si iscrivono. Prof. Zhok nuovamente la ringrazio come ringrazio gli amici, in primis Severino, per la sua attenzione e per le osservazioni critiche che ulteriormente stimolano le mie riflessioni.