Don Milani il Vangelo secondo Socrate (a cura di Roberta De Monticelli)

venerdì, 20 Maggio, 2011
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Roberta De Monticelli è docente di Filosofia della persona presso l’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. Il testo di cui pubblichiamo in questa pagina un brano è tratto dalla premessa a un volume, in uscita per Chiarelettere con il titolo A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca (pp. 112 e 117), in cui sono raccolti alcuni scritti di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, relativi alla vicenda che nel 1965 lo coinvolse in un processo per apologia di reato, per avere difeso l’obiezione di coscienza alla leva militare. Don Milani (Firenze 1923-1967) è stato un prete scomodo per la Chiesa, che nel 1954 lo esiliò in una minuscola comunità sopra Firenze: Sant’Andrea a Barbiana. Di qui, con i suoi ragazzi avviò una straordinaria avventura umana e spirituale, culminata nel maggio del 1967 con la pubblicazione di Lettera a una professoressa.

«E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato e educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?». Questo dicono le leggi a Socrate, secondo un celeberrimo passo del platonico Critone. Più di un padre e una madre sono per Socrate le leggi, senza le quali non esiste Città dove ragione si oppone a ragione, ma solo la ragione del più forte, la guerra o il dispotismo. Perciò Socrate accetta la morte e non fugge, pur sapendo che la condanna è ingiusta.

Antigone, nella più celebre tragedia di Sofocle, disobbedisce invece alla legge di Tebe e di Creonte: la giovane donna è «fuorilegge, devota» a una legge non scritta e «misteriosamente eterna», che a quella positiva si oppone.

Nelle figure di Socrate e di Antigone si incarnano i modi dell’obbedienza e della disobbedienza in quanto entrambi espressioni della libertà. Perché c’è obbedienza e obbedienza. Obbedire a una legge cui si consente – e non a un uomo che si pone al di sopra di essa – è esercizio di libertà come autonomia, sovranità su se stessi. E don Milani si rivolge ai ragazzi della sua scuola come ai “sovrani di domani”» (continua la lettura sul sito de LaStampa.it)

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3 commenti a Don Milani il Vangelo secondo Socrate (a cura di Roberta De Monticelli)

  1. Riccardo Bonadonna
    lunedì, 23 Maggio, 2011 at 18:38

    Desidero ribellarmi al giudizio che “la radicale laicità” del cristianesimo sia un pensiero “sconfitto, e poi calunniato, e poi sepolto”. Sepolto no, proprio no (al massimo trovereste una tomba vuota). Non dico la mia esistenza – chi sono io? – ma l’esistenza di non pochi cristiani italiani verrebbe completamente ignorata, anche chierici: Enzo Bianchi, Carlo Maria Martini, Gianfranco Ravasi, Andrea Gallo…Nella storia dei cristiani non di rado il pensiero della minoranza sconfitta e perseguitata ha poi messo radici ed è diventato l’albero alla cui ombra tutti hanno trovato refrigerio (per chi volesse, vi è traccia di questo anche nella prima lettura liturgica di ieri, domenica, tratta dagli “Atti degli Apostoli”).
    Ma accetto di buon grado il “costruttivo amore” di chi, allora per bocca di don Milani, oggi con la voce di Roberta De Monticelli, mi ricorda che è inaccettabile tacitare la propria coscienza in nome di qualsivoglia presunto bene superiore e/o istituzione. Questo è il “costruttivo amore” che non solo come cittadino, ma anche in quanto cristiano, sono chiamato a vivere nei confronti della “civitas hominis”. A essa va la mia obbedienza, e la mia dis-obbedienza. In entrambi i casi, è “obbedienza” nel senso di ob-audio, di udire attento stando di fronte, in piedi (è la mia coscienza che mi regge), accettando o separandomi (“dis-“) da quello che ho udito.
    Ed è fondamentale che la mia sia “obbedienza”, ob-audire, quasi pregiudizialmente in contrapposizione (“ob”). Entrambe le città da cui discendiamo, Atene e Gerusalemme, hanno ucciso ciascuna il proprio figlio migliore: Socrate e Gesù, entrambi “obbedienti”, entrambi condannati per blasfemia e corruzione di spiriti giovani (allievi, discepoli…), entrambi in nome del principio che è meglio muoia, anche ingiustamente, uno solo per un bene superiore.
    Non possiamo mai fidarci fino in fondo della nostra città. La legge è giusta se, nel fondo, riconosce la pari e inviolabile dignità di ogni essere umano – e in particolare di questo essere umano qui e ora – e permette a ognuno, in coscienza, di consentirvi e di riconoscervi un filo di quei legami (e qui la parola tocca ad Antigone) di “amore costruttivo” su cui si fonda una comunità veramente umana.
    E voi che vivete a Milano lasciate a me, laico cristiano, “obbedire” la speranza che proprio lì sia una persona mite, proprio perché mite, a “ereditare”.

  2. lunedì, 23 Maggio, 2011 at 22:03

    Grazie a Riccardo Bonadonna di questo commento. E tuttavia: non è forse stato sconfitto, calunniato e sepolto quel pensiero se oggi Vaticano e gerarchie italiane, dove non tacciano, difendono quello sciagurato disegno di legge (oggi stesso, ancora una volta, per bocca di Bagnasco: 23 maggio 2011) che, se mai passasse, ci priverebbe addirittura dell’habeas corpus, infrangendo in un solo colpo il “noli me tangere”, in entrambi i suoi sensi? In quello divino (anti-idolatrico, dove l’idolo è lo Stato che legifera in nome di Dio) e quello umano (il primo e il più sacro dei diritti umani, non subire violenza nel proprio corpo contro la propria volontà, quando penalmente innocenti)?
    E se è sepolto, quel pensiero, ed è divino, perché non scoperchia la tomba e non esce alla luce, e non grida contro satana? E se non è sepolto, a maggior ragione, perché non leva alta e chiara, limpida e netta, con parola che sia evangelica: SI’, SI’, NO, NO, e non presti il fianco ad equivoco, contro questo orrore? Non gridava nel deserto Giovanni, e non rovesciò i banchi al Tempio, Gesù?

  3. Riccardo Bonadonna
    giovedì, 26 Maggio, 2011 at 02:20

    Io non ho un millesimo della statura di Giovanni Battista, ma, se è il mio giudizio che si chiede, il ddl su fine vita e testamento biologico è pessimo, per molti, troppi aspetti. Fra questi, il ddl, nell’attuale situazione italiana, tutto farà, fuorché smantellare il cono d’ombra in cui oggi si annida un numero elevato di inaccettabili “stili di cura”, o di non cura, di chi è più debole: malati in fase terminale, anziani con gravi compromissioni delle capacità cognitive e/o dell’autosufficienza…
    Detto questo, rimane la sfida di trovare una regolamentazione “leggera”, ma efficace, di molte situazioni, in cui inevitabilmente si finisce con l’affermare, testimoniare che idea abbiamo dell’uomo, e della sua dignità.
    Ma su quali principi riconoscibili e dimostrabili a tutti si baseranno le “regole”? Io non mi ritrovo nella contrapposizione fra disponibilità e indisponibilità della vita, aut aut. Io credo che mi sia stata data la disponibilità della mia vita, ma che questa disponibilità della mia vita io non possa delegarla ad altri. E credo nella inviolabilità della vita umana. E credo che il medico – e sono un medico -, e chiunque si prenda cura di chi soffre, sia chiamato a guarire, quando può, a curare, quando non può guarire, a lenire la sofferenza, quando non può né guarire né curare; a esserci, semplicemente esserci, anche quando non sa più cosa “fare”. Tutto sempre, ma sempre, in relazione con l’essere umano che gli è di fronte, ponendosi alla stessa altezza.
    Temo che il mio pensiero sia pericolosamente zoppicante, ma mi pare di vedere una foresta di casi singoli, unici nella loro irripetibilità: in questo, la fine della vita è come la vita. A differenza dell’opinione di molti, pertanto, penso che una legge possa ragionevolmente enunciare principi, indicare quello che mai può essere accettato, ma debba lasciare spazio all’applicazione interpretativa, alla possibilità di esistenza dell’ethos (e qui cito De Monticelli…) di ciascuno. Perché, come cristiano, sono qui prima di tutto a testimoniare che Gesù Cristo è il Risorto. Il resto di quello che dico sono glosse, balbettanti, e non sempre particolarmente ispirate.

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