Philosophie Kontrovers – VERTRAUEN
Roberta De Monticelli – San Raffaele University, Milan
The culture of suspicion and phenomenology
(Köln, January 20)
Vertrauen – trust, confidence, reliance – is a very intriguing subject for a phenomenologist. For phenomenology itself can be defined as a way of thinking based on the exercise of trust – albeit a peculiar kind of trust, that I’ll term epistemic trust.
0. Epistemic Trust and the Culture of Suspicion
Phenomenology has been here for a century, and yet very few people do really understand its novelty. Too many thinkers or just scholars have usurped its beautiful name, without sharing in the least its spirit, without applying or developing the methods for philosophical research on vital topics in our contemporary world, for which it had been devised.
What is, in fact, the spirit of phenomenology? I’ll try to summarize it by this very notion of epistemic trust. I’ll define epistemic trust as the systematic adoption of following key-principle:
(ET) Nothing appears in vain (without a foundation in reality) – of course the reverse is not true: There is much more to discover in reality than what appears (otherwise no research would be needed, and we would be omniscient).
Epistemic trust is a style of thinking, which might be clarified through some more definite methodological principles. In this presentation I do not want to get into methodological details, though. The first thing I want to convey by this formula is that phenomenology has been so widely misunderstood, because we have not yet – not in the least – understood the whole depth of Plato’s summons: sozein ta fainomena, to “save” phenomena. That is, things which are seen, things which appear, fainomena indeed.
I suggested, for my contribution, a title echoing a famous dictum by the French philosopher Paul Ricoeur. Under “culture of suspicion” I understand the mental attitude quite opposed to epistemic trust: a complete lack of confidence in the world of phenomena, that is in the ordinary world of our daily experience. This is both faithful and unfaithful to Ricoeur’s own understanding of his dictum. (…) » (read more)
Gentile De Monticelli, desidero esporle delle domande che partono dal mio vissuto di emigrante italiano da quasi due anni in Cile e che si legano alle tesi e idee che lei sostiene. Ho un groviglio interiore sulle differenze culturali e la percezione dei valori. Ne parliamo spesso fra i compagni/e di migrazione italiani. Siamo carichi di una percezione di vuoto rispetto al giusto e al bello da parte del popolo cileno. E non mi riferisco solo ai valori come entità platoniche: sono i modi in cui non si ha il contatto fisico con le persone, il modo in cui si costruisce socialmente e individualmente un discorso su come si vive in questo Paese, un discorso rassegnato, efficientista e al contempo illuso dalle promesse dello sviluppo economico. Parlo del modo in cui non si sorride e di tanto altro. So che la ricerca del particulare, del proprio vantaggio è diffuso sulla terra, ma qui mancano quelle testimonianze artistiche, storiche, letterarie che fanno respirare l’anima e aiutano la ricerca. La questione è: si puo’ giudicare un popolo come meno sensibile al vero,giusto,bello? lo si può fare a ragion veduta? o tali valori non esistono mai e dunque occorre essere scettici rispetto alla loro attingilbilità e relativisti? Da migranti, siamo portati a dire che non tutti i popoli cercano il bello, il calore umano, la comprensione, l’ascolto. Le differenze di storia, di benessere economico e sociale ci condizionano nello sviluppare modalità di vita luminosi? Che cosa dice la fenomenologia su questo aspetto? Come ci orienta per vivere intelligentemente e umanamente, cioè per crescere e non soffocare, tali vissuti?