Caro Vito, in questi giorni in cui il disprezzo per le istituzioni repubblicane, l’etica e perfino la politica ha toccato il suo zenit, vorrei che cominciassero a riaprirsi le finestre almeno al vento fresco del pensiero. Prendo spunto dalla tua riflessione sulla questione morale (la Repubblica 11/12), e tento di tradurre in atto lo spirito di libertà, di ricerca e di critica che spero continuerà ad animare la nostra Università, anche con la tua presenza e il tuo aiuto. Nonostante l’ombra che la minaccia: il sospetto che brillanti centri di ricerca come il nostro siano accomunati con un imbroglio come l’università-CEPU, agli occhi del pubblico, dal fatto che attingano anche a risorse pubbliche. Questo, io credo, tutti i docenti dovrebbero chiedere a gran voce, che fino all’ultimo centesimo l’erogazione di risorse pubbliche sia, in perfetta trasparenza, giustificata in proporzione al merito: ma l’abbiamo fatto? No, non l’abbiamo fatto, o non abbastanza fermamente e chiaramente, tutti, a una sola voce. E perché non l’abbiamo fatto? Per scetticismo.
È solo un esempio, quello da cui riparto. Il saggio da cui ha preso spunto la tua riflessione cerca di identificare le radici dello scetticismo pratico che divora la vita civile del nostro Paese. Lo scetticismo, cioè, che corrode non solo l’etica pubblica, ma ha invaso tutte le sfere dove il nostro agire è guidato dai nostri giudizi di valore. E soprattutto blocca ogni tentativo di ricostruire quella che ho chiamato l’unità della ragione pratica, vale a dire una fondazione nuova, e se possibile feconda di nuove scoperte, dei nessi fra etica, diritto e politica. Intese fra l’altro tutte come sfere aperte anche alla ricerca di conoscenza, cioè in ultima analisi di verità. So di trovarti su questo ultimo punto in sintonia con il mio tentativo. Ma vorrei che si aprisse una discussione su quello che a me sembra continui a gravare, irrisolto equivoco, su questo tipo di ricerca. Perché da una parte le viene detto: l’etica è l’etica, la politica è la politica, e cercare il nesso fra le due già significa “criminalizzare l’avversario”, preparare lo Stato etico, Robespierre , la virtù e il terrore (interpreto così, magari nobilitandole un po’, le recenti obiezioni di Marcello Veneziani, il Giornale, 27/11 e 4/12). In altre parole, non c’è possibile radicalità etica, ma solo radicalismo politico, tanto più pericoloso in quanto giustizialista e moralista. Ma dall’altra parte le viene detto: c’è un enigma del male, cui è la politica che è chiamata a far fronte, e a volerlo combattere risvegliando le coscienze alla serietà dell’esperienza morale “si entra in monastero, non nel Parlamento italiano”. Tu dici giusto: ma “serietà” è in primo luogo una proprietà che si riconosce all’esperienza morale, se la si considera vera esperienza del bene e del male, capace di nutrire vera conoscenza: e se non ricominciamo da qui, se non la prendiamo sul serio neppure noi filosofi, chi mai potrà farlo? A lasciar la mano ai cosiddetti realisti politici non si sta finendo per dire, ancora una volta, che nelle Città e nelle Istituzioni – tutte, comprese quelle del sapere e della ricerca, le nostre Università, pubbliche e private, ferite ma anche colpevoli – che la ricerca di ragione e giustificazione là dove impera la forza è cosa da “anime belle”? Ma non è così che nel secolo scorso i filosofi hanno tradito il loro compito, e lasciato la civiltà in mano ai demagoghi?
Ecco: nell’insegnarci a chiedere “perché?” a noi stessi e agli altri, in ogni punto e in ogni momento del nostro dire, ma anche del nostro fare, è il cuore sempre pulsante della ragione e della filosofia. Socrate insegna a Eutifrone che non la tradizione, la religione o il mito sono risorsa normativa, ma lo è il fatto che vediamo il male. Dimenticarlo è una grande parte dell’equivoco, caro Vito: non hanno rimproverato anche a te una sorta di intellettualismo, di ignoranza del male di cui l’uomo è capace, contro il quale appunto nascono etica, diritto, politica? Come se Socrate, come se la filosofia o la ragione ignorassero il dato, il dato stesso che le risveglia: il male, appunto, che sappiamo fare. Torti, ineguaglianze, illibertà, ingiustizie e altre cose che gridano vendetta. Perché li ha visti, e non perché li ignora, la nostra ragione è in grado di spiegare a ciascuno il perché di una norma che questi torti impedisce, o limita. Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze e nelle arti. Ma per molto tempo ancora l’etica, il diritto e la politica sono rimasti fuori da questa via. Non sarebbe ora di riprenderla, tutti insieme?
Veneziani ha uno strano modo di concepire una nozione quale quella di “bene comune”. Ebbene, con buona pace di Veneziani (e spero che non sia uno shock razionale troppo forte per i sostenitori de Il Giornale), la nozione di “bene comune” è una questione semantico-linguistica in primis e giuridico-costituzionale in secundis che ha anche una valenza etica. L’errore di Veneziani (et sostenitori), invece, è ritenere che in politica non esistano nozioni etiche e che si debba mantenere distinta l’etica dalla politica; e dunque che il “bene comune” sia una questione pratica priva di valenza etica. È vero che per non cadere negli errori dello Stato etico (relativamente agli errori storici del passato) si dice che etica e politica debbano rimanere distinte, ma ciò ha senso solo nel caso in cui si debba impedire l’assolutismo di certi valori etici appartenenti e condivisi, per esempio, da un certo gruppo a scapito di altri gruppi (e che con ciò si arrivi a legiferare proprio in virtù della predominanza etica di un gruppo su altri), contestare l’assenza di etica non significa affatto porre e auspicare la predominanza dell’etica di questo o quel gruppo. Come sempre, se si usa un minimo di logica, si arriva a capire quali sono i sofismi di Veneziani et sostenitori de Il Giornale. Infatti, quando cita l’esempio della Binetti, il senso del contrasto e dell’opposizione alla Binetti è proprio quello di impedire che una visione etica (in questo caso quella cattolica in merito alla vita e all’eutanasia) possa in qualche modo predominare sulla collettività (è per questo che oggi si vogliono ridiscutere certe legislazioni dello stato).
L’errore di Veneziani, in diefinitiva, è credere che impedire lo Stato Etico significhi anche totale assenza di un’etica pubblica. La critica della professoressa De Monticelli, invece, verte non su etiche individuali ma sull’etica di natura pubblica. In fin dei conti, gran parte del diritto costituzionale non nasce dalla mera biologia, anzi, le spinte propulsive che hanno prodotto invenzioni moderne e meravigliose come lo stato di diritto e la costituzione nascono proprio dal confronto di natura etico-razionale, ma su base comune! Se si contesta che il diritto costituzionale sia il prodotto di una concezione etica collettiva che appartiene a un determinato periodo storico è mutevole e può mutare, tuttavia, non si deve pensare che alla base del diritto debba per forza di cose subentrare un relativismo assoluto; certi valori, sia beninteso, sono stati codificati come di valore universale (la famosa carta dei diritti umani per esempio riconosciuta da molti Stati), ergo, esiste una etica con valori comuni e universali (e questo per rispondere anche al nichilismo tipico della Chiesa Cattolica denunciato nell’articolo della professoressa in cui annunciava la sua abiura).
Il Bene Comune è fatto anche di condivisioni di basi etiche comuni, che guarda caso sono anche alla base dell’agire politico e non sono frutto solo della produzione di un gruppo storico, bensì costituisce il frutto dell’evoluzione continua e della comunicazione di più gruppi, di più entita, succedentesi nel corso delle varie epoche storiche. La posizione di Veneziani è anche piuttosto pericolosa, a mio avviso, poichè sembrerebbe quasi auspicare una totale separazione tra politica ed etica; ma allora, volendo tirare le conseguenze logiche di tale posizione, cosa impedisce a un gruppo politico di produrre motivazioni meramente politiche per giustificare (politicamente parlando) uno sterminio fisico degli oppositori? Bobbio a più riprese parlava anche di “dittatura della maggioranza”, e questo ha anche una valenza che riguarda l’etica pubblica di natura laica, ovviamente (forse citare a sproposito Bobbio per certe cose e mancare di citare Bobbio per altre cose è tipico di chi faccia il gioco di tirare l’acqua sempre al proprio mulino). Mi scuso per gli errori di battitura ma è che, pur seguendo da molto questo splendido sito, mi manca sempre il tempo di articolare dovutamente le mie argomentazioni; e oggi colgo l’occasione per farlo (occasione più unica che rara, a dire il vero).
Vorrei dire a Claudio che le sue argomentazioni io non solo, come è abbastanza prevedibile, le condivido, ma – e questo è qualcosa di più – mi sono utili: utili a tradurre anche nel linguaggio più corrente dell’etica individuale ed etica pubblica le considerazioni – che sono del resto parte centrale della ricerca fenomenologica in materia di valori e norme – fra ethos ed etica. Grazie del contributo!