Ho seguito con molto interesse su questo blog lo scambio occasionato dall’uscita della nuova traduzione del Sympathiebuch e dal bel commento di Guido Cusinato. È un tema che mi ha appassionato e che continua ad appassionarmi, e cui, nel mio piccolo, ho cercato di dare qualche contributo. Ciò che però, seguendo lo scambio tra Cusinato, De Monticelli e Paolo Costa, continuava a frullarmi per la testa è un lievissimo disagio, cui stentavo a dare un’identità teorica. Alla fin fine però credo di esserci arrivato. Il fatto è che tutte le analisi sulla costituzione dell’intersoggettività e sul riconoscimento dell’Alter Ego sembrano lasciar fuori un punto che solo apparentemente può sembrare ‘empirico’, o ‘sovradeterminato’, ma che invece mi pare del tutto degno di considerazione teoretica. Di norma tali questioni hanno di mira un quadro di condizioni esperienziali o trascendentali tali per cui noi saremmo in grado di riconoscere qualcuno come un soggetto-come-noi, un Alter ego appunto. Tali questioni mettono in campo la possibilità di riconoscere l’altro come un soggetto riflettente o come un soggetto ‘normale’, ecc. C’è però un’ottica che mi pare trascurata e dal cui punto di vista mi piacerebbe porre la seguente domanda: esiste un ordine di ragioni che non è né cognitivo, né antropologico, ma morale, tale per cui noi siamo radicalmente impediti a riconoscere l’altro come un Alter Ego? E se esiste, la sua esistenza è a sua volta indice di un errore (morale o cognitivo) oppure si tratta di un misconoscimento legittimabile?
Mi spiego, rivelando l’ordine di pensieri che mi ha condotto a questo interrogativo. Come un buon numero di italiani, tra cui alcuni frequentatori del presente blog, mi trovo da tempo in una profonda difficoltà nel momento in cui devo dar conto della persistente venerazione di una parte cospicua della popolazione nei confronti dell’Utilizzatore Finale, nonché Unto del Signore, che da un paio di decenni domina la scena politica italiota. La difficoltà è seria, in quanto mi rendo conto che, nonostante ogni tentativo razionale di persuadermi che si tratta di mere difformità d’opinione politica, che non precludono affatto ad una comunità antropica di fondo, finisco per non convincermi granché. Il punto non mi sembra appartenere al novero delle questioni sussumibili sotto ‘divergenza d’opinioni’. Se odo, per dire, Ghedini, Lupi, Quagliarella o Cicchitto spiegarmi con la faccia seria che le note telefonate in questura sono da ascrivere al fatto che ‘il problema con B. è che vuole sempre aiutare tutti e che il difficile è fargli dire di no’, un dubbio di fondo mi assale: sono dei Visitors? Tra un momento si gireranno per ingollare un ratto vivo e dichiarare l’invasione della galassia? Si dirà, non ci credono davvero, lo fanno per interesse. Già, ma questo mi risolve le cose fino ad un certo punto: quale specie biologica è capace di mimare comportamenti umani alla perfezione e poi di mentire con tutte le espressioni facciali dell’autentico empito di sdegno o della nobile sprezzatura? Qual è l’orizzonte assiologico che può dar senso a questo comportamento? E inoltre, so per certo che vi sono molti, moltissimi che intrattengono le medesime credenze e convinzioni senza diretto tornaconto. C’è gente che è davvero convinta che Berlusconi sia un devoto cristiano e un baluardo della famiglia, che deve difendersi suo malgrado da una persecuzione della magistratura comunista, che quando ci sono da prendere decisioni in conflitto di interessi lui esce dal Consiglio dei Ministri, che il debito pubblico italiano è stato accumulato dai comunisti (e non dal suo amico Craxi), ecc. ecc. Nota bene, sono convinti di tutto ciò pur avendo avuto accesso alle medesime fonti a mia disposizione.
Orbene, il punto filosofico di fondo è il seguente: di fronte a queste persone io (e sono certo non trattarsi di una mia isolata perversione) non sono in grado di riconoscere loro l’appartenenza ad una comune umanità. Ovviamente non ho (quasi) alcun dubbio che si tratti di membri biologici della specie umana, che sono dotati di autocoscienza, che sono in grado di produrre strumenti, che sono dotati di linguaggio, che sono animali razionali, ecc. ma tutto ciò non mi fa fare alcun passo avanti quanto al riconoscimento della loro umanità. In concreto ciò vuol dire che se mi trovo a discutere non cerco più di convincerli o di trovare ragioni, che non credo che abbiamo niente da dirci, che li ritengo a tutti gli effetti perduti per l’umanità, che se fosse legittimo privarli di voto non avrei alcuno scrupolo a farlo, ed infine che se dovessi scegliere sulla proverbiale torre chi buttare di sotto tra uno di loro ed il gatto randagio che sonnecchia sull’albero di fronte alla mia finestra non avrei alcun tentennamento a salvare il gatto.
Sul fatto che empiricamente questo stato d’animo di misconoscimento dell’umanità altrui su base morale sia una condizione storicamente diffusa non ho il minimo dubbio. Né ho dubbi sul fatto che si tratti di un’accezione di riconoscimento o misconoscimento dell’Alter Ego molto più politicamente influente del generale riconoscimento di co-soggettività. Ciò su cui ho seri dubbi e che mi lascia a disagio con me stesso, è se questo tipo di misconoscimento radicale a base morale sia esso stesso moralmente legittimo: su ciò mi piacerebbe sentire l’opinione di chiunque ne abbia una.
Ho passato la giornata tra lo studio dell’articolo di Guido Cusinato, con la densa discussione delle tesi di Vincenzo Costa, e la lettura della fresca edizione del Sympathiebuch. Tuttavia, non credo di poter ancora tentare una risposta alla difficile domanda posta sui nostri amici Visitors da Andrea Zhok. Aggiungo, che a causa delle risate suscitate in me e nei miei familiari da questo suo articolo, probabilmente non riuscirò a riconquistare un ritmo normale di respirazione almeno fino a domani mattina. Vedere su questo nostro blog i più austeri fenomenologi trasformarsi in corsivisti – e che corsivisti! -, per me giornalista, è una specie d’insperata nemesi. Prometto, comunque, personalmente, che non lascerò cadere la serissima questione.
Ma qualcuno se la ricorda quella vecchia vignetta di Andrea Pazienza in cui il figlio chiedeva al padre: “Papà, gli elefanti volano”. “Dove l’hai letta ’sta cazzata?”. “Sull’Unità!”. “ Oh, ehm, sì, cioè… Ma niente de che, 30, 40 cent…”?
Il tono di Pazienza era sicuramente bonario e affettuoso, ma basta (e avanza) per ricordarci che siamo appena usciti da un secolo in cui anche le più assurde razionalizzazioni a fini ideologici sono state la regola e non l’eccezione. La menzogna in politica non è certo una novità e l’amore o l’odio possono spingerci a credere di tutto. Hannah Arendt si consolava pensando che anche la capacità di dire bugie è un indice della libertà umana. In effetti, da questo punto di vista, il nostro Presidente del Consiglio e la sua cerchia di fedelissimi sono a loro modo “esemplari”. Altro che Visitors! Per quanto mi riguarda, li riconosco benissimo. Certo, a stupirmi è la loro abilità. Ma se esistono musicisti o atleti le cui prestazioni mi lasciano sbalordito, perché non dovrebbero esistere campioni mondiali della menzogna? Ovviamente, ciò che ci getta nello sconforto è la coscienza di vivere in un mondo che premia simili talenti anziché ostracizzarli come vizi. Ma, a pensarci bene, se dovessimo disconoscere l’umanità dei Berluscones, dovremmo disconoscere gran parte della storia dell’umanità. Voi che ne dite: dico cose sensate o stamattina mi sono svegliato col piede sinistro?
Capisco il senso dell’intervento di Zhok (che ha scritto un ottimo libro sul Sympathiebuch di Scheler) ma non penso che Paolo si sia alzato con il piede sinistro. Non si tratta di Visitors. E forse è il caso di andare anche oltre Arendt. Ad es. ho appena finito di leggere il libro di Drew Westen, “La mente politica”. Confrontando le campagne elettorali dei repubblicani e dei democratici americani, Westen ha messo in evidenza come nei dibattiti televisivi i candidati democratici spesso si affannavano a proporre programmi e argomentazioni documentate, cioè ragionamenti logici, ma in tal modo si rivolgevano alla parte sbagliata del cervello, quelli repubblicani puntavano invece ad accendere le emozioni. I risultati elettorali dimostrerebbero che le decisioni degli elettori vengono prese a livello del sentire.
Mentre leggevo il libro mi passavano davanti la mente le immagini dei vari B., Cicchitto, Capezzone, Ghedini. Raccontano falsità è chiaro, ma sono appunto falsità che funzionano, studiate scientificamente, non improvvisate. Vorrei cioè chiedere a Vattimo: se è vero che anything goes, in base a quale valore postmoderno possiamo dire che non sono vere? Tutta la mitologia di B. come l’imprenditore che si fa da se e salva l’Italia è una eccezionale storytelling, genialmente costruita e raccontata. E funziona scientificamente, quindi in un certo senso è “vera”. A questo punto mi domando: perchè i politici progressisti non sono stati capaci di parlare alle emozioni? Purtroppo una risposta ce l’ho: fino al crollo del muro di Berlino parlavano ancora con il mito della classe lavoratrice (che era comunque pur sempre un buon racconto) poi hanno letto troppo Lyotard. O meglio si è verificato un corto circuito fra credo postmoderno dell’anything goes e retaggio di una convinzione illuministica, secondo cui le scelte vengono prese su base razionale e non emozionale. In altri termini il credo postmoderno sulla fine delle grandi narrazioni si è associato al sospetto e all’avversione “illuministica” nei confronti della sfera affettiva. Ecco che allora nelle campagne elettorali invece di emozionare si limitano a snocciolare dati, numeri, statistiche, ecc. Al massimo affermano che anche pagare le tasse è emozionante. E qui B. sbanca. Infatti non si è ancora capito che la più coerente conseguenza del credo postmoderno dell’anything goes è proprio B. stesso. B. infatti coniuga il relativismo con la capacità di parlare alle emozioni, di compattare sui sentimenti della paura, dell’odio, dell’erotismo (pornografico).
C’è un modo diverso di parlare alla parte giusta del cervello dell’elettore? Sicuramente si, ma bisogna avere dietro una diversa cultura, avere dei valori in cui credere, ecc. In secondo luogo bisogna avere un leader carismatico. Scheler diceva che senza carisma un politico non è leader. Invece i progressisti chi propongono? Bersani. Beh, a me pare che questi siano i veri marziani. Guardate al contrario Fini — che considero un avversario con cui riterrai sbagliato allearsi, ma che ammiro, anche se non capisco perchè si è svegliato solo ora — ha carisma e in più ha anche valori e una cultura diversa da quel relativismo che ci impedisce di dire: ma Cicchitto e Ghedini basta! vergognatevi!
Sono perfettamente d’accordo con Guido Cusinato: paghiamo ancora oggi l’adesione superficiale alla massima anything goes, in sede epistemologica prima ancora che etica. Anche se resta da capire perché quello slogan, che non è sorto nel contesto culturale italiano, nel nostro Paese abbia contribuito a portarci dove ci troviamo. Mi convince meno, invece, la polarizzazione tra una destra “emozionale” (dunque di successo) e una sinistra “razionale” (quindi destinata oggi alla sconfitta). Ieri sera avrete forse assistito con me alla prima puntata di Vieni via con me, l’atteso e dibattuto programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Non si può certo dire puntasse più sulle ragioni che sulle emozioni, e non senza qualche facile e prevista scivolata retorica. D’altronde, è la maggior parte dei format della comunicazione che oggi lo impone. Non so se l’avete notato, ma nelle ultime settimane gli scoop giornalistici che più hanno fatto discutere non sono sorti all’interno di un contenitore giornalistico in senso stretto, bensì in quello strano spazio delle ragioni e delle emozioni che è l’infotainment (information + entertainment, come, per l’appunto, Che tempo che fa, dove vanno a fare i loro annunci Marchionne e Camusso). D’altronde, se facciamo un elenco dei programmi radiotelevisivi ad alto gradimento di maggior incisività pubblica, fatta eccezione per l’inchiesta pura di Report e Presa diretta, negli ultimi anni troviamo: Striscia la notizia, Le Iene, Caterpillar, Sansone, accanto a quell’incredibile teatro mediatico che è l’universo di Santoro (per tacere dei contenitori del palinsesto del mattino, quelli dove Berlusconi va più forte). Ora: in tutti questi format (pur così diversi fra loro), è indubbio che le emozioni sopravanzino non di rado le ragioni e persino i fatti. Eppure nessuno di loro può essere arruolato nel campo della destra (neppure Striscia, tutto sommato, almeno automaticamente). Proprio come ci ha insegnato Cusinato nelle sue belle osservazioni sul Sympathiebuch, per esempio dove chiarisce come la mera apertura all’altro non si garanzia di buone emozioni, è sulla qualità (fatta di autenticità, consapevolezza, evidenza, … ) dello spazio delle ragioni/emozioni italiano (televisivo e non) che dovremmo concentrarci, più che sulla presenza/assenza di emozioni in quanto tali, e non senza disponibilità all’autocritica (io, per esempio, non di rado abbandono infastidito l’arengo del carismatico mattatore televisivo Santoro, incline a fare la storia non meno, anzi più, che a raccontarla, nonostante i suoi inchiestisti siano tra i migliori in circolazione). Provo a fare qualche esempio. Non sono un fan di Beppe Grillo. Tuttavia, dal racconto che mi hanno fatto di un suo recente spettacolo teatrale a Milano, nonostante i molti espedienti retorico-comici con i quali ha costruito e puntella il suo carisma, c’era anche molto altro, che i media – nella rappresentazione corrente – oscurano dietro l’accusa dell’antipolitica, della volgarità ecc. Parlo delle proposte di legge per garantirci un Parlamento “potabile” da indagati e condannati, della campagna per l’acqua pubblica, per un piano antispeculazione immobiliare nelle grandi città, per la banda larga pubblica e gratuita (e potrei andare avanti), cui Grillo e il suo movimento dà effettivo seguito nei comuni dove le sue liste sono in consigli comunali. Premetto che per mille ragioni, anche idiosincratiche, non voterò probabilmente mai una lista Grillo. Mi premeva solamente attirare l’attenzione su un fenomeno che andrebbe vissuto e studiato da vicino quando si tratta di capire che cosa può essere uno spazio delle ragioni/emozioni, intriso anche di carisma, ma di buona qualità. Il problema è che anche questo – ammesso lo sia – è uno spazio di parte. Lo spazio del confronto tra le parti, invece, si è progressivamente corrotto, in un percorso che si potrebbe tracciare, portandoci a un laboratorio di inciviltà degli pseudoaffetti e delle pseudoragioni, che è l’opposto sul medesimo continuum di uno spazio delle ragioni/emozioni di qualità. La stessa enfasi sulla necessità di una nuova o alternativa narrazione è indicativa. Una narrazione, per quanto strutturalmente prospettica, dev’essere narrazione di una e una sola realtà, sul cui senso in una certa misura si deve per lo più convenire. Ma senza uno (o più spazi) pubblici delle ragioni/emozioni di qualità, la realtà sfuma nella fiction, la filosofia nella retorica, la scienza nella propaganda, l’esemplarità nel populismo. E allora rimangono soltanto quelli che Mario Perniola, in un bel libro che altre volte ho citato (Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi 2009), chiama i “miracoli e traumi” della nostra società di massa, di cui l’Italia è teatro ormai quotidiano. Arrivo ora alla domanda di Andrea. Sì, anche a me sembrano Visitors. Ma temo, purtroppo, che questa disumanizzazione, che io chiamerei spersonalizzazione, sia un vissuto reciproco. Una Repubblica che, riducendo il suo orizzonte a un presente assolutizzato, coltiva soltanto pseudoragioni e pseudoemozioni, si popola di pseudopersone. Ma l’azione etica, se non è questo riconoscimento e l’istanza che da esso procede verso ragioni ed emozioni autentiche, che cos’è?
Dimenticavo un particolare importante: il libro di Drew Westen è uscito prima delle elezioni di Obama, che vinse le elezioni del 2008 (e quindi assieme a Clinton rappresenta un’eccezione fra i candidati democratici) proprio perchè riuscì a parlare alla parte giusta del cervello degli elettori americani facendo appello a emozioni “solidaristiche” e riferendosi a un insieme di valori largamente condivisi dal popolo americano. I risultati delle elezioni di medio termine indicano però come questa strada sia tutta in salita: è molto più facile cavalcare la paura, l’odio, ecc. Ma non vedo alternative. Come dicevo la democrazia è difficile e non può ignorare queste dinamiche. Per il resto concordo con Stefano.
I commenti di Paolo, Guido e Stefano mi hanno fatto utilmente riflettere, anche se temo di dover dire che non mi hanno convinto. La colpa è mia, perché non sono riuscito a far passare con chiarezza il punto qualificante, probabilmente perché di chiarezza non ne ho a sufficienza in prima persona.
Paolo ci ricorda con la barzelletta di Pazienza che anche fuori dalle mura berlusconiane esisteva (ed esiste) la malafede. Non ne ho mai dubitato. I Visitors si infiltrano dappertutto. Poi la questione diventa quella, più interessante per me, della menzogna come capacità atletica e virtuosismo, e qui Paolo scrive che, questi mentitori, lungi dal non riconoscerli, li riconosce benissimo. Beh, ho paura che qui ci sia una polisemia involontaria: anch’io li riconosco, nel senso di averne ampia contezza, ma non li riconosco nel senso che non do loro riconoscimento in senso umano. E perché non li riconosco in senso umano? Forse solo perché sono dei virtuosi della menzogna? No, Paolo, non è questo il punto. Se domani Sandro Bondi comparisse in lacrime in televisione dicendo che, finalmente, ora che Al Tappone è sul viale del tramonto, può confessare che da sempre lui è stato una quinta colonna comunista, un infiltrato diabolico nelle fila del nemico. Tutto per poter spiare il nemico da vicino. – “Che fatica, compagni, che pena!! Ma ora, finalmente tutto è finito! Niente più recite, niente più identità segrete! – Ebbene, in questo caso direi che si tratta di virtuosismo della menzogna, ma direi anche che proprio solo adesso che mi è chiaro il senso della menzogna, il compagno Sandro James Bondi mi si mostra per la prima volta come umano. Il vero problema non è la menzogna strumentale, ma il dubbio che non vi sia alcun minimale terreno assiologico in comune tra noi e i Visitors. Non sono abbastanza kantiano da credere che mentire sia sempre un male ed un’infrazione all’imperativo categorico, ma, sì, credo e sento che una menzogna così radicata da distorcere la visione di se stessi, degli altri, dei fatti, della storia e delle prospettive, questo tipo di menzogna non abbia più nulla in comune con una limitata menzogna strumentale, e che sia un’incarnazione del male.
Paolo infine chiude il suo commento appellandosi al fatto che, se dovessimo misconoscere i berluscones, finiremmo per dover disconoscere gran parte della storia dell’umanità. Qui credo ci sia un fraintendimento. La posizione che sto sostenendo non è né politica, né giuridica, e dunque non sta cercando di emettere sentenze generali o di prescrivere norme da adottare. Sto parlando di come in interiore homine ciascuno di noi è legittimato (o meno) a considerare altri esseri di umano sembiante, ma di valori apparentemente ostili ed incommensurabili. Questa è la stessa differenza che passa tra credere che vi sono persone che meritano di morire e sostenere la pena di morte: come noto, ci sono eccellenti ed innumerevoli motivi per negare la legittimità della pena di morte anche se si ritiene che vi siano persone che meritano di morire.
Sul commento di Guido Cusinato ci sarebbe moltissimo da dire, ma mi limito ad un punto. Un poco provocatoriamente mi sentirei di dire che gli esseri umani parlano ad altri esseri umani, non a parti del cervello, ‘giuste’ o ‘sbagliate’ che siano; anche se forse i Visitors lo fanno ed in questo modo vincono le elezioni. Rivolgersi alle ‘giuste’ parti del cervello (a parte tutta la fuffa neurofisiologica latente in questo tipo di prospettive) eticamente significa trattare gli uomini come mezzi e non come fini. Se per fare politica e vincere le elezioni devo dispormi a solleticare le giuste emozioni con le giuste finzioni, francamente preferisco emigrare in una fattoria nello Utah, di quelle dove non passa né il postino né l’esattore delle tasse, perché se no gli sparano.
Ma. strategie elettorali a parte, il punto che mi sta a cuore è di nuovo un altro. L’esempio del Bondi redento mi sembra segnalare un fatto: se riteniamo che l’alieno è redimibile, se riteniamo che, almeno in linea di principio, un giorno potremmo scoprire che dietro a quel corpaccione informe si cela un’anima, allora è vero che il disconoscimento radicale di umanità non potrebbe avvenire. Questo è un buon argomento per non trarre conclusioni politiche o giuridiche da un eventuale misconoscimento di umanità cui ci sentissimo predisposti: per quanto l’istinto sarebbe di schiacciare il rospo, chi può escludere che un giorno questi non si tramuti in principe?
Ma se restiamo sul piano del giudizio di riconoscimento o disconoscimento in interiore nomine, astenendoci da applicazioni operative, la questione rimane del tutto aperta. Se avessimo ragione di ritenere che la deformazione è permanente? Che Ghedini, se fosse cresciuto in una famiglia invece di essere allevato dagli orchi, sarebbe stato normale, ma che oramai il danno è fatto? In tal caso, che è quello che mi interessa, cosa dovrebbe vietare o sconsigliare il disconoscimento? Il punto che sollevo è semplicemente questo: noi ordinariamente disconosciamo la comune umanità a membri della specie umana che riteniamo mentalmente malati. Ciò non implica che li depriviamo di diritti (non necessariamente), ma si ripercuote in comportamenti noti e che nessuno ritiene controversi: non cerchiamo di ragionare con queste persone, né di convincerli di ciò che è bene e male, non ci fidiamo di loro, ci mettono a disagio e mai e poi mai gli affideremmo la guida di un’automobile, figuriamoci di un paese. Vi ricorda qualcosa? Credo che un analogo tipo di disconoscimento lo tendiamo ad effettuare quando siamo posti di fronte ad esseri con un ordinamento assiologico ostile, incommensurabile ed irredimibile; ai Visitors, insomma. Che poi, come ammonisce Stefano, anche i Visitors non riconoscano noi, beh, va da sé, dopo tutto sono alieni: se nel loro ordinamento assiologico è inscritta la necessità di nutrirsi di esseri umani, consumare il pianeta terra e poi sbranarsi tra di loro, non sono certo che concedergli uno statuto di reciprocità, riconoscendoli come Alter Ego, sia la cosa giusta da fare.
Ecco, direi che qui sta il punto: nel riconoscere l’altro come Alter Ego noi assumiamo uno statuto di reciprocità, che si pone nella dimensione di una ‘comunità (o comunanza) ideale’. Ma se riteniamo che la difformità assiologica sia tanto radicale da non consentire uno spazio di condivisione, come accade quando identifichiamo una malafede diventata seconda natura, in tal caso conservare il riconoscimento interpersonale è psicologicamente impossibile e, credo, anche moralmente sbagliato. (Questo mi pare un caso affine a quello noto in filosofia politica in cui si dice che l’unico limite alla tolleranza sta nel non poter tollerare l’intollerante.)
Ad Andrea posso replicare solo ribadendo che sulla questione del disconoscimento della comune umanità sto dalla parte di Terenzio e pongo l’assicella molto molto più in basso di quanto non la collochi lui. Uno dei motivi per cui non fatico a riconoscere l’umanità di Berlusconi e dei suoi sodali è proprio che, in fondo, mi basta poco per comprendere le ragioni o pseudoragioni che li muovono (siano essi desideri o credenze). Alcune mi sembrano radicalmente sbagliate; altre strettamente personali e difficili da condividere; altre contestabili solo con argomenti raffinati (in fondo, esistono persone ragionevoli anche tra gli elettori di centro-destra). Quindi li riconosco non solo come esseri umani (come membri della specie umana), ma persino come esseri razionali. Non so voi, ma alcune parti di me mi spaventano non meno dei Berluscones e, a differenza dei Vittoriani, fatico ad attribuirle solo alla scimmia che è in me. Per altro, i presunti Visitors non sono né bestie né extraterrestri. Come la maggioranza di voi, sono cresciuto in mezzo a loro, sono stato socializzato insieme a loro, ho discusso con loro sino allo sfinimento, a volte mi sono stupito della loro (ma anche della mia!) ottusità e aggressività, ma non mi è mai passato per la testa di pensare che non facessero parte della mia comunità morale. Lo stesso dicasi per i cosiddetti folli. Il fatto che non applichi a loro tutte le regole e aspettative di comportamento che applico a me stesso e ad altri non è secondo me una conseguenza di un atto di disconoscimento, ma di riconoscimento. La loro mancanza di libertà è un caso limite del tipo di libertà di cui beneficio in quanto membro (moderatamente) ben funzionante della specie umana. E da questa attitudine mi aspetto delle emozioni corrispondenti e, quando non appaiono, me lo spiego con delle ragioni divenute impermeabili a un punto di vista più riflessivo e meno ego-centrico (il rancore o il disgusto sono buoni esempi di emozioni che possono facilmente diventare impermeabili a ragioni più impersonali). Il disconoscimento della comune umanità mi sembra una via d’uscita troppo semplice dai dilemmi morali (riconoscere l’altro è una prestazione morale molto più basilare che non tollerare l’altro).
Detto ciò, mi pare che il problema sollevato da Stefano alla fine del suo post sia la questione davvero cruciale. L’assenza di uno spazio unitario di confronto, di una sfera pubblica condivisa universalmente, di un vero e proprio mondo comune, è una delle sfide più drammatiche che devono affrontare le democrazie contemporanee. Riflettendo in questi giorni sui dilemmi e paradossi del processo di unificazione politica europea, non ho potuto fare a meno di ragionare sull’assenza di una sfera pubblica europea e sulle sue possibili conseguenze. Costruendo uno dei proverbiali castelli in aria in cui i filosofi amano trascorrere i pomeriggi, mi è capitato di pensare al legame che ha unito sin dalle sue origini la nascita dell’idea di sfera pubblica al processo di incivilimento descritto da Norbert Elias. In fondo, l’ideale della civil society è proceduto fianco a fianco con lo sviluppo della polite society e, quindi, a una certa immagine (a cavallo tra fatti e norme) del ruolo delle passioni e della loro gestione negli spazi pubblici. Questa costellazione culturale è da anni entrata in una fase di profonda metamorfosi. Non può essere un caso che la crisi politica italiana sia andata di pari passo con un generale imbarbarimento dei costumi e della lotta politica, al punto che ormai anche la semplice buona educazione viene fatta passare per buonismo o moralismo ipocrita. Sono anch’io convinto, tuttavia, che in questo ambito le ragioni e i torti si distribuiscano secondo un ordine tutt’altro che lineare, che dovrebbe sconsigliare letture frettolose o manichee.
In ogni caso, la domanda politica più importante riguarda il futuro: che cosa si nasconde per noi dietro l’angolo del presente? È interessante che molti guardino all’Europa anche come una roccaforte del processo di civilizzazione, ma è difficile capire se la scelta dell’UE di non affrontare mai di petto i dilemmi politici della contemporaneità sia una strategia saggia, che sul lungo periodo produrrà innovazioni istituzionali oggi inimmaginabili, oppure solo un modo per posticipare l’inevitabile catastrofe. Voi che ne dite: dobbiamo rassegnarci a vivere, come ha scritto Stefano, in un mondo stipato di pseudoragioni e pseudoemozioni, e perciò popolato da pseudopersone, o possiamo sperare in un futuro meno desolante?
Per Paolo:
Terenzio diceva solo che “Nihil humanum mihi alienum puto”, mancano riferimenti diretti alla frase “et Alexander Bondus homo humanus est”…
Quanto alla scimmia che è in me, come l’etologia insegna, ha un’istintiva diffidenza per i rettili, anche quando portano la cravatta.
La discussione mi sembra, oltreché gustosa, molto istruttiva. Però rischia di essere equivoca, soprattutto a causa dell’ampiezza di senso delle coppie umano/disumano, umanità/disumanità. Provo a farla semplice semplice. Una persona priva della vista è certamente umana in numerose accezioni del termine. Ciononostante, se si mettesse deliberatamente al volante di un’auto in Times Square, costituirebbe un’indubbia minaccia per gli altri umani. Tanto è vero, che se si ostinasse, nonostante l’umano consesso glielo vieti, a sfrecciare tra le avenue newyorkesi, non esiteremmo a fermarla in qualunque modo. Il prefisso dis-, però, che in questo caso può essere invocato sia in merito alla mancanza del senso della vista sia alla mancanza di consapevolezza del limite che comporta, non ci mette a disagio come quando lo usiamo in merito a dis-umano/dis-umanità. E in effetti non fa altro che descrivere una palese condizione di minorità rispetto a una buona condizione d’esercizio della propria sensorialità e razionalità pratica preliminarmente assunta come norma condivisa. Proviamo ad applicare l’analogia alla cecità al valore quando giunge alle sue estreme conseguenze, come nel caso della menzogna radicale. Mi riferisco non solo alla pratica del mentire occasionalmente e condizionatamente, ma alla pratica del credere alle proprie menzogne, come rovescio del misconoscimento di qualunque norma di verità, teoretica e pratica, nella convinzione che il successo immediato della propria azione sia l’unico metro della stessa; o ancora, sempre come esempio di male radicale, si pensi alla rivendicazione e al limite all’istituzione sulla base della propria forza e potenza – fisica, mediatica, elettorale… – del diritto alla menzogna e alla reticenza fino all’irresponsabilità pubblica (una variante estrema è il Führerprinzip assurto a fonte di legge). Non avrebbe forse senso, in questo caso, parlare in senso letterale di deriva verso il disumano, inteso come variante limite dell’umano anche se non radicalmente altro da esso? È soltanto nel quadro di una norma dell’umano, infatti, che posso intendere il disumano. C’è però un senso per cui il richiamo ironico (non troppo) ai nostri amici Visitors resta assolutamente pregnante. Caratteristico di quella disumanità come minorità morale portata al limite è il suo ridurre il soddisfacimento immediato della propria capacità vitale (fisica, economica, politica ecc) a esclusivo criterio della propria azione (Berlusconi, per dire, ha appena surrealmente dichiarato: «Meglio la guerra civile che le mie dimissioni!»), in una sorta di appetito senza orizzonte che fa sì che una persona diventi letteralmente mezzo a se stessa (ovvero, non più persona nemmeno per se stessa). I cattivi prima o poi si autodivorano, come è noto. Ora: non credo serva essere etologi per esplorare il nostro immaginario ctonio (profondamente intrecciato con la nostra tradizione morale e politica: si pensi all’immagine del Leviatano) per capire perché il male morale radicale, quello che inibisce ogni forma di riconoscimento dell’Alter Ego, evochi in noi l’ordine di ferinità che popola miticamente e mitologicamente le viscere della terra. Il che non significa che non si possano rispettare, amare o venerare i serpenti (anzi!). O che ci si debba sentire in diritto di chiudere Alexander Bondus in un rettilario; tanto più che i serpenti potrebbero giustamente lamentarsene. Il mondo ctonio, infatti, incorpora anche valori fondamentali, ben riconosciuti – se non altro – nella tradizione precristiana e non cristiana. E infatti, come ha messo bene in chiaro proprio Andrea ne Il concetto di valore: dall’etica all’economia (Mimesis, 2001) anche forza, volontà di potenza, insieme a molti appetiti che pure mirano di per sé all’immediato soddisfacimento, hanno a che fare con quello che comunemente intendiamo per valore. Valore non morale, però. E dunque sotto certe condizioni, e contesti, disumano? O persino infra-umano? Nel senso di colpevolmente sub-personale?
Capisco il ragionamento di Stefano e negli anni passati l’ho esplorato in lungo e in largo in molti miei scritti. Sarebbe ridicolo perciò se, come per altro fa la maggioranza dei filosofi contemporanei, negassi qualsiasi valore a un uso (cautamente) normativo del concetto di umanità. L’esperienza, però, mi ha insegnato che va impiegato giudiziosamente e in dosi rigorosamente omeopatiche (e lo stesso dicasi per il concetto di male radicale). Parlare di umanità e disumanità può sicuramente servire a ricordarci che le nostre riflessioni normative non aleggiano nel vuoto, ma poggiano su una comprensione, concettualmente “densa”, di certe forme di vita e delle loro condizioni d’intelligibilità. E, senza dubbio, esistono esperienze dell’altro che mettono a dura prova la nostra idea di umanità, ma sarebbe ovviamente assurdo che ogni reazione di sgomento ci conducesse automaticamente a disconoscere l’umanità dell’altro. Un simile dubbio aggiunge in molti casi spessore e drammaticità alla nostra esperienza della diversità morale, ma rischia anche di appiattirla ingiustificatamente. Perché, scusate, se davvero riteniamo che il modo in cui Berlusconi tratta le donne ci autorizzi a considerarlo un Visitor, come dovremmo considerare quei maschi che provengono da altre culture intrise di un maschilismo per noi inconcepibile o, per restare entro i confini del nostro mondo, una persona che si prostituisce senza provare disgusto o vergogna o uno dei tanti turisti sessuali che affollano le nostre città? E un ragionamento analogo potrebbe essere esteso ai fanatici religiosi o, perché no?, ai più sfegatati tra i tifosi di calcio.
Senza spingersi così in là, è opportuno ricordare che non può certo essere l’incapacità di distanziarsi criticamente dai propri desideri di primo grado a stabilire chi fa e chi non fa parte del consesso umano, anche se la distinzione tra desideri di primo e secondo grado è un utile strumento per tracciare i confini (labili) della forma di vita umana. L’umanità non consiste solo nei suoi limiti più estremi (che, in ogni caso, vanno pensati come confini plastici, come Grenzen, non Schranken, per richiamare una celebre distinzione kantiana). Descriverci come animali morali, non significa ovviamente pretendere da tutti che si comportino come il soggetto morale kantiano o come San Francesco…
Non dobbiamo mai dimenticarci, infine, che una delle cose che più ci inquieta nelle persone che comprensibilmente giudichiamo disumane è proprio la rapidità con cui disconoscono lo status di umanità agli altri. Già questa osservazione minima dovrebbe indurci alla prudenza nei nostri giudizi. Per inciso, devo confessarvi poi che mi stupisce sempre la rapidità con cui oggi si tende a trasformare i conflitti politici radicali in una diagnosi medico-scientifica. Usare un lessico psichiatrico per descrivere il fenomeno Berlusconi può essere divertente e rassicurante, ma non ci fa fare grandi passi in avanti verso una soluzione politica dei problemi di cui Berlusconi è anche il sintomo e non solo la causa.
Ma non voglio apparire troppo “buonista”. L’odio e l’antipatia avranno sempre un loro spazio irriducibile in politica. Ma proprio l’incivilimento delle forme del conflitto politico ci chiede di gestirli con cura e attenzione, tanto più quando si rivolgono verso persone e comportamenti senza dubbio “odiosi”. Non c’è dubbio che in democrazia l’intollerabile vada tollerato finché possibile. In caso contrario, le nostre vite sarebbero davvero terribili. Tutti noi abbiamo una memoria per quanto vaga dell’atmosfera che si respirava in Italia negli anni di piombo. Dovrebbe bastare questo per ricordarci che il processo di civilizzazione politica in Italia è tutt’altro che un fenomeno con radici profonde. E molte delle nostre energie dovrebbero essere profuse per la manutenzione di quello spazio comune, senza il quale è la vita democratica stessa a perdere di senso.
Per farla breve, si può essere duri e fermi contro i Berluscones senza disconoscerne l’umanità.
Ovviamente Paolo ha ragione a sottolineare che con delibere circa l’umanità o disumanità altrui bisogna andarci piano, ed in effetti, sottolineando che non intendevo trarre conclusioni operative dalle mie ipotesi (Epoché) volevo proprio interporre un cuscinetto tra la presente discussione e conclusioni potenzialmente pericolose.
Tuttavia il punto che mi premeva sottolineare, e che Stefano ha colto perfettamente nell’ultimo intervento, non riguardava né l’insieme dei votanti PDL, né svariati comportamenti schifosetti, ma certo non disumani, di Al Pappone. Il problema è quello che Stefano ha espresso in modo ottimale parlando della “pratica del credere alle proprie menzogne, come rovescio del misconoscimento di qualunque norma di verità, teoretica e pratica, nella convinzione che il successo immediato della propria azione sia l’unico metro della stessa”. Il disumano fa capolino non nell’andare a mignotte o nel farsi comprare dal miglior offerente, ma nell’indorare questi comportamenti di giustificazioni sempre più incredibili, sia di fronte agli altri che di fronte a se stessi. Ciò che fa paura non è tanto l’evidente porcaio che è al potere in Italia, ma la capacità odierna di tanti (tanti davvero) di sfidare ogni possibile criterio di verosimiglianza e plausibilità senza batter ciglio, ed anzi convincendo anche se stessi; è la rimozione di dosi anche omeopatiche di onestà e buona fede dal discorso pubblico, è, appunto, la mala fede divenuta seconda natura, perché tanto il contenuto di ciò che si dice non varrà per il suo valore di verità ma per la sua capacità di sortire effetti momentanei. Ciò toglie il terreno da sotto i piedi ad ogni possibile comunanza umana.
Questa, per inciso, è la forma comunicativa che caratterizza il ‘Venditore’ come figura dello spirito, ovvero anche la Pubblicità. Chiedendo venia per l’autocitazione: “La pubblicità è l’uso sistematico dell’ingegno umano (talvolta di molto ingegno) a fini d’inganno. Ogni cosa bella, poetica, affascinante, degna, profonda, emozionante è ridotta a strumentario di effetti emotivi finalizzati ad un unico scopo, la massimizzazione delle vendite.” Se poi l’oggetto in vendita non sono spazzole, ma è consenso intersoggettivo (politico) generale, l’inganno non è più un male relativo, ma assoluto.
Non esiste titolo per assegnare o ritirare patenti di disumanità. Cerco però di descrivere le cose come mi si presentano. Abbiamo parlato di spazio delle (buone, autentiche, tese al vero e al giusto) ragioni ed emozioni. Allora non dobbiamo temere di dire che oggi in Italia, come altrove altre volte, ci si trovi di fronte a un sistematico esercizio pubblico di mimetismo della verità e della giustizia che impedisce scientemente di veder riconosciute le ragioni dove sono, distruggendo letteralmente lo spazio dove sul vero e sul giusto si può, nella diversità delle posizioni, edificare qualcosa. Tutto è doppio, ambiguo, tutto è revocabile, ogni veste pronta a rivelarsi un travestimento, una maschera per l’occasione. La corruzione viene rivendicata come buona amministrazione pubblica, l’evasione fiscale come diritto di libera impresa, la rendita di posizione come successo, l’abuso d’ufficio come joie de vivre, il nepotismo e il clientelismo in meritocrazia su base “territoriale”, mentre tutti coloro che fanno qualcosa di vero e giusto vengono guardati con sospetto, irrisi, “smascherati” (tutti hanno qualcosa da nascondere, no?). E chi ieri si è speso per il diritto alla faziosità giornalistica, alla tifoseria politica, al tatticismo sull’istante mediatico, è lo stesso che oggi ti addita come relativista e nichilista se difendi il diritto al culto di uno straniero o alla scelta di un malato. Andrebbe presa molto sul serio l’ossessione per il trans del potere e dei media di questa Italia smarrita. Il berlusconismo (come mercimonio della realtà e della verità) è iniziato prima di Berlusconi e non si sa se e quando finirà dopo. Ma dobbiamo vederlo per quello che è, anche dentro di noi (perché c’è!). Cupio dissolvi, transvalutazione di tutti i valori che nulla crea e tutto distrugge. Ogni possibilità di riconoscimento dell’Alter Ego qui è tolta. Perché sono tolte la fiducia e la speranza nella nostra capacità di sapere chi egli realmente sia. In questo senso, solo in questo, è male assoluto.
Cari amici, l’intera discussione è appassionante e istruttiva. Con ciascuno di voi il libretto che esce domani in libreria, La questione morale, sfonderà una porta aperta. Ma infine: la tesi che vi sostengo ha molto a che fare con il Sympathiebuch e con tutta la questione dell’umano e del disumano. Ha anche a che fare con quella che fu la scoperta di Husserl negli anni Venti, che scrisse nei saggi sul Rinnovamento (L’idea di Europa). Una relazione alla verità, fattuale e assiologica, non è un optional: è la base sopra la quale soltanto ci costituiamo persone. Senza una disciplina dei consensi e dei divieti, con cui l’animale umano – l’animale neotenico per eccellenza – apprende a stare al mondo come si deve, non può costituirsi un soggetto personale – nemmeno nel senso basilare di un’individuazione primaria, di una coerenza complessiva di comportamento e di coscienza. E questa norma – “come si deve” – non è solo questione di cultura, ma di adeguatezza delle risposte alla realtà, di giustezza relativa delle posizioni dossiche e assiologiche di base. Ma oltre l’individuazione primaria c’è quella secondaria. Si emerge dalla comunità, si approda a una maturità personale, attraverso la verifica e l’assunzione o il rigetto in prima persona del sentire e agire tramandato, dei mores della comunità di appartenenza. Questo Max lo descrive bene nell’ultima parte del libro.
Io ho analizzato il modo in cui l’individuazione secondaria – il divenire adulti – avviene o non avvene nella modernità, definita dalla rivoluzione per la quale l’animale normativo scopre che la norma ha come sola origine (non iddio il re il prete o la tradizione) ma la sua coscienza, i.e. la sua relazione (o assenza di relazione al vero (reale e assiologico). Per relazione al vero intendo la costante disponibilità a cercarlo, ovvero a verificare le posizioni assunte, a vagliarle etc.)
Questo modo del diventare moralmente adulti, età che Kant e l’Illuminismo hanno chiamato l’età di ragione, fa dell’età morale adulta nella modernità la condizione più preziosa E PIU’ FRAGILE. E questo è tanto drammatico, perché la democrazia non ha infine altro fondamento che le coscienze morali adulte, e queste non hanno altra possibilità di emergere che gli spazi delle ragioni nelle democrazie. Un circolo vizioso o virtuoso (più sèpesso vizioso, purtroppo) senza fine. E questa è la scoperta che fece Husserl ne L’Idea d’Europa. La fondazione della civiltà sulla coscienza e ragionevolezza degli individui liberi e responsabili è cosa recente e fragilissima. Quello che il nostro triste presente ci insegna è che dell’individuazione secondaria dei suoi membri, delle personalità morali, delle persone adulte, una comunità PUO’ BENISSIMO FARE A MENO.
Il nostro presente…. sì. E passato. La fondazione della civiltà in ragione e responsabilità individuale, il passaggio dalla sudditanza alla cittadinanza, da noi non è mai compiutamente avvenuto – la libertà dei servi è la chiave del nostro tipo di ritorno alla minorità irresponsabile – e alle logiche mafiose che pervadono le società a responsabilità personale limitata o nulla. Ma in altri Paesi la barbarie si radica in altri aspetti della mancata relazione personale al vero. C’è solo un aspetto comune a tutte le forme della barbarie moderna: la banalità del male.
E non è forse vero che i filosofi “socratici” di ogni generazione debbono ogni volta riscoprire quanto minoritari sono addirittura – fra gli intellettuali, fra i filosofi? Il secolo scorso è stato in Europa quello di una bancarotta della ragione pratica, almeno in filosofia. In questo, almeno in filosofia, i socratici si contano sulle dita di poche mani, non è vero? Perdonatemi di rinviarvi al capitolo La coscienza sprezzante, la coscienza danzante e la sinistra senza ragione.
Quanti Bondi, Cicchitti e Ghedini – che fanno solo porcate più piccole – stanno seduti nei nostri dipartimenti?
Con tutto questo, grazie a Paolo Costa di averci richiamato a una salutare attenzione al rischio di travi anche nei nostri propri occhi.
Il punto, però, quello iniziale, mi pare un altro. Andrea Zhok si chiede – mi pare – una cosa che anch’io mi chiedo da parecchi anni. la domanda è: come è possibile che – date le stesse informazioni: dalla P2 a Mangano, fino al “meglio pagare una diciassettenne che essere gay” ecc. – io, Andrea Zhok e altri milioni di persone, abbiamo un’idea chiarissima del fenomeno, mentre altrettante persone, spesso a noi vicine – madri, padri, fidanzate/i, amici -, hanno una percezione del tutto opposta – si è fatto da solo, è un grand uomo, uno che ha a cuore i volori di un tempo, ha salvato il Paese ecc.? Questo fatto è sufficiente a considerare e definire una differenza – antropologica, addirittura – fra me, Andrea Zhok ecc., e gli altri 25 milioni di italiani che credono ciecamente a una cosa che – a noi altri – sembra assolutamente falsa? E tutto questo considerando anche il fatto che le informazioni – parte di esse, ma a sufficienza per esser certi di – non sono occulte, né elitarie. Ecco: è un bell’interrogativo. Io, delle mezze risposte le avrei, ma preferirei sentire la vostra, su questo punto specifico. Ovvero: e se i Visitors non fossero Ghedini, Cicchitto o Bondi, che fanno il loro “sporco” lavoro, ma quelli che nulla hanno guadagnato e nulla guadagneranno dal fatto che il potere sia in *quelle* mani, ma continuano a credere, fino in fondo, a una tale palese menzogna, e a manifestare il loro assenso incondizionato?
e-
Per rispondere ad -e (che però sarebbe bello si identificasse), potrei dire che la questione che sollevavo riguardava più la natura morale che quella operativa dell’impossibilità di riconoscimento.
Tuttavia, anche chiedersi come sia operativamente possibile che certe persone esposte ai medesimi fatti e processi possano sviluppare con convinzione una prospettiva incompatibile con ciò che (a me, a noi) appare come sano intelletto umano, anche questa è una domanda importante, e qualche risposta nei commenti che precedono è anche emersa.
Potrei aggiungere che buoni indizi per capire come la malafede radicale possa svilupparsi si possono ottenere da una riflessione sulle dinamiche ermeneutiche tipiche di molta ideologia cattolica. Noi dimentichiamo o rimuoviamo troppo spesso come alle radici della cultura italiana vi sia una cultura come quella cattolica, che in una sua parte consistente, anche se non totalizzante, è adusa alla coltivazione sistematica dell’opacità e della distorsione nell’autoanalisi. Lo scrupolo protestante per cui, se io sbaglio, foss’anche con convinzione, sempre di sbaglio si tratta e ne pagherò il fio, è del tutto assente nel cattolicesimo dove i peccati sono essenzialmente peccati di coscienza, e dunque per disinnescarne la peccaminosità il passo fondamentale è evitare che vengano a coscienza, mia ed altrui. Donde una cultura tutta volta alla mistificazione ed all’occultamento dello scandalo. E gli italiani hanno un allenamento secolare a vedere solo ciò che vogliono vedere e a vederlo nella luce in cui è più opportuno vederlo.
Prendiamo l’interpretazione dell’andare a mignotte: io sono convinto che Berlusconi, almeno con una parte della sua mente, creda davvero che le vagonate di bagasce che gli arrivano a casa siano attratte da lui medesimo – “beh, sì, forse non proprio dalla mia folta chioma, ma in fondo sono un uomo affascinante, potente, maturo, e si sa che le donne quello vogliono,” ecc. ecc. – e dunque, l’interpretazione prosegue, esse gli si concedono in un atto di dono di sé; e poi, certo, lui non sarebbe un signore se non contraccambiasse il dono delle loro giovani grazie con adeguata generosità.
– Et voilà, ecco a voi trasformato un ordinario meretricio in uno scambio di doni tra persone d’alto sentire. Certo, per fare spazio ad una tale interpretazione bisogna sorvolare sui dettagli, bisogna non insistere troppo sul ruolo dei vari papponi, portaborse, figuranti e yes-men, ma di volta in volta per ogni cosa c’è una giustificazione pronta: “Se solo potessi girare come un uomo qualunque! Non avrei bisogno di tutta questa organizzazione per ottenere in segreto ciò che tutte vorrebbero darmi spontaneamente, ma si sa, queste sono le tribolazioni di un uomo di stato, che si sacrifica per il proprio paese”, ecc. ecc.. E’ nello stesso modo che chi fa i viaggi di turismo sessuale per acquistare le prestazioni di bambini e giovinetti spiega a se stesso come, in fondo, lui non sta che aiutandoli economicamente, che se non lo facesse lui lo farebbero altri, magari peggiori di lui, ecc. ecc.
Chiunque si sia dilettato anche un poco di narratologia sa che una narrazione (e dunque anche un’autointerpretazione narrativa) consente infiniti gradi di libertà, non essendo vincolata neppure dal principio di non-contraddizione. In concreto questo significa che, IN MANCANZA DI UNO SFORZO DI DIRSI LA VERITA’, lo spazio possibile dell’autoinganno è infinito. Che di fronte al meretricio il nostro primo pensiero sia “lo fa per i soldi, che notoriamente sono indipendenti da caratteristiche personali o meriti”, è indice di una disposizione epistemica ad intepretare il contesto nel modo più semplice. Tale disposizione, per chi ce l’ha, è ovvia e costituisce un punto di vista applicabile ad ogni regione ontologica. E’ certo possibile che la maretrice agisca per altre ragioni, ma questa seconda interpretazione ha l’onere della prova, ed in assenza di tali prove, per default è la prima interpretazione che ha la meglio. Ma se siamo esercitati ad evitare criteri epistemici e ad adottare come criteri di lettura degli eventi la loro riconciliabilità con un quadro autointerpretativo desiderabile, automaticamente l’orizzonte della menzogna radicale, dell’autoinganno e della malafede si apre come un campo di infinite opzioni.
Se non sei interessato alla verità, la verità non ti torce il braccio per imporsi.
Mi sembra che l’interpretazione che Andrea ha offerto della malafede radicale nel suo ultimo post sia non solo retoricamente efficace, ma ineccepibile.
Anche il riferimento a quello che io stesso un po’ di tempo fa ho chiamato “cattolicesimo volgare” mi sembra illuminante.
Resta però da capire che cosa intendiamo per “radicale” in questo contesto. La mia impressione è che ci troviamo qui di fronte allo stesso tipo di problema suscitato dalla controversa definizione arendtiana della “banalità del male”. Anche nel nostro caso, infatti, la banalità – cioè la “naturalità” – di un simile atteggiamento verso la verità deriva da alcuni fatti elementari della condizione umana e non può non coinvolgere anche la sfera del riconoscimento morale. Restringere eccessivamente i confini della comunità morale non può essere la risposta adeguata all’irriducibile apertura della dimensione normativa dell’esperienza su cui gli scettici (e i cinici!) di ogni epoca hanno sempre fatto leva senza scrupoli. Il punto è battersi contro l’assenza di scrupoli, senza scordarsi che è un’illusione pensare di poter sciogliere (o disinnescare) una volta per tutte i nodi centrali delle nostre esistenze. (Non so voi, ma io per ricordarmi di questa semplice e dolorosa verità, in genere torno con la mente ai personaggi dei romanzi di Dostoevskij, con le loro caotiche e fosche vite interiori.) Mi rendo conto (e me ne scuso) che continuo a battere e ribattere sempre sullo stesso chiodo, ma i due vocaboli di cui sento più la mancanza nel nostro lessico morale sono proprio “scrupolo” e “manutenzione” (ma avrei anche potuto dire civiltà ed educazione).
Sì, la narrazione consente infiniti spazi di gradi di libertà, ovvero, infinti gradi di menzogna. Quindi, potremmo dire che: la narrazione berlusconiana, pur “libera” all’ennesima potenza, è quello che, chi ha *fede* in Berlusconi, vuole sentirsi raccontare? Ovvero: la favola in questione mette insieme certi mitologemi novecenteschi, americani, l’uomo fattosi da sé, la scalata inarrestabile alla ricchezza e quindi al potere, il “tutti possono diventare presidente”. E questa narrazione, terribilmente retorica, con tanto di nemici della democrazia e del mito – di volta in volta: i comunisti, i giudici comunisti, i “coglioni” – piace alla maggioranza degli elettori di questo Paese? Per cui gli “scandali” diventano macchinazioni, gli “errori” diventano giudizi pregiudizievoli, e così via…
Qualcosa del genere, Andrea?
[questo mito, questa narrazione, prevede una “caduta”?]
e- [enrico]
Solo per rispondere ad Enrico.
Il problema non è tanto legato alla narrazione, grande o meno grande, che uno vuol sentirsi raccontare. Inquadrare le proprie azioni individuali e collettive in forma narrativa è inevitabile se vi si vuole conferire senso, ed in questo senso vi sono narrazioni tradizionali della sinistra così come della destra. Il problema dell’abuso dei poteri impliciti nella narrazione (e soprattutto nell’autointerpretazione narrativa) sta nel non accettare regole epistemiche come la coerenza, la verisimiglianza, la semplicità della spiegazione, ecc. Il vero problema con i berluscones non è che essi venerino il mito del self-made man, ma che accolgano ogni tipo di percorso narrativo che consenta loro di evitare i fatti che non si attagliano al mitologema (come si colloca il self-made man rispetto a Craxi? A Dell’Utri? ecc.).
Questa, devo dire, è certamente una profonda differenza culturale (tendenziale) tra ‘destra’ e ‘sinistra’ in Italia: la cultura di sinistra è generalmente sospettosa verso tutte le storie che le vengono raccontate, è più ‘ironica’ in senso classico, e ciò spesso è d’ostacolo nel costituirsi in unità organica. La generale propensione di sinistra alla frammentazione è figlia di questa tendenza critica e sospettosa, spesso autodistruttiva, verso le storie “troppo belle per essere vere”. La destra italiana, da Mussolini a Berlusconi, ha invece l’esiziale tendenza a credere alle balle che racconta, salvo poi pagarne le conseguenze (e farle pagare a tutti quanti gli altri). Il Duce che scende in guerra convinto di spezzare le reni alla Grecia come già fece Roma, ma senza aver fatto i compiti per casa sul piano dell’organizzazione militare, era promotore e vittima della stessa logica che oggi pensa che la produzione industriale si risolleverà perché “gli italiani sono ricchi d’ingegno”, ma senza aver formulato alcuna politica industriale.
Per rispondere alla domanda di Enrico: questo mito prevede una caduta? Oh, certo che prevede una caduta, come sempre accade agli edifici di menzogne, ancorché ingegnose, perché vi è una durezza della realtà che si vendica quando non la rispetti; il problema (come fu per il fascismo) non è se affonderà, ma quanto porterà con sé sul fondo.
Molte grazie, Andrea. Solo: ritengo che liquidare la questione con la mancanza di senso critico degli “elettori” di destra, non spieghi del tutto il fenomeno. A meno che non sia una questione antropologica: una famiglia di destra, una scuola di destra ecc. formano “elettori” in attesa perenne dell’uomo forte, del quasi messia [“è il Signore che mi ha messo qui. io sono unto dal Signore”]. Torniamo, a questo punto, alla supposta superiorità culturale della sinistra. cioè, navighiamo a vista fra concetti interessanti e luoghi comuni disarmanti.
discussione molto interessante. Grazie di nuovo, per le risposte.
Solo: non ho detto le cose che mi attribuisci.
Hai ragione: ho semplificato troppo.