Tempo fa l’attuale presidente del consiglio aveva adocchiato nel Museo delle Terme di Diocleziano due statue: la coppia imperiale di Marco Aurelio e Faustina nelle vesti di Marte e Venere. Invaghitosi del gruppo marmoreo lo fece subito “restaurare” a tempi di record e trasferire a Palazzo Chigi. La notizia è uscita la scorsa settimana su Repubblica.
Sono rimasto stupito, come molti, nel vedere le foto del prima e dopo restauro. Perché mi hanno ferito? Che cos’è l’arte, la cultura, la filosofia se non, anche, una sfida alla verticalità (laica o religiosa che sia), uno stimolo all’innalzarsi a una vita degna di essere vissuta? Ho sempre pensato che nella cultura ci siano le tracce e le sedimentazioni dello sforzo continuo e millenario di innalzamento che contraddistingue l’uomo. Nell’opera d’arte è conservato lo schema propulsivo del salto in avanti che ha consentito a quell’artista di ampliare il nostro orizzonte esperienziale. Di penetrare con lo sguardo in una invisibilità altrimenti opaca. La cultura non va imitata o ripetuta, non è un fatto di trasmissione di informazioni, ma di contagio, di scosse socratiche, di accensioni di sentimenti. Nella sua esemplarità un quadro, un romanzo, una poesia ci aiutano a trovare le energie e le tecniche per compiere nuovamente questo salto originario, antropologicamente all’origine dell’essere umano. Indicano la strada e danno gli strumenti per esprimere in modo creativo energie e pulsioni che altrimenti verrebbero semplicemente buttate fuori in modo brutale, meccanico. Sono trampolini di lancio che fanno breccia sulla quotidianità e servono a contagiare, trasformando l’esistenza in senso controfattuale.
Questo almeno è ciò che associo personalmente alla parola “cultura”. Certo sono possibili anche altre concezioni e forse la mia è troppo influenzata da un concetto filosofico di “esemplarità formativa” su cui da tempo lavoro. Detto questo la mentalità implicita in questo restauro di Marte e Venere mi pare francamente discutibile. Quelle statue pur se mutilate, nel corpo, riuscivano ancora a trasmettere una carica di bellezza, costringendo l’immaginazione umana a prefigurare il gesto di quelle mani mancanti. Erano perfettamente funzionanti. Quelle aggiunte posticce su quello sfondo azzurramente rassicurante sono invece espressione di una concezione “decorativa” della cultura. Chi ha ordinato quel restauro non ha percepito quelle statue come schemi di ridestamento della coscienza, ma appunto solo come gingilli “rotti” da aggiustare. Se si trattasse di un collezionista privato sarebbero problemi suoi, ma quando invece questa è la mentalità con cui si gestisce e si dispone a proprio uso e piacimento del patrimonio artistico e culturale italiano la questione assume una rilevanza diversa.
C’è cioè un ulteriore aspetto che mi disturba: che urgenza c’era di spendere 70.000 euro per un restauro di questo tipo mentre Pompei crolla e nella scuola elementare di mia figlia non hanno nemmeno una carta geografica appesa alla nuda parete? Quanti altri soldi sono stati spesi al servizio di questo concetto di pseudo cultura? Non si tratta di discorsi astratti: queste mentalità e stili di vita si traducono poi in comportamenti concreti, influenzano e dirigono immensi flussi di denaro pubblico, decidono cosa tagliare e cosa aggiungere. Determinano ordini di priorità, finendo con il determinare la direzione di marcia finale di una nazione. Chi vede in quel gruppo marmoreo solo un suppellettile rotto da aggiustare è chiaro che poi non ha problemi nel tagliare i fondi all’istruzione e all’Università, nello stesso periodo in cui in Germania venivano aumentati.
Commenti recenti