Riceviamo e volentieri pubblichiamo Resistere al potere. Il dovere della disubbidienza di Tommaso Greco, Università di Pisa.
Resistere al potere
Il dovere della disubbidienza
(Pisa, Piazza dei Cavalieri – 5 ottobre 2010)
1.
Mi rendo conto di quanto sia poco originale fare l’elogio della disubbidienza, in un Paese che se ne infischia delle regole, delle leggi e della Costituzione e in cui una buonissima fetta di popolazione (la maggioranza?) vive quotidianamente nella condizione dei personaggi di una recente vignetta di Ellekappa: “pare che agli italiani non importi nulla delle regole” – “Chissenefrega” chiosa l’altro inevitabilmente.
Con quale pretesa di catturare il vostro interesse mi accingo ad elogiare la ‘resistenza’ alle leggi in un Paese in cui qualcuno, molto più autorevole di me, pensa quotidianamente a screditare la Costituzione e ha ingaggiato una lotta senza tregua contro i guardiani del sistema giuridico? Insomma, se c’è una cosa di cui davvero non si sente il bisogno è proprio l’elogio della disubbidienza. Ci sarebbe infatti bisogno, piuttosto, di una maggiore osservanza delle regole a tutti i livelli, in Parlamento come nei comuni, come nelle Università, dove – lo sappiamo bene – negli ultimi anni ne abbiamo visto di cotte e di crude.
Sennonché, di fronte ai ladri, ai furbi e ai prepotenti, ritengo – se non altrettanto, quanto meno anche – responsabili tutti coloro che avrebbero il potere di fare e non fanno, che avrebbero il potere di controllare e non controllano, che potrebbero alzare la voce e non la alzano. Ecco da dove nasce il mio elogio della disubbidienza. Dal vedere quanto, della nostra condizione, dipenda dal nostro silenzio, dalla nostra pigrizia, dalla nostra comoda posizione di ubbidienti: ubbidienti non alle leggi – si badi bene – ma ai potenti o agli arraffoni di turno, a coloro che ci chiedono di tenere una certa condotta, che magari viola le regole e le leggi con le quali dovremmo governarci, o semplicemente contribuisce a peggiorare la condizione di qualcun altro o di tutti. Mi è capitato di recente di parlare con persone a me molto care, che raccontandomi di certe discutibili operazioni in corso nell’amministrazione comunale del mio paese, consigliavano di “farci gli affari nostri”, perché tanto “sono sempre gli stessi che se la giocano tra loro”, e, argomento ancora peggiore nella sua evidente falsità, “tanto per noi è la stessa cosa”; come se gli effetti della cattiva amministrazione non ricadessero su tutti e quindi anche su di noi, che almeno per interesse, se non per ideali, qualche volta dovremmo pure intervenire.
Una situazione non diversa da quella che ho potuto cogliere spesso in questi giorni (e anche in passato) quando sento studenti che accusano i loro rappresentanti di aver voluto rinviare le lezioni perché tanto loro pensano alla carriera politica e non si preoccupano delle esigenze vere degli studenti. Come se le condizioni in cui versa (e sempre di più verserà) l’Università non riguardassero tutti noi che ci viviamo dentro, compreso l’ultimo dei nostri studenti. Ecco: a volte bisogna essere addirittura disubbidienti a se stessi. (…) (continua)
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Complimenti a Tommaso Greco per le belle e dotte pagine. Mi resta però un dubbio semantico, non sanato dalle precisazioni iniziali né dal riferimento al Critone. Il dubbio è questo: ha senso usare una qualche accezione di ‘obbedienza’ per designare i comportamenti che tu giustamente denunci? Il termine ‘disobbediente’, come usato da alcuni noti gruppi di attivisti, rinvia all’idea di un rifiuto (presumibilmente adulto) dell’infantile virtù dell’obbedienza. Personalmente, dopo aver assistito per un paio di decenni al succedersi di svariati ribellisti individualistici, di cui un buon numero ho poi ritrovato (‘finalmente con la testa a posto’) nelle fila dei supporters di Mr. Banana, mi permetto di essere lievemente scettico sul senso politico di tali atteggiamenti. Il punto che però mi interessa è un altro: non credo proprio che i difetti di inerzia, ignavia e falsa coscienza che denunci abbiano niente a che fare con l’obbedienza o la disobbedienza, in nessun senso del termine. La mia netta impressione è che la maggioranza degli italiani, e soprattutto degli italiani più giovani, non siano affatto sensibili ad uno scontro interiore tra obbedienza (a regole o a persone, non cambia) e disobbedienza.
Parlando con amici insegnanti a vari livelli dei ciclo scolastico una cosa mi ha colpito: ogni ciclo scolastico è solito imputare le proprie difficoltà con allievi passivi, neghittosi ed ignoranti al livello precedente di studio; il problema però è che ho avuto riprova più volte che tali penose condizioni dei discenti sono riscontrabili anche in presenza di insegnanti molto capaci fin dal primo ciclo. A questo punto ho avuto un’illuminazione: la maggior parte di quegli studenti della cui formazione ci disperiamo, e che magari cerchiamo di provocare e stimolare ad un’attività neurale anche modesta, sono in effetti già passati attraverso schiere di docenti che hanno fatto, più o meno bene, la stessa cosa, cercando di pungolare il loro amor proprio, di ottenere reazioni, magari di spingerli ad una polemica su cui poter poi costruire un interesse. Tutto ciò è passato e passa tutt’ora come acqua sui sassi. Il problema è che il problema ha radici etiche e non cognitive. Questi qua (e chiedo venia per l’odiosa generalizzazione) sono abituati ad essere maltrattati, rimproverati, provocati, ecc., ma per essere punti nel proprio amor proprio e reagire sono assolutamente necessarie due condizioni: bisogna avere considerazione sia di sé che dell’altro che ci critica; bisogna cioè ritenere di avere delle cose preziose da difendere e ritenere che l’altro abbia autorevolezza e credito sufficienti da metterle in discussione. Ebbene, sin dalla prima elementare queste condizioni sono (con eccezioni) latitanti. Questi non reagiscono perché in fondo danno da sempre scarso credito a se stessi come a tutti gli altri. Il risultato ultimo, caro Tommaso, sono gli atteggiamenti che critichi: la passività, inerzia, micropsychia, che vediamo tutt’attorno non hanno proprio niente a che vedere con l’obbedienza. Questi non obbediscono e non disobbediscono. La loro inerzia non è affatto obbedienza od ossequio, ma concentrazione nel tentar di mettere un piede dopo l’altro, un passo dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, seguendo speranze residuali, ideali asfittici e passioni piccine.
Caro Andrea,
intanto grazie per aver commentato il mio intervento, peraltro sollevando questioni di non poco conto. Provo a rispondere alle tue sollecitazioni.
Sui ‘disubbidienti che fanno carriera’ (e diventano quindi fin troppo ubbidienti…) non ho molto da dire, se non che – come te – ho sempre sospettato dei disubbidienti di professione, di coloro che fanno della disubbidienza un modo d’essere, anzi “il” loro modo d’essere; un modo come un altro per rendersi visibili e cercare di trovare un posto nel mondo (se non fosse che spesso si tratta di persone che un posto garantito nel mondo ce l’hanno già, eccome…).
Quanto alla questione che sollevi più direttamente, con riguardo alla condizione dei giovani (ma non solo dei giovani) e alla loro inerzia, per quanto mi renda conto che tecnicamente possa tattarsi di un uso improprio del termine (in quanto l’ubbidienza sembra implicare un consapevole adeguamento del proprio comportamento all’ordine o ai desideri di qualcun altro), io tenderei comunque ad interpretarla – guardandola dal lato dei suoi esiti – come una forma estrema di ubbidienza. Se non sbaglio era Erich Fromm che distingueva tra una obbedienza eteronoma e una obbedienza autonoma, interpretando la prima come una atto di sottomissione e la seconda come un atto di affermazione della personalità. Sulle cause che hanno portato nella nostra società (in particolare italiana) ad una grande prevalenza della prima sulla seconda, possiamo sbizzarrirci, anche se sono incline a credere che già Pasolini avesse detto tutto l’essenziale.
C’è però un’altra cosa che devo aggiungere, anche per precisare ulteriormente il contenuto del mio intervento. Io prendevo in considerazione, più che i giovani o l’italiano medio, alcuni settori della cosiddetta classe dirigente, a cominciare ovviamente dai professori universitari. Il mio sconcerto, negli ultimi tempi, è derivato proprio dal vedere la scarsissima capacità di resistenza di categorie che non hanno dimostrato il minimo attaccamento alla dignità del proprio ruolo e della propria funzione sociale, anche se possedevano (o dovevano possedere) tutti gli strumenti – etici e cognitivi – per farlo. Da questo punto di vista e su questo piano, le tue considerazioni sono assolutamente centrate e del tutto condivisibili.
Grazie!
Leggendo la bella e appassionata lezione di Tommaso Greco e la risposta di Andrea mi è venuto da pensare che qui ci troviamo di fronte a un groviglio di problemi diversi, tutti molto interessanti e a loro volta ingarbugliati. Provo a distinguerne un paio. C’è anzitutto il problema eminentemente psicologico e pedagogico del corredo di emozioni e disposizioni che meglio si attagliano a quello che, con un po’ di approssimazione, potremmo chiamare l’homo democraticus. Qui dobbiamo ammettere che il compito che ci proponiamo è improbo. Avremmo bisogno, infatti, di un individuo sufficientemente non conformista per giudicare volta per volta con occhio critico il contenuto delle norme d’azione a cui è chiamato a sottostare, ma anche sufficientemente dedito alla comunità per riconoscere che il fulcro della propria identità personale risiede fuori di sé. Ma come si possono formare delle persone con questa raffinata miscela di attività e passività? Nessuno nella storia è riuscito a produrre una formula magica per risolvere il problema. Per fare un esempio ovvio, una cultura della vergogna è essenziale per predisporre gli individui a forme di abnegazione e sacrificio di sé, ma è notorio che un investimento massiccio sul Super-Io o su irraggiungibili ideali dell’Io possono produrre quella personalità autoritaria che, per dolorosa esperienza storica, sappiamo essere il perturbante Doppelgänger del disciplinatissimo cittadino moderno. Ma, d’altra parte, se non si corre il rischio di incappare in questo genere di squilibrio, l’effetto più probabile è quel tipo di apatia o inerzia caratteriale descritta da Andrea e che tutti constatiamo nelle nuove generazioni. La risposta di Hannah Arendt a questo dilemma era tanto semplice quanto inefficace: insegnare a pensare. Ma il problema che sperimentiamo oggi è proprio che fatichiamo dannatamente a motivare i nostri figli e studenti all’attività del pensiero perché la stimolazione continua e onnilaterale del desiderio tende ad appiattire e inaridire la vita interiore di tutti (noi compresi) come per effetto di un impercettibile Fallout nucleare. Con il senno di poi, c’è qualcosa al contempo di straordinariamente nobile e ingenuo nell’ideale kantiano, e più in generale borghese-moderno, della “maggiore età” dell’uomo. Proprio in questi giorni ragionavo con un amico sulle celebri tirate di Pasolini contro la trasformazione della civiltà contadina italiana e per la prima volta mi è venuto da pensare che questa transizione mancata possa essere compresa anche come il fallimento del tentativo di replicare in una sola generazione il processo di civilizzazione europeo descritto da Norbert Elias. La disperante situazione dell’Italia contemporanea non potrebbe essere anche il frutto del risentimento generazionale verso un ideale dell’Io per nulla interiorizzato?
Il secondo aspetto importante della questione riguarda invece più specificamente la natura del nostro rapporto con le leggi e con lo Stato repubblicano. In questo caso, anche a me sembra che il problema non verta tanto sulla questione dell’obbedire o non obbedire, ma sulla nostra capacità di avere un rapporto non strettamente strumentale con le leggi e, più in generale, con ciò che è pubblico. È davvero così assurdo pensare che le leggi siano una cosa bellissima, persino amabile? (Tanto per citare obliquamente la famigerata frase di Tommaso Padoa-Schioppa che un paio di anni fa ha fatto sbellicare dalle risate trasversalmente tutto quanto il Bel Paese.) È irragionevole sostenere che ci si può sentire più liberi proprio grazie a qualcosa che ci vincola? Vale la pena di ricordare che ci sono ovviamente modi molto diversi di disobbedire, così come esistono modi molto diversi di dire di no. Dissentire alzando le spalle e ridacchiando o dissentire facendo appello a dei buoni (o meno buoni) argomenti sono due cose molto diverse. Nel secondo caso bisogna in qualche modo aver fatto esperienza di quella che Habermas ha notoriamente definito la coazione dolce dell’argomento migliore, bisogna cioè sperimentare sulla propria pelle la “forza” delle ragioni. L’idea che ci si possa sentire più liberi e soddisfatti nel momento in cui si prende atto di dover cedere alle ragioni o alla volontà degli altri, dopo aver fatto valere i propri argomenti, ha in effetti qualcosa di utopico, se non di surreale. Ma è proprio su questa utopia di una riconciliazione dinamica tra attività e passività che si è fondato il sogno moderno dell’autogoverno democratico. Chi ha ancora voglia oggi di scommettere su questo sogno così antiquato?
Rispondo in primo luogo alla tua domanda (retorica?) caro Paolo: chi ha ancora voglia di scommettere su questo sogno così antiquato? – E mi chiedo: ma chi di noi non risponderebbe: io, con tutto il cuore? Ci sono alternative, del resto? Alternative decenti? Politica, diritto, etica sono aree del normativo accomunate da questo: che non esisterebbero se non ci fosse il male di cui siamo capaci. Mi pare questo che distingue queste aree del normativo da quelle della logica o da quelle dell’estetica, le quali invece possono sussistere anche in un mondo angelico.
Ma se questo è il punto di partenza, mi sembra che entrambi gli interventi, di Paolo Costa e di Andrea Zhok sottovalutino un po’ la profondità dei concetti di obbedienza e disobbedienza di cui fa uso Tommaso Greco. Kant aveva definito la libertà come diritto, la “libertà giuridica” come “la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne, se non a quelle cui ho potuto dare il mio assenso”. Assenso, non arbitrio: l’auto-nomia non è la capacità di inventare le proprie leggi, ma quella di riconoscerle giuste o no. Non c’è vera obbedienza senza esercizio immediato o mediato di questo assenso. Non c’è virtù senza libertà, in particolare questa libertà di consentire o no alla norma o al valore che la virtù soddisfa. E questo è vero anche della virtù dell’obbedienza, la quale resta una virtù solo finché è giustificata la fiducia che la persona alla quale si obbedisce veda e consenta a ciò che è giusto fare, anche se chi obbedisce non lo vede. E sullo stesso principio dunque si fonda la disobbedienza, assolutamente, come ben mostra Greco, doverosa quando questa fiducia si riveli con tutta evidenza infondata, o non più fondata. Davvero allora la disobbedienza è un dovere prima che un diritto. Ma l’obbedienza, in questo senso, è in definitiva più che una virtù: se stiamo alla definizione kantiana di libertà, come facoltà di obbedire alla norma che teniamo per giusta (e solo a quella) – l’obbedienza è il cuore stesso della libertà, la quale è condizione di ogni altra virtù. Mi sembra dunque che entrambi i commenti abbiano un po’ sottovalutato la portata dell’argomentazione di Tommaso Greco.
E vorrei concludere con una domanda pratica, con un “che fare?” che rivolgo a Tommaso. È vero: è terribile la nostra silenziosa complicità con la distruzione di ciò di cui e per cui viviamo, l’Università. Che dobbiamo fare? Credo che oggi la questione non sia più politica, ma semplicemente morale. Come ormai ogni questione politica – nel senso che immorale è divenuta la nostra indifferenza. Ma spaventosa è anche la nostra impotenza! Cosa può l’individuo, cosa può la sua libertà? Eppure occorre trovare, inventare forme di efficacia dell’azione individuale. E la disobbedienza è una di queste, già classica.
Capisco il punto, Roberta. Ma mi resta un dubbio circa la traduzione politica (e anche psicologica) del modello kantiano di obbedienza attiva da te delineato, che mi sembra tutt’altro che scontata. Nella pratica, la distinzione tra l’obbedienza come virtù e l’obbedienza come seconda natura è davvero sottile (e il prussiano Kant ne era probabilmente la dimostrazione “vivente”). Diciamo che è una fictio normativa. Malgrado l’enfasi retorica, non aveva tutti i torti Renan a sostenere che l’esistenza di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni. Ma lui stesso riconosceva il carattere metaforico di questa idea. Anche in una democrazia, in fondo, noi “obbediamo” en bloc a un progetto di società, giuridicamente tradotto in una Costituzione e in un corpus di leggi, e solo in casi estremi ritiriamo il nostro assenso e ci chiamiamo fuori. Come dici tu, l’obbedienza spontanea, by default, alle leggi, è più che una virtù: è la precondizione di ogni forma di vita repubblicana, centrata sull’autogoverno. In quest’ottica, le leggi sono il ricettacolo della nostra libertà politica, che è la forma di libertà per noi più significativa e quindi più preziosa.
Io stesso nel mio post ho sottolineato la differenza che esiste tra due diversi modi di dire “no”, quello del menefreghista e quello dell’obiettore di coscienza, e cioè il carattere ragionato e pubblico del diniego. (Tanto per fare un esempio sciocco, pensate al coraggio civico di chi protesta contro il monopolio dell’informazione televisiva non pagando il canone RAI!) Per contare politicamente e moralmente, il mio “no” deve assumere una dimensione pubblica, non può restare racchiuso nella dimensione intima e soggettiva della mia coscienza. A tal fine, però, è indispensabile disporre di alcuni strumenti che non possiamo darci da noi stessi. Dobbiamo, ad esempio, essere introdotti e allenati all’arte della contestazione, della protesta, della resistenza politica attiva, che hanno senso solo entro una specifica cornice di istituzioni e pratiche sociali diffuse e riconosciute: quella che si è soliti chiamare la cultura civica democratica. In assenza di una sfera pubblica vitale, di un pur minimo senso di appartenenza a una comunità deliberativa, di una idea per quanto vaga di bene pubblico o di solidarietà tra concittadini, come possiamo sperare di coltivare un’arte della disobbedienza che abbia un significato politico? Quello che voglio dire è che non esiste una scorciatoia: non può sopravvivere una pratica e cultura della disobbedienza personale senza che venga rivivificata la nostra esile cultura repubblicana. Non c’è virtù politica senza empowerment. Qui si nasconde la mia risposta all’interrogativo finale di Roberta. E in questo ambito si apre un compito importante per chi come noi ha dedicato e dedica la propria vita allo studio: capire meglio che cos’è andato storto in questi ultimi cinquant’anni, dentro e fuori di noi.
Vorrei inserirmi, lateralmente, nel dialogo De Monticelli-Greco sulla tristezza dei nostri tempi, per sostenere una questione e per avanzare una proposta. La questione da sostenere è quella dell’obbedienza o, meglio, dell’osservanza delle regole; per esempio della nostra democrazia, degli spazi e dei limiti che essa pone. E le pone quelle regole come garanzia dell’esercizio proprio di quelle possibilità. Ma anche per perseguire chi le viola. E chi le viola intende, in questa drammatica fase della gestione del potere, creare motu proprio, altre regole. Ebbene, è l’obbedienza che si va diffondendo, come un uragano, verso queste diverse regole che non è una virtù. E la disobbedienza, per chi ha il privilegio di leggere nei segni quanto significano le cosidette nuove regole, è un dovere. Ma a cosa è dovuto il consenso furioso e acritico, quasi belluino, che circonda il nuovo potere? Da uomo di scuola dò per certo che vi è stato un tradimento: tanto più grave quanto più inconsapevole e resistente a ogni tentativo di critica. Mi riferisco al fatto che si è determinato un fenomeno non registrato ma che ha agito come un fiume carsico: il processo di ideologizzazione della scuola ha demolito i poteri critici; e l’autonomia e indipendenza di giudizio è stata messa al servizio – peraltro non richiesto – di una visione di parte. Cioè la formazione di queste competenze trasversali ai saperi non è stata perseguita in termini di scienza, ma di visione ideologica. A quest’azione carsica ha fatto riscontro l’incretinimento di massa intenzionalmente perseguito dal poterre egemone dei media. Insomma le istituzioni formative stanno ormai sfornando plebe, invece che cittadini della convivenza democratica. Vengo alla proposta che riguarda la scuola: sospendiamo il giudizio, per un po’, su finanziamenti e precariato e proviamo a chiederci se l’attività formativa si va svolgendo usualmente nei termini di un cominciamento assoluto o se parte, invece, da nessun luogo, com’è il luogo del tradimento delle regole. Nelle Indicazioni nazionali per il curricolo sono delineati sentieri che portano alla imprescindibilità dell’etica, quella espressa nei valori presenti nei saperi; che sono invece trascurati dall’ansia quantitativa. Ma la cosa non riguarda solo la scuola. Perché i docenti come formatori sono stati formati, vengono formati, dall’università. E chi forma i formatori rispetto a queste prassi che sono per lo più sconosciute? Vogliamo provare a ricostruire una logica dei processi formativi perché si svolgano secondo scienza e non secondo ideologia? Per ora, ci salvano dal totale tracollo intellettuali come la Professoressa Roberta De Monticelli la cui vigilanza serve a tenerci desti e resistenti.
Forse c’è un modo semplice per distinguere la disobbedienza di cui parla Tommaso Greco, quella necessaria, dalla disobbedienza intesa come ribellismo “a prescindere” che, come si è detto, spesso si trasforma disinvoltamente in cortigianeria: la prima ha sempre un costo, a volte molto alto, tanto da poter comportare la perdita della vita. La seconda ha semplicemente un prezzo.
Quella faticosa e dolorosa splende nei simboli che sono stati ricordati: Antigone, Socrate. Potremmo aggiungere i professori universitari che dissero “no” al duce, e naturalmente don Milani, che dichiara: “l’obbedienza non è più una virtù”. Nella splendida autodifesa rivolta ai giudici per contrastare l’accusa a lui rivolta di obiezione di coscienza, egli indica L’apologia di Socrate, Il Vangelo e gli scritti di Gandhi come testi fondamentali per la formazione di chiunque intenda diventare un individuo libero e consapevole. Il suo suggerimento è ancora valido. Si potrebbero aggiungere, visto che stiamo riflettendo sulla paurosa deriva della nostra società, le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”, opera che dovrebbe collocarsi alla base della formazione civile di ogni individuo nato dopo la fine della guerra voluta dal fascismo. Vi sono raccolte le voci più disparate e rappresentative del nostro Paese, di giovani e vecchi, donne e uomini, credenti e non credenti, letterati e semianalfabeti. Tutti certi della necessità e bellezza della loro scelta, nata dalla consapevolezza di ciò che è giusto o ingiusto, bene o male, dalla coscienza di aver agito non per amore di sé, ma per amore del mondo.
Pochi di loro avevano letto i testi dei filosofi, non tutti erano credenti, ma il loro agire per la libertà nasceva da una riflessione libera e plurale, esattamente la modalità di pensiero che H. Arendt indicherà come caratteristica dell’agire umano.
Si è detto della passività delle nuove generazioni, nonostante gli sforzi della scuola.
Forse non è proprio così. Spesso nella scuola l’obbedienza e il conformismo culturale e sociale vengono promossi assai più che l’autonomia e la capacità di pensare con la propria testa, e la cosiddetta riforma Gelmini introduce elementi di rigidità nei contenuti culturali, aggravati dalla struttura gerarchica prevista dalla riforma, che attribuisce ai presidi un controllo sugli insegnanti non legato alla qualità dell’insegnamento, cosa più che giusta, ma alla conformità a modelli decisi dall’alto. Aggiungerei che i giovani che approdano alle Superiori sono in larga misura portatori, quasi sempre inconsapevoli, di idee o pregiudizi piuttosto rigidi. Per aiutarli ad essere se stessi la prima cosa da fare è cercare di togliere quella corazza di diffidenza e conformismo che rappresenta per loro qualcosa di simile alla coperta di Linus.
Roberta parla in una sua mail di “comunella dei malvagi”, citando Michelstaedter. H. Arendt riferendosi ad un simbolo riconosciuto di malvagità, Eichmann, dice che l’uomo non era stupido, bensì inabile a pensare. Forse è su questo che ci dobbiamo impegnare, superando l’estremo senso di impotenza da cui siamo tutti, credo, afflitti: costringerci e costringere chi per qualsiasi motivo interloquisce con noi alla fatica del pensiero autonomo, senza il quale non è possibile libertà, né vera obbedienza o vera disobbedienza.
Andrea Zhok parla nel suo intervento di “passioni piccine”. Mi ha fatto ricordare “le piccole virtù” di cui parla Natalia Ginzburg nel racconto omonimo. La Ginzburg scrive (non ho il testo sottomano per citare adeguatamente) che non le piccole virtù vanno insegnate ai bambini e ai giovani ma le grandi virtù: la generosità, il coraggio, l’altruismo.
Potrebbe succedere allora che la famosa battuta di Padoa Schioppa sulla bellezza delle tasse da pagare venisse presa sul serio e non ridicolizzata, in quanto espressione di responsabilità del singolo nei confronti della collettività e di onesto candore, qualità di cui la società italiana ha un disperato bisogno.