Sono consapevole che ognuno si sceglie le battaglie ideali come meglio crede e io non intendo insegnare nulla a nessuno. Cerco solo di dare il mio contributo perché l’Italia possa un giorno non essere più il paese dei furbi
Giornali, radio, siti, tv, non vi è stato mezzo di comunicazione che non abbia ripreso e alimentato il dibattito sviluppatosi in seguito al mio articolo del 21 agosto “Io autore Mondadori e lo scandalo ad aziendam”. Naturalmente ognuno ha detto la sua, sia in merito alla questione in sé sia a me che l’avevo sollevata, facendomi provare l’ebbrezza di un viaggio sulle montagne russe della psiche col passare da coscienza profetica a povero ingenuo, da eroe coraggioso a ipocrita opportunista. Su quest’ultimo aspetto non ho nulla da replicare, registro solo lo spettacolo di individui così incapaci di prescindere dall’ego e concentrarsi sulle cose in sé da risultare impossibilitati a concepire che qualcuno faccia qualcosa senza volerci guadagnare. Molto più interessante è la dimensione oggettiva della questione, che ritengo di poter riassumere come segue. (continua la lettura dell’articolo di Vito Mancuso su Repubblica.it)
Qui, di seguito, la replica all’addio di Vito Mancuso, di Riccardo Cavallero, Direttore Generale Libri Trade Gruppo Mondadori, pubblicata il 4 settembre 2010, da Repubblica, a pagina 33. E la controreplica dell’Autore.
LA MONDADORI E L’ ADDIO DI MANCUSO
Caro direttore, i confronti sulla libertà di pensiero, sulla circolazione delle idee, sull’etica rigorosa che deve guidare ogni scelta di autore o editore non sono mai sufficienti. Ben venga dunque ogni forma di dibattito o discussione. Confesso, però, di non riuscire ad appassionarmi alle reiterate elucubrazioni estive di Vito Mancuso. Perché, per parafrasare il dotto argomentare del professore “amica iustitia… sed magis amica veritas”. E la verità dei fatti, in questo caso, è incontrovertibile e sta scritta nella storia e nelle scelte antiche e recentissime di Mondadori. Altro non c’ è da aggiungere. Se non alcune, sommesse, domande finali. Possono l'”urgenza etica”, il profondo e insopprimibile “senso di giustizia” e la “buona battaglia” essere, come dire, a orologeria? Restar sopiti nel professor Mancuso dal ’97 al 2010, sorgere impetuosi in agosto e attenuarsi poi, giusto il tempo per consegnare a Mondadori l’ultimo libro? Dando così un ultimo, fugace, personale contributo economico a un “immenso conflitto di interessi, madre di tutti i problemi”? Non pare così a Mancuso di essere tenuemente in contraddizione con il delicato fardello di testimonianza morale che si è assegnato? Non si affaccia in lui il dubbio che la sua scelta di restare ancora con noi, di associare ancora il suo nome al nostro marchio sia talmente pragmatica e realistica da sconfinare nell’opportunismo di chi pone attenzione a che portafoglio e princìpii corrano sempre rigorosamente separati (magari in attesa di ciò che ancora manca: la firma definitiva del contratto con un nuovo editore)? Riccardo Cavallero, Direttore Generale Libri Trade Gruppo Mondadori
È stupefacente che il «Direttore Generale Libri Trade Gruppo Mondadori» parli di verità quando nella sua lettera evita di affrontare il vero punto che io ho sollevato: e cioè che in Italia, unico paese occidentale in cui accade, un presidente del Consiglio possa costruirsi una legge su misura (ad aziendam, appunto), per far pagare meno tasse alla casa editrice di sua proprietà: lo scandalo è questo, e su di esso Cavallero tace. Il resto, il tono, le allusioni e gli insulti, non meritano neanche risposta. Ma forse sono il segno del nuovo stile della casa. – vito mancuso
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La replica di Riccardo Cavallero, carica di velenose insinuazioni personali, ha almeno la scusante di essere una mossa quasi obbligata. Del tutto gratuita mi pare invece quella di Pier Luigi Battista, comparsa con due titoli di senso opposto – ambigua dunque fin nella presentazione, sul Corriere della sera di ieri 4 settembre. Ho mandato al Corriere questo commento, con scarsa speranza di pubblicazione.
La riflessione sul caso Mancuso, ambigua fin dal doppio titolo, uscita ieri su Corriere della sera a firma di Pier Luigi Battista, appare incongrua per due ordini di motivi, uno morale e uno teorico.
Quello morale è il sospetto. Lo insinuava già il Guicciardini nelle rare menti che gioivano di fronte agli atti di coraggio e di virtù, testimoniando la loro ammirazione: non credeteci, diceva, “perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno, che non abbia l’obietto agli interessi particolari”. È lunga, infatti, la storia della cattiva stampa di cui gode nel nostro paese la ragione morale, subito e sempre avvilita in un’accusa di “moralismo”. Ma perché “moralista” dovrebbe esser un insulto? Perché la sola accezione comune di questa parola in Italia è, grosso modo, uno che predica bene e razzola male. E naturalmente il presupposto di quest’uso è la convinzione che tutti razzolano male, e che non potrebbe essere altrimenti. (“A pensar male si fa peccato ma non si sbaglia mai”: anche l’onorevole Andreotti è un epigono del Guicciardini). Fino al punto che gettare fango sul moralista è diventata l’attività preferita dei gazzettieri più asserviti, da cui Battista dovrebbe pur tenere a distinguersi. La morale che si trae da questa pratica del gettar fango è ancora più sconfortante della pratica stessa: da noi, il precetto evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra” è inteso come chiamata di correo, e la chiamata di correo come giustificazione del reo. Insomma vuol dire: “così fan tutti”. Ma vuol dire anche – conclusione assurda – “e perciò va bene così”. Se ne sente un’ombra, di questo ragionamento, nel velato rimprovero fatto a Mancuso di aver chiamato in causa i suoi amici e colleghi della Mondadori.
Il motivo teorico invece è che Battista sembra ignorare il fenomeno fondamentale dell’etica, su cui Kant edificò la Critica della ragion pratica. È sempre possibile interpretare come impuri i motivi e i gesti che danno sostanza a quello che a una persona appare come suo dovere. Le leggi e i meccanismi cui il mondo obbedisce sono sempre spiegabili con altre cause che i motivi morali. Esistono infatti le scienze del comportamento, la psicologia, la sociologia, l’economia. Ma sarebbe erroneo dedurne: tanto peggio per l’etica, o almeno per l’etica pubblica, per l’etica chiarita in pubblico. Come purtroppo sembra fare Battista. Forse infastidito da una circostanza, questa sì, significativa dei nessi fra il mondo e la morale. Che cioè il bel gesto di un autore di cinquecento copie purtroppo nel mondo conta poco, ma quello di un autore da primi posti in classifica, quello sì qualcosa sposta: almeno nell’opinione pubblica. Se Dio vuole.
Pur condividendo le osservazioni di De Monticelli sulla natura pelosa dei commenti alla decisione di Vito Mancuso, temo di non poter condividere il senso morale di quella decisione.
Nella dicotomia nota ai filosofi della politica tra strategie di ‘exit’ e di ‘voice’ (Hirschmann) la decisione di Mancuso si configura come una classica strategia di ‘exit’. Le strategie di exit sono tipiche dei contesti di mercato, dove la comunicazione tra gli attori avviene nella forma astratta dell’acquisto o non-acquisto di un bene/servizio: se quel ristorante mi piace ci torno, se non mi piace non ci torno; se quella compagnia aerea fa un buon servizio la prendo di nuovo, altrimenti ne prendo un’altra, ecc. Il dissenso e la critica a prodotti e servizi avviene, nelle strategie di exit, in forma rigida ed individuale come accettazione o rifiuto, on / off, senza mediazione e senza tentativi di coinvolgere altri nel giudizio. Come Hirschmann ricorda, questo tipo di strategia, anche se talora obbligato, è piuttosto inefficiente quanto alle capacità di migliorare i servizi o prodotti in questione, quali che siano. La strategia alternativa è quella detta di ‘voice’, voce, per cui di fronte ad un prodotto o servizio carente sotto qualche aspetto faccio notare al fornitore il difetto e lo prego di migliorarlo; ed in seconda istanza condivido le mie critiche con altri. Questo tipo di strategia ha maggiori costi di transazione, ma è, quando riesce ad essere implementata, infinitamente più efficace nel migliorare i relativi prodotti/servizi.
Ora, a mio umile avviso, la posizione di Mancuso è errata, non perché sia ‘moralista’, ma perché opera in una direzione essenzialmente sbagliata: la strategia di ‘exit’, qui la rinuncia alla collaborazione con Mondadori, assume che la controparte sia bisognosa di redenzione, ed irredimibile. Ma se Mancuso riteneva che la proprietà di Mondadori avesse comportato delle limitazioni specifiche al modo in cui Mondadori esercita il suo ruolo di editore, la prima cosa da fare sarebbe stata di criticare tali eventuali strategie editoriali. Tuttavia, da quanto dice lo stesso Mancuso, non sembra che sulla sostanza dell’attività editoriale in questione ci siano appunti da fare. Ma allora qual è il punto? Mi sembra di capire che l’unico punto sostanziale sia il rifiuto di contribuire in alcun modo, sia pure marginale, ad accrescere i benefici economici di cui gode il presidente del consiglio. Se però questo è davvero il punto, allora la strategia giusta sarebbe di supportare apertamente un boicottaggio economico di tutte le attività economiche afferenti al sig. B. Questa e non un’ineffettuale iniziativa individuale sarebbe stata una proposta all’altezza di quelle motivazioni. Agendo come ha agito, invece, Mancuso colpisce l’oggetto sbagliato.
Proviamo ad immaginare, secondo una interpretazione ‘rule-utilitarian’ dell’imperativo categorico, qual è il senso del gesto di Mancuso: se tutti gli autori (e perché limitarsi agli autori, anche i lavoratori, i redattori, giornalisti, ecc.) afferenti a Mondadori ritenessero di seguire l’esempio di Mancuso, apparentemente ottimizzando il valore simbolico che Mancuso ritiene di star trasmettendo, il risultato finale sarebbe non solo il ridimensionamento di una ottima casa editrice, ma soprattutto la creazione di un ghetto culturale per cui nella casa editrice appartenente al sig. B. devono lavorare solo supporters del medesimo, portatori delle medesime istanze culturali (beh, culturali sarebbe qui una parola grossa…), pubblicando solo testi coerenti con tale ortodossia, ecc.. Avremmo ottenuto la creazione di una Retequattro dell’editoria. Come sempre accade nelle strategie di exit, il prodotto ne esce eguale o peggiore di prima. La posizione alternativa (voice) è quella di continuare a dire, ad esempio, che la programmazione televisiva di Retequattro fa ribrezzo e che andrebbe migliorata per il bene comune, rifiutando l’obiezione di quelli che ribatterebbero: ‘se non ti piace, sei libero di non guardarla’ (exit). Che sono poi gli stessi che, quando si criticano i difetti della propria città o del proprio paese ti ripetono: ‘se non ti piace puoi sempre andartene altrove’. Per inciso, che una persona decente che vive nell’Italia attuale abbia la tentazione frequente di lasciare il paese è psicologicamente comprensibile, e talvolta anche materialmente inevitabile, ma certamente non è eticamente (né politicamente) costruttivo. Ciascuno di noi ha il diritto ma anche il DOVERE, di aprire la bocca sulle cose che non ci piacciono.
In conclusione, pur essendo convinto della perfetta buona fede di Mancuso, credo che la sua scelta sia un esempio di errore morale, nei sensi pertinenti di moralità qui in questione. Si tratta di una scelta astratta che, contro le intenzioni di chi la compie, incoraggia ad atteggiamenti rinunciatari ed individualisti.
Ringrazio Andrea per la dottrina con cui ha inquadrato un dilemma che molti lavoratori della Mondadori certamente negli anni si sono posti e che Mancuso ha avuto se non altro il merito di far dibattere pubblicamente. Mi riferisco, in particolare, alle frequenti discussioni che nel tempo ho avuto con altri colleghi giornalisti della Periodici, ben più coinvolti ed esposti – basti pensare al ruolo chiave sul piano politico-culturale (e lo dico senza velo d’ironia) di una testata come Chi – dei colleghi della Libri. Tra andarsene e restare, generalmente, si concludeva in favore della seconda ipotesi, proprio adottando una strategia di voice. Premetto che parlo di persone generalmente di poca o nessuna notorietà, salvo nella cerchia della loro professione, benché ricoprenti talvolta ruoli di un qualche potere decisionale. Egualmente, tuttavia, esse si sentivano chiamate a decidere, perché non è anzitutto in forza delle sue possibili conseguenze pratiche – spesso di difficile ricognizione – che una scelta d’ordine morale (e politico) si pone, bensì dei valori che si sente di dover incarnare. Restare, allora, pareva trovare – in assenza di alternative all’altezza – una giustificazione proprio in quel valutare una casa editrice, ma soprattutto un giornale, come una realtà che idealmente dovesse sempre continuare a ospitare al suo interno sensibilità e voci disallineate. A quel punto, però, implacabile arrivava la valutazione anche in merito alle conseguenze di una scelta del genere: ok, restare; ma per fare che, date le altrui forze soverchianti? Sabotare no, perché contrario ai principi suddetti. Testimoniare sì, però, e negoziare, a mezzo del dialogo, della discussionea, dell’assenso o del diniego. Piccole cose, gesticolazioni vane forse, ma che altri al tuo posto non farebbero. Così, nel processo di omogeneizzazione politico-culturale dei corpi redazionali, accetti una condizione di minorità per difendere il principio che un’impresa culturale di quel genere – per tentare di restare all’altezza del suo compito – deve mantenersi dialettica al suo interno: l’opposto di quanto si vedeva praticato nella progressiva “militarizzazione” dell’informazione. Per Mancuso, però, la questione si pone in modo diverso. Egli non ha un piano editoriale da attuare (e interpretare): è libero di scrivere quel che vuole, come dice lui stesso; paradossalmente, quindi, proprio per questo è privo di un terreno su cui intraprendere una qualche strategia di voice. O meglio, una strategia di voice rivolta all’interno della Mondadori. L’unica strategia praticabile, quindi, assomiglia a una strategia di exit, ma è tutt’altro che la risposta a un prendere o lasciare. Mancuso non si è limitato, infatti, ad andarsene quatto quatto dal ristorante per non tornarci più, come un po’ furbescamente avrebbe voluto Battista; lui ha richiamato l’attenzione di altri avventori – e di alcuni in particolare – sul fatto che di là, nelle cucine, grazie alle protezioni di cui gode il titolare, anche i piatti più prelibati vengono preparati violando obblighi che altri sarebbero tenuti a rispettare. Fa notare, poi, che vantare una clientela prestigiosa, al di là della bontà della cucina, dà lustro e contribuisce ai guadagni immeritati del locale, facendoli complici della reiterazione di una condotta che viola la leale conduzione dell’arte della ristorazione, a tutti loro cara (almeno a parole). Gli altri non l’hanno seguito. Ma se l’avessero fatto, sanzionando pubblicamente la violazione della buona regola, avrebbero al contempo premiato chi invece la rispetta, nel breve e forse anche nel lungo periodo. Certo, Mancuso è rimasto solo. Nel breve, quindi, influisce ben poco. Ma anche così – data l’eco che la questione ha avuto – non possiamo sapere se nel tempo la sua scelta, banché isolata, non contribuisca a selezionare pratiche migliori nei rapporti tra impresa e politica. Il conflitto d’interessi, se pubblicamente impugnato, può comportare pesanti costi. E può bastare una voce, se ascoltata, a importeli. Credo che questa lezione sarà tenuta più presente, ora.
Ringrazio Andrea Zhok per la spiegazione da manuale, applicata ad un caso anch’esso da manuale.
L’errore di Mancuso mi è evidente (pur mantenendo il dovuto rispetto per una scelta personale).
Quel “non ci sto” non è sorretto da ragioni necessarie. Sufficienti forse si: quando uno ritiene che la misura sia colma, fa bene ad andarsene. Tuttavia le implicazioni del gesto non sono sempre chiare e lineari.
Quel gesto reclamerebbe l’imitazione, vorrebbe essere l’esempio da seguire. Ma con quali conseguenze? Creare la Rete4 dell’editoria…?
Il rischio di una posizione di exit è anche quello di dividere il mondo fra buoni e cattivi. Che succede, che i buoni fonderanno una propria casa editrice? un proprio quotidiano? Mangeranno solo cose prodotte dai buoni? Cercheranno di isolare nel loro piccolo ghetto i cattivi (salvo poi scoprire che non è tanto piccolo)?
Preferisco le ragioni del pluralismo che portano a tenere aperto il confronto, viva la discussione e il conflitto (ahi!).
Saranno i cattivi semmai a violare le ragioni del pluralismo, invocando le categorie del tradimento o della ingratitudine. (Ma come: scrivi per Mondadori e ne critichi il proprietario/la linea editoriale?)
Il caso di Fini mi sembra emblematico.
Exit e voice valgono anche nel caso di organizzazioni di rappresentanza sociale o politica.
Chi esprime una critica, chi dissente apre subito un problema: quanto è tollerabile per un partito mantenere posizioni di aperto dissenso rispetto alla linea della maggioranza (o del capo)?
Fino a dove il dissenso e la critica si possono spingere senza incrinare l’identità e l’unità del partito?
Se e solo se la voice non è una strategia praticabile allora l’exit è necessitata. Ma anche qui la situzione prevede due possibilità: l’espulsione (capitata a Fini) o la scissione. Non sono – evidentemente – la stessa cosa. Ben più forte è la posizione dell’espulso rispetto allo scissionista. Il primo può rivendicare il possesso dei requisiti autentici, l’adesione ai valori originari. Il secondo no: te ne vai perchè hai altri progetti, cambi bandiera.
P.S.
I dipendenti dell’azienda Mondadori sono in una posizione che non è riassumibile per intero dallo schema exit-voice. Per loro valgono le regole del lavoro subordinato: tra cui quella della fedeltà verso l’azienda. Il loro diritto di critica è quindi diminuito (sia internamente che esternamente).
Un giornalista è un dipendente di una natura particolare, perché oltre al codice etico aziendale, comune a tutti i dipendenti, risponde anche e un codice deontologico, tanto da avere un parere consultivo sul piano editoriale del giornale e il diritto al ritiro della firma nel caso lo ritenga leso. Quindi ha uno spazio, seppur limitato e spesso puramente teorico, per esercitare una strategia di voice. Per quanto riguarda Mancuso, però, continuo a non capire perché la sua strategia di exit – almeno in linea di principio – non possa contribuire a premiare imprese/editori più rispettosi dell’etica pubblica (“di sinistra” o “di destra” qui è irrilevante…) e delle buone regole di mercato, ovvero, meno inclini a ottenere benefici sfruttando una particolare (in questo caso direi: unica) capacità di sostegno politico. Non è un mondo migliore un mondo in cui le case editrici sono tutte Rete 4 di destra o di sinistra, ma è un mondo migliore quello in cui chi ha il potere per far pagare un prezzo a chi usa la propria posizione politica per agevolare le proprie attività d’impresa glielo fa pagare. Mancuso aveva questo potere? Difficile (anche per lui) valutarlo, prima di tentare di esercitarlo (agiva in condizioni d’informazione incompleta sull’orientamento degli altri autori Mondadori, anzi molto incompleta da quel che abbiamo visto). Se altri avessero agito come lui, tuttavia, credo che questo avrebbe rafforzato nella società le ragioni dell’etica pubblica e della leale concorrenza (non è forse un caso di utilitarismo delle regole?). Le cose sono andate diversamente, certo. Ma questo è sufficiente per dichiarare che ha commesso un errore morale/politico? E su quale orizzonte temporale valutiamo le conseguenze di quel gesto che potrebbe al contrario essersi imposto come oggettivamente esemplare per molti? Un precedente, anche se è il solo, non sempre è nulla. A volte è un monito dalla eco durevole. A proposito di precedenti durevoli e strategia di voice ed exit, però, chi voglia riflettere su un dilemma di ben altra portata e drammaticità, segua stasera, a «La storia siamo noi», ore 23,50, su RaiDue, la vicenda professionale e umana di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore, incaricato dalla Banca d’Italia, delle banche di Michele Sindona, ucciso nel 1979 dal killer dell'”innovativo” e “geniale” finanziere siciliano che negli anni 70 fece fortuna a Milano tra coperture politiche, bancarie e piduiste. Non si capisce l’Italia se non si ricorda quel delitto. E non si capisce che cosa sia la moralità se non si onora Giorgio Ambrosoli.
Non avendo seguito quest’estate le polemiche sulla decisione di Mancuso di abbandonare la casa editrice Mondadori, non posso dare giudizi sensati sulla faccenda, se non notare con amarezza che in Italia i dibattiti pubblici finiscono ormai quasi inevitabilmente per scimmiottare la Commedia dell’arte e, apparentemente, non c’è modo per uscire da un canovaccio sin troppo prevedibile e sconfortante (di cui l’articolo sardonico di Battista sembra ormai essere un appendice ineluttabile).
Leggendo l’interessante dibattito che si è andato sviluppando sul nostro blog mi è venuto però da pensare che un punto centrale della questione, per così dire, “teorica” sollevata dal gesto di Mancuso concerne la natura degli atti “esemplari” e, in particolare, la loro specifica forza o valenza normativa. Gli atti esemplari sono atti di testimonianza che avanzano la pretesa di essere, per così dire, moralmente autoevidenti o autoesplicativi. Funzionano perciò benissimo quando si stagliano su uno sfondo non ambiguo. Se il contesto è omogeneamente negativo, un atto di segno contrario parla da sé, vive di luce propria e afferma la propria positività in maniera non controversa. L’esempio di Ambrosoli, degli oppositori interni al nazismo o delle vittime della mafia stanno lì a dimostrarcelo e la loro stessa esistenza è una sorta di prova vivente della forza normativa delle ragioni morali. Lo stesso potrebbe dirsi degli exempla negativi: da Caino a Pol Pot. Ma i casi incontrovertibili non esauriscono lo spettro dei casi possibili. Che dire di quando si scommette sull’esemplarità di un gesto, ma nemmeno l’autore ha la certezza della sua natura realmente esemplare? Il gesto di Mancuso mi sembra appartenere a questa tipologia di atti. Avanza la pretesa di essere un gesto esemplare – che trascende cioè la polarizzazione consequenzialista tra voice ed exit – ma non lo è inequivocabilmente, perché il contesto in cui avviene è ambiguo.
Posso ovviamente sbagliarmi, ma questo mi sembra un caso da manuale di “sorte morale”, in cui si scommette, per così dire, sulla moralità assoluta di un gesto, ma in realtà non si è in grado di controllare pienamente il suo significato ultimo (l’apparentemente tragico potrebbe in realtà rivelarsi ridicolo; la pretesa di testimonianza non sopravvivere al suo manifestarsi; ecc.). Dal mio punto di vista, simili casi sono moralmente persino più interessanti di quelli incontrovertibili. E senza dubbio sono quelli a cui ci pone più frequentemente di fronte l’ingarbugliatissima e gattopardesca situazione italiana.
Temo che Paolo abbia ragione. In effetti, anche io in queste settimane ho continuato a girarmi e rigirarmi tra le mani il caso – anche un po’ accademicamente – per saggiarne la pregnanza morale, proprio come si fa per sincerarsi dell’effettivo colore o forma di qualcosa in condizioni di luce e/o di visione prospettica non ottimali. Sono propenso a credere, in effetti, che l’esperienza dei fenomeni morali – analogamente a quella di un colore (o di una forma) percettiva – debba avere possibili optima. Come pure, e per la stessa ragione, possibili sfumature. In tutto questo, un ruolo lo giocano le condizioni (e i rumori) dello sfondo. Le azioni, per fungere da casi esemplari, come accade ai campioni di colore in relazione a una certa stoffa, devono essere assoggettabili a un buon ordinamento secondo regole. Non so se qui sia il colore della stoffa a non essere abbastanza saturo. O le regole di campionamento a non essere più chiare.