Il problema posto da Vito Mancuso (d’ora in poi, “V.M.”) è se gli autori Mondadori – compresi quelli Einaudi! – possano continuare il loro rapporto con “chi speculerebbe sugli appoggi politici di cui dispone” per evitare di pagare il fisco. Molti di loro sono intervenuti, ma, a dire il vero, non con la perspicuità che sarebbe stata desiderabile. C’è invece stata un’interessante risposta della casa editrice, addirittura firmata “Arnoldo Mondadori editore” (d’ora in poi, “AMe”), accompagnata a p. 9 della Repubblica di Domenica 22 Agosto da una breve replica di Massimo Giannini (“M.G.), il cui articolo sulla “legge ad aziendam”, pubblicato Giovedì 19 Agosto, aveva così turbato V.M.
Tranne M.G. e A.M.e., tutti si dicono perplessi. Cercherò di mettere a fuoco alcuni aspetti del problema, come economista e come cittadino.
Il dato di fondo mi sembra quello della lentezza del contenzioso tributario. Qui mi pare che la A.M.e. abbia ragione. La nuova legge permette di sostituire alla prosecuzione in Cassazione del procedimento, un’oblazione pari al 5% della somma origianariamente dovuta. E A.M.e. riferisce che il suo CdA ha deciso di avvalersene. Essa sostiene anche di restare “un’azienda che…fa della correttezza cristallina dei comportamenti imprenditoriali, della responsabilità di una casa editrice una bandiera sempre tenuta alta”, ma forse questa è una pretesa eccessiva, in vista ad esempio dei tentativi del Sig. Berlusconi, attraverso apposite leggine, di mantenere in servizio il magistrato Carbone (sì, proprio quella della “P3”!) affinché in Cassazione la causa fosse affidata in buone mani. E’ possibile che la decisione di “evitare il protrarsi della situazione”, come dice la A.M.e., si collochi sulla “strada maestra di un’impresa”: almeno, se il rischio di una sconfitta finale, dopo la vittoria nei due primi gradi di giudizio, sia percepito come elevato: come l’intenso lavorio del Sig. Berlusconi per precostituire la sede e il personale del giudizio lascerebbero pensare. Ma non vi è dubbio che, come osservano M.G. e V.M., la “correttezza cristallina” sarebbe stata meglio perseguita con la prosecuzione della causa. Dunque, nel CdA di A.M.e. vi è stato o un riconoscimento immediato della priorità della prima esigenza sulla seconda, o una ponderazione conclusasi a favore della prima. Forse un argomento polemico usato sia da M.G. sia da V.M., quello secondo cui la proclamata certezza nella bontà della propria ragione da parte della A.M.e. avrebbe dovuto indurla a proseguire nella causa piuttosto che troncare con un’oblazione non è del tutto corretto. Infatti la certezza soggettiva nella propria ragione in una causa non è condizione né necessaria né sufficiente per vincerla! Dunque le ragioni della AMe sono chiare: per evitare il rischio di dover sostenere un pagamento alquanto ingente, soprattutto se comprensivo degli interessi, ha accettato la via dell’oblazione.
Glielo si può rimproverare? Non si è comportata semplicemente in mod “responsabile”? Si potrebbe sostenere che glielo si possa rimproverare se la A.M.e. si fosse dedicata ad un’intensa azione di lobbying per otttenere l’approvazione del provvedimento contestato. Perché allora A.M.e. non potrebbe più sostenere di essersi limitata ad applicare una legge. Il lobbying sarebbe un’azione magari anch’essa legittima, ma sempre più lontana dalla “correttezza cristallina dei comportamenti imprenditoriali”. Ma c’è stata? No e sì: un lobbismo tutto in famiglia, anzi, in una sola persona: il Sig. Berlusconi come proprietario ha premuto sul Sig. B. come Presidente del Consigio e quest’ultimo, con un’azione sistematica in diverse fasi, bene illustrata nell’articolo di M.G., è finalmene riuscito a portare a…casa il risultato.
È un buon provvedimento? Non è dei peggiori. Tolto il fatto che il governo dovrebbe occuparsi delle cause della lunghezza dei contenziosi, non di incoraggiare le imprese a sottrarsi ai loro obblighi fiscali sfruttando la lunghezza dei processi. Avrebbe più senso come norma transitoria di una riforma ben articolata del settore. Il problema è il solito. Il Sig. Berlusconi è al governo, ma il suo governa non governa. Lo aiuta nel disbrigo dei suoi affari privati.
Come rispondere, in conclusione, al dilemma di Vito Mancuso? Confermando ciò che lui stesso ha già dichiarato di sospettare: che distinguere tra la proprietà dell’azienda e la sua gestione, fin tanto che il proprietario è il Signor B., è purtroppo impossibile.
Personalmente la vedo così. Qualunque impresa responsabile, pur convinta delle proprie ragioni, tra pagare ora un prezzo relativamente piccolo e aspettare il terzo grado di giudizio nella speranza, incerta come sempre nella giustizia terrena, di non pagare nulla, avrebbe scelto la prima soluzione. L’incertezza di una sentenza pendente sul capo di un’azienda, unita al rischio di pagare molti più soldi in caso di sconfitta, è motivo più che sufficiente per pagare di meno e subito. Non vedo nulla d’immorale in questo, a meno che si pretenda da una persona giuridica qualcosa che va oltre anche la più spinta delle teorie sulla responsabilità sociale d’impresa. Mancuso, quindi, secondo me, manca il bersaglio. Il vero problema è che questo è un ennesimo caso di conflitto d’interessi dell’imprenditore e politico B. e forse neppure dei più palesi e gravi. Non tutti riguardavano la Mondadori, certo, ma alcuni sì, a partire dal lodo con cui entrò in possesso della casa editrice (nodo che presto arriverà al pettine, per totali 750 milioni di euro). Sollevare così il caso di coscienza, quindi, credo abbia solo nuociuto alla causa. Inoltre, non dobbiamo dimenticarci che il conflitto d’interessi nel nostro Paese è un problema che, certo, si manifesta in B. in modo esemplare, ma che ha radici estese. Nel leader ritroviamo i vizi del Paese, che anche per questo non ha finora avuto remore a votarlo. La buona notizia è che anche Mancuso abbia iniziato a percepire la portata morale del problema.
Non conoscendo il provvedimento di legge nei dettagli mi scuso se forse dirò una bestialità, ma se, come pare dai giornali, si tratta per una delle parti coinvolte in una causa di risarcimento di poter scegliere FINO AL TERZO GRADO DI GIUDIZIO, se arrivare fino in fondo o risolvere il contenzioso pagando il 5% DEL DOVUTO, beh, forse dire che, come provvedimento “non è tra i peggiori”, è un po’ un understatement… Mi chiedo d’ora in poi, in una causa per risarcimento, chi accetterà più un patteggiamento in primo grado, se può rinviare il pagamento fino al terzo e poi arrivare comunque ad un patteggiamento estremamente favorevole. A prescindere dal caso Mondadori, mi pare l’ennesima legge motivata da interessi personali e destinata a produrre rimarchevoli danni alla collettività.
(Che poi uno possa o debba utilizzare solo fornitori di servizi privati che abbiano una specchiata moralità, questa mi pare nel migliore dei casi un’ingenuità, nel peggiore una sciocchezza strumentale: per chi voglia un resoconto delle svariate nefandezze di cui si sono macchiate in tempi e situazioni diversi più o meno tutti i grossi operatori sul mercato privato, italiani ed esteri, esistono innumerevoli pubblicazioni nella letteratura sulle responsabilità aziendali che lo illumineranno sulla necessità di mettere al più presto in piedi un orto autarchico…).
Con Stefano Cardini, siamo sostanzialmente d’acccordo, con una sfumatura di differenza nel giudizio sull’iniziativa di Vito Mancuso, che io personalmente apprezzo. Ne abbiamo discusso più diffusamente su Facebook dove abbiamo trovato una posizione comune.
Con Andrea Zhok, pure. La sua osservazione sulla proprietà del provvedimento, di incentivare a proseguire nel contenzioso è centrata. E’ per ciò che nel mo breve articolo sostenevo che poteva semmai passare come norma transitoria…ad un nuovo regime del contenzioso al quale pure bisognerà pensare.
Nuove osservazioni sul problema di Mancuso.
E’ ora manifesto che se, come forse Vito Mancuso, ci fossimo aspettati un contributo decisivo da Eugenio Scalfari, questo non è venuto.
Dovremo procedere con i nostri lumi.
Ad un estremo, c’è il nostro affidamento al mercato. Anonimo. Fluttuante. Episodico. Non-discriminatorio perché intrinsecamente, volutamente non-discriminante. Dove la personalità morale degli scambisti, la loro storia, i loro fini, contano solo nella misura in cui possono incidere su quella specifica transazione: cioè di solito, poco o nulla. Non vi è ormai chi non riconosca gli enormi guadagni sociali di organizzare così le nostre transazioni: in termini non solo di prosperità, ma anche di libertà.
All’altro estremo, c’è la nostra esigenza di avere meno possibile a che fare con un soggetto, se veniamo a sapere che è un malfattore. Certamente non vorremmo esserne complici. Più in generale, non desideriamo avallare con la nostra collaborazione, anche in una eventuale sua nicchia di attività legale, le sue mene. E questo, anche se l’omessa collaborazione ci costasse qualcosa.
Vi è dunque una tensione tra questi due atteggiamenti, e il complesso di giudizi ad essi sottesi. E’ probabile che la vera riconciliazione tra essi si trovi nel fatto che l’assunto non-discriminante costitutivo del mercato sia di natura essenzialmente metodologica, viga sino a prova contraria.
Nella discussione suscitata da Vito Mancuso, diversi tentativi sono stati proposti per spiegare e giustificare la continuazione della collaborazione con “Arnoldo Mondadori editore”. Alcuni hanno implausibilmente sostenuto che è la divisione del lavoro all’interno dell’azienda che consente di effettuare la separazione: gli scrittori collaborano con i redattori, personalmente del tutto innocenti, bravi, amabili. Non con la casa editrice come azienda. Altri hanno affermato l’irrilevanza di ogni aspetto dell’attività dell’azienda, che non vincoli il contenuto delle loro opere.
In un modo o nell’altro, nel complesso dell’interazione con l’azienda vengono isolati alcuni aspetti, e viene asserito che essi solo sono eticamente rilevanti. Anche Vito Mancuso in un certo senso ha fatto così. Anch’egli infatti ha proposto un suo criterio di separazione, quello della distinzione tra proprietà e gestione. Se ad esempio proprietaria della Mondadori fosse la Mafia, ma non interferisse con l’ottimo lavoro dei suoi impiegati, non vi sarebbe da preoccuparsi. Non solo il suo criterio di separazione è diverso e prevede una visuale più ampia degli altri due: Mancuso stesso si è chiesto se possa funzionare. Date le rilevantissime e illecite attività di (auto-)influenza politica esercitate dal proprietario di AMe a favore della sua azienda, parrebbe proprio che non possa.
Resta il problema generale di quale sia il criterio di separazione giusto: di come si possa cioè circoscrivere l’area, oltre la quale saremmo autorizzati a essere, o a pretenderci, ciechi. Penso il criterio giusto sia quello di Mancuso. Questo dipende dalla specificità dell’attività editoriale, in cui il nome della casa editrice ridonda su quello dell’autore, e viceversa quello dei suoi autori ridonda sulla reputazione della casa editrice. L’interazione non è dunque episodica ma ha un elemento di permanenza, di continuità. L’identificazione, la conoscenza reciproca, avvengono, anzi sono un aspetto specifico di questo tipo di rapporto, che è economico e morale. La casa editrice è un veicolo dei pensieri e dei valori dei suoi autori. Per questo, del resto, la AMe rivendica nella sua risposta a Mancuso la “corretteza cristallina dei propri comportamenti”, senza rendersi conto di averla perduta per sempre.
Dunque, parrebbe che gli autori possano rivendicare una sfera di cecità meno ampia di quanto hanno indicato. Se il criterio di Mancuso funzionasse, potrebbero attenersi a quello. Ma ne abbiamo dovuto constatarne l’intrinseca fragilità…